FRANCESCO JOVINE

 Nacque a Guardialfiera, Campobasso  il 9 ottobre 1902  e  morì a Roma nel 1950..

Il padre  era un piccolo proprietario terriero e perito agrimensore che amava raccontare storie paesane.

Frequentò con molti sacrifici prima l’istituto magistrale e poi la facoltà di magistero di Roma  dove si laureò in filosofia e  divenne assistente di Giuseppe Lombardo Radice.

 In seguito ottenne  una direzione didattica portando avanti sia gli studi pedagogici

( era marito della pedagogista Dina Bertoni) che quelli  letterari.

A causa di rapporti non idilliaci con la cultura ufficiale lavorò  dal1937 al 1940 presso le scuole italiane di  Tunisi e del Cairo.

Di formazione gentiliana, passò più tardi al crocianesimo realizzando  un antifascismo liberaleggiante sul modello di Croce.

Nei suoi articoli disse che si ispirava a Flaubert, Zola, Verga.

In sintonia con l’atteggiamento di Croce, ipotizzò un’arte innestata sul tronco della tradizione italica che fosse “ riconquista di un atteggiamento umilissimo di fronte alla realtà

Nell’autunno del 1944 fondò con Corrado Alvaro il Sindacato nazionale degli scrittori.

Si ispirò agli illuministi meridionali ma anche a Manzoni, Nievo, Verga , Pirandello.

Si dedicò a studi storici sul Mezzogiorno e alla lettura dei grandi narratori ottocenteschi da Tolstoj a Verga.

Al centro della propria opera  mise il problema della terra, considerato il  leit motive  della continua conflittualità nel Sud prima tra nobiltà e servi della gleba, poi tra borghesi e contadini.

Servendosi di metodiche ricerche storiche, approdò ad una narrazione precisa e rispettosa degli accadimenti,  pur  non trascurando l’aspetto sociale e le reazioni psicologiche dei  suoi personaggi, pazienti testimoni, vittime di un’ ingiustizia che non conosce tregua.

Berluè, 1929, si modellò su Collodi dando vita ad  una favola per bambini con un finale lieto.

Il suo primo romanzo, del 1934,  Un uomo provvisorio , definito  “ un’autobiografia  mentale”, fu assai criticato dal regime che ne impedì una seconda edizione.

Il protagonista è un provinciale inurbato, Giulio Sabò,che dalla noia e dalla solitudine di Roma, tornato nel paese natio per la morte del padre, cerca  con la sua professione di medico di rendersi utile per i contadini.

C’è una rappresentazione assai critica della città e del suo mondo corrotto.

Nella Ragazza sola, 1936-37, è in evidenza la contrapposizione tra la vita di città e quella di campagna. Livia Dolegani abbandona la provvisorietà della vita cittadina e va ad insegnare  tra i contadini della Ciociaria.

Ne “ Il Ladro di gallina, 1940 , un giovane trovatello che vive di espedienti, muore sotto i colpi di randello da parte dei derubati.

Successivamente l’antifascismo, la guerra , la Resistenza, la caduta del fascismo, portarono lo scrittore ad una narrativa fondata sulla realtà e sull’impegno.

Signora Ava, 1942,  presenta una ricchezza di livelli di scrittura e di strati linguistici.

Lo sfondo storico si fa più netto – venuta nel Molise dei piemontesi nel 1860 –  anche se persiste  in un’atmosfera di “fiaba”, il racconto di un passato remoto rivisitato con sorridente bonomia.

Gli eventi storici e i racconti degli abitanti, assumendo  un alone di leggenda epica, a causa dei  toni favolosi e nostalgici,  si snodano tra recupero memoriale e impegno meridionalistico

L’ immobilismo dei poveri contadini delle campagne del Molise unisce senza contraddizioni passato e presente in una eterna staticità.

 Sul frontespizio del libro viene riportato un canto popolare del Mezzogiorno:

 “ O tiempo da Gnora Ava/ nu viecchio imperatore/ a morte condannava/ chi faceva a’mmore

Viene narrata  la storia di una famiglia di possidenti, i de Risio, ambientata a Guardialfiera, un paese del Molise che fa da sfondo  alle loro vicende: il povero prete Matteo Tridone, vessato e impaurito dai canonici della zona e costretto ad

“ arrangiarsi” per vivere; i servi dei de Risio, rassegnati a una secolare sottomissione, i contadini, con la loro nera miseria e le loro case umide e nude; i “ galantuomini” che passano il tempo a lanciarsi epigrammi, a giocare a tre sette, ad escogitare sistemi per imbrogliare i “ cafoni”; i briganti e i garibaldini.

Don Matteo era seduto su una panca all’ombra di un olmo carico di bacche e di foglie… di tanto in tanto dava un’occhiata distratta al breviario che aveva aperto sul ginocchio sinistro…

…Il prete era senza sottana: in panciotto , brache e collare…

…Don Matteo Tridone veniva dalla campagna; era stato a caccia e portava sulle spalle un vecchio trombone che se avesse veramente sparato avrebbe rappresentato un serissimo pericolo per la sua vita. Il trombone gli serviva di pretesto per entrare nei campi e negli orti dove rubava pomodori, peperoni e zucche. Se capitava su un’aia deserta usava anche la fava col cappio per la cattura delle galline. A volte non aveva bisogno di rubare; i contadini gli offrivano le verdure e le uova; i polli glieli davano solo per le messe funebri e le galline quando faceva almeno cinque miglia per portare il viatico a qualche vecchio contadino, nelle masserie di Licineta…

…Ripeteva la stessa visita in quattro cinque case di galantuomini, ingozzava quattro o cinque caffè, faceva provvista di lardo e di cacio e tornava a casa. Il giro era quotidiano, ma don Matteo non visitava sempre le stesse persone; aveva stabilito un turno settimanale che seguiva con una certa regola. Si presentava sempre con la stessa menzogna e otteneva presso a poco sempre gli stessi benefici: le sue benefattrici da anni avevano piena conoscenza della interessata ipocrisia del prete , ma l’accettavano ormai come una consuetudine inevitabile, inerente al loro stato di gente ricca che mangiava regolarmente e aveva cinquecento ducati nascosti o dati ad usura…

…Casa  de Risio decrepita, tutta a borse, a toppe, a chiavi metalliche di sostegno, era squallida e tetra. Dentro vi si svolgeva la solita vita invernale. Di diverso dai mesi dell’autunno precedente c’era una tendenza accentuata a soffermarsi nella grande cucina dove il fuoco era tenuto alto da Marietta e Fugnitta. Vi capitava spesso anche don Eutichio, magro, allampanato, soffiante,che parlava intramezzando le parole di fiotti e di sospiri, di oscuri presagi, di miserie, di luttuosi avvenimenti prossimi. Il suo male s’era, con la cattiva stagione, accentuato: girava per casa imbottito di giacche e di panciotti, avvolto in scialli pesanti di lana. Dormiva pochissimo ed era sempre presente dappertutto: vigilante, scaltro, malato e apatico in apparenza, ma in realtà puntiglioso, sornione e malevolo.  Don Matteo , quando compariva Don Eutichio, abbandonava la cucina…

Il pastore sepolto , 1945, è una raccolta di racconti che analizza la decadenza della borghesia agricola, messa a tacere dal ceto dominante : da ciò derivano le migrazioni e la crisi della campagne per la mancanza di mano d’opera.

L’impero in provincia, 1945, è  raccolta di racconti ispirata all’antifascismo.

In entrambe le opere  c’è il delinearsi di un giudizio riduttivo sul Risorgimento  con motivazioni che più recentemente una parte della critica storica ha fatto proprie.

Più tardi l’adesione al partito comunista, la collaborazione impegnata a giornali e riviste della sinistra, il riaprirsi del problema meridionale,  portarono lo scrittore ad un’attività narrativa intensa in cui i motivi personali – il giovane intellettuale meridionale inurbato, l’arretratezza del Sud, la necessità di terra ai contadini – furono ripresi con nuova consapevolezza politica e poetica.

In un saggio apparso nel1947 e poi confluito in “ Viaggio nel Molise” , 1967, Jovine fece un’analisi acuta della questione meridionale dal 1797;  chiuse con la speranza di continuare la “ rievocazione fantastica dei casi e dei moti dell’anima meridionale

Il romanzo postumo,  Le terre del sacramento” 1950,( premio Viareggio) rappresenta una   sorta di epopea del lavoro contadino, un affresco corale di tutta una terra  ma anche una commossa celebrazione “ verista” della propria terra  e delle  drammatiche lotte contadine nei primi anni del fascismo.

 Emerge la figura positiva di un intellettuale che muore in difesa dei contadini al tempo della violenza squadrista.

Con questo romanzo, dal  realismo corposo, che trovava in Verga uno dei modelli essenziali, lo scrittore sembra realizzare la vera incarnazione della nuova prospettiva di tipo “ gramsciano”: infatti Luca, rinunciando alla sua posizione di intellettuale piccolo borghese, si trasforma in intellettuale” organico” della classe degli sfruttati.

La struttura narrativa, pur sempre verghiana, appare  più moderna  e più ricca di coralità.

L’opera si riallaccia a Signora Ava nel secolare contrasto per il possesso della terra tra cafoni e galantuomini.

Anche se spesso l’ideologia prende il sopravvento sulla narrazione, prevale la dimensione “ realistica” , la capacità cioè di comprensione e di rappresentazione organica di tutta una società libera da qualsiasi condizionamento.

I temi tradizionali del feudo che va in rovina e del conflitto tra padroni  e contadini vengono rappresentati , con una forte carica polemica e uno stile asciutto che intreccia il rilievo di caratteri balzachiani alla coralità della struttura.

Le terre  del Sacramento, che si estendono nella  campagna di Calena, immaginario paese del Molise. un tempo feudo della Chiesa, vengono  confiscate dopo l’Unità, per giungere, nel 1867, nelle mani  di un proprietario incapace,l’avvocato Enrico  Cannavale, che le tiene sono  in stato di perenne abbandono, oltre per la sua cattiva amministrazione anche  a causa della superstizione e dell’abulia che caratterizzano quasi tutti gli abitanti dell’inerte provincia.

Per farle tornare produttive sarà necessario l’intervento della napoletana Laura De Martiis, giovane moglie dell’inetto proprietario. La donna,  intelligente e infaticabile, riesce a trovare i fondi sovvenzionata di un influente finanziere.

 Ella è aiutata nel suo compito da Luca Marano, intellettuale figlio di braccianti e studente a intervalli che riesce a convincere i “cafoni” del feudo a dissodare le terre,  considerate maledette da Dio in quanto bene espropriato alla chiesa.

In cambio Luca, sotto promessa di Laura, assicura ai contadini che si “si farà per tutti l’istrumento di enfiteusi perenne”, grazie a cui ognuno potrà lavorare il terreno che ha reso nuovamente fertile.

 La delusione del giovane sarà grande quando, invece dell’enfiteusi, vedrà arrivare gli sfratti per i contadini, ordinati da una fantomatica società tra i cui azionisti figura anche Laura Cannavale, donna da cui Marano si sente irrimediabilmente tradito.

Deciso a non abbandonare i braccianti, egli li invita tutti ad occupare le terre che spettano loro di diritto, sperando ancora nel trionfo della legalità.

In realtà, a trionfare sarà la violenza del fascismo nascente, i cui esponenti in camicia nera, al servizio della reazione agraria,  per combattere l’occupazione abusiva, compiranno una strage in cui perderà la vita lo stesso protagonista

Il tutto è collocato in una dimensione storico sociale senza filtri letterari e senza nostalgici ricordi: l’autore non si avvale dei racconti del padre, l’ingegnoso cantore, ma si serve della personale esperienza nelle campagne meridionali.

Le vicende, perciò,  appaiono nitide in quanto non sottoposte alla sfocatura delle memorie e il romanzo  è pervaso dalla fiducia nella lotta per il riscatto delle genti del Sud.

Ultimo romanzo di Jovine è una delle opere più rappresentative del Neorealismo. Qui infatti, l’autore dimostra di saper calare la vicenda narrata in un tempo presente e da lui stesso vissuto, senza tuttavia scadere dell’autobiografismo o nel cronachismo.

Il lirismo contemplativo, che aveva contraddistinto il precedente periodo di adesione all’estetica crociana, lascia ora il posto ad una rappresentazione del reale ispirata all’ideologia gramsciana.

Essa si concretizza nella figura dello intellettuale che diviene organico alla lotta delle classi popolari.

Accanto a ciò, balza in primo piano il tema della lotta sociale e politica contro il fascismo. Tipico del clima neorealista è, inoltre, il ritorno ad una narrativa regionale che focalizza da vicino la condizione dei diseredati.      

…Era  un gruppo di operai della Terra Vecchia. Uno raccontò che erano arrivati a Calena rinforzi di carabinieri; c’erano due camion di fascisti alla stazione di Pesco che si avviavano  verso Morutti. L’avevano saputo da un commesso viaggiatore che era passato in motocicletta sulla provinciale.. Per qualche ora non accadde nulla; ma i contadini che erano sparsi per i campi alzavano ogni tanto il capo, inquieti..

…All’improvviso, dalla parte di Morutri, si vide un correre affannato di donne. I gruppetti sparsi che erano ancora tra i campi raccolsero un grido disperato, lontano, e lo trasmisero di greppo in greppo. Le donne si levavano, guardavano verso l’alto e trasmettevano l’urlo…

…Luca e i compagni continuarono a correre a perdifiato. Calavano nelle vallette, rimontavano sulle serre, attraversavano macchie di rovi e di lentisco. Ma non riuscivano ancora a vedere nulla. Quando raggiunsero Cecanibbio videro, a un centinaio di passi, gruppetti sparsi di fascisti e di donne e di contadini che si azzuffavano. Le donne indietreggiavano lentamente, difendendosi, come iene, a colpi di zappa. Un gruppo di uomini, a destra, e un altro a sinistra, si erano appiattati dietro una trincea di pietre scavate nell’estate e facevano piovere una gragnuola di sassi sugli assalitori…

Luca si chinò raccolse il suo primo sasso e lo lanciò. Sentì un urlo di dolore. Un altro gruppo di fascisti spuntò a destra ma fu costretto a ritirarsi da una gragnuola  che partiva da un altro cumulo di pietre dietro il quale si erano appiattati altri contadini accorsi dai margini orientali della tenuta. Luca si chinava rapido, raccoglieva le sue pietre , mirava calmo, le scagliava sottomano e le mandava sibilando contro il bersaglio…

Qui si udì il grido di Gesualdo : “ Giù, Luca!”

Ma Luca e Marco Cece erano stramazzati con la schiena rotta, senza un grido, con le braccia levate…

…Arrivarono  i carabinieri e i soldati. Incatenarono  tutti gli uomini che venivano con le mani  nude e i visi chiusi dallo spasimo, verso il punto dove era caduto Luca Marano. Il saggio  Del brigantaggio meridionale , apparve postumo nel 1970