DECIMO GIUNIO GIOVENALE

Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, verso il 55 d. c. da una famiglia non benestante; recatosi a Roma, esercitò l’avvocatura e condusse vita modesta, cercando l’appoggio e la protezione dei ricchi signori. Fu come Orazio e Persio, seguace della filosofia stoica, per cui si mantenne, in mezzo alla corruzione, singolarmente illibato. All’età di circa 80 anni fu mandato in esilio dall’imperatore Adriano (in Egitto, oppure in Caledonia) per aver offeso nelle sue satire il ballerino Paride, favorito dell’imperatore. Morì verso il 130 d.c.

 Scrisse 16 satire, di cui l’ultima incompiuta, divise in cinque libri.

La sua è una satira del passato in quanto descrive e sferza la società del tempo di Domiziano, mentre l’autore scriveva sotto gli imperatori Traiano e Adriano (che furono buoni principi) quando i rigori della censura si attenuarono. Non bisogna però credere che la satira di Giovenale sia un’esplosione postuma di sdegno contro il passato regime (per contrasto con i tempi migliori in cui si trova) dato che è rivolta contro situazioni sociali e fenomeni di costume del tempo.

Le satire si possono dividere in 2 gruppi:

– le prime 9 hanno un tono più aggressivo e sono dirette contro i mali della società;

– le altre 7, scritte in età senile, hanno un carattere più morale in quanto il suo interesse non è politico (come in Tacito, che si concentra sul problema della tirannide e del servilismo) ma sociale, anche se ha in comune con Tacito la caratteristica avversione della latinità tradizionale al porsi problemi astratti di valore universale.

Le note di universalità della sua poesia gli provengono sempre dall’intensità del sentimento, reso incandescente dall’attrito con la realtà esterna.

Di Giovenale è nota la dichiarazione che l’indignazione è la fonte della sua poesia (Si natura negat, facit indignatio versum). Alcuni critici, partendo da questa affermazione, hanno giudicato la sua poesia solo espressione di uno stato d’animo di indignazione e di umiliazione, senza quel distacco e quel superamento della materia che alla poesia sarebbe necessario.

Infatti l’indignazione non è stata mai buona matrice di poesia, la quale esige serenità, distacco, completo e dominio della materia da elaborare. Ed effettivamente la frase di Giovenale non è solo l’espressione bizzarra di uno stato d’animo, ma corrisponde al tono dominante in molti punti dei suoi carmi.

Ma lui non poteva scrivere altro che satire dato che la satira era il bisogno espressivo della sua fantasia. E infatti, quando la sua ira si sgonfia e i suoi occhi guardano con calma e limpidezza la triste realtà che lo ha fatto fremere, egli palesa le sue vere e tutt’altro che mediocri qualità.

La I satira inizia con una polemica contro la letteratura accademica e mitologica in nome di un’arte nuova che rispetti la realtà e i sinceri sentimenti dell’autore.

Ma nella medesima satira egli dice che, a furia di contemplare lo spettacolo delle infinite e stravaganti bassezze cui lo fanno assistere i suoi contemporanei “difficile est saturam non scribere”. Tale dichiarazione non esprime tanto un proposito forzato o preconcetto, quanto invece la naturale scoperta che, sotto lo stimolo dello sdegno, ha fatto la sua autentica vena di poesia.

Alcuni critici hanno tentato di dargli un posto intermedio tra la poesia e la non poesia, confinandolo nel Limbo dei letterati, di quelli cioè che scrivono opere cui non s’addice l’ambita definizione di poetica, ma che son sempre documento non spregevole del costume e della cultura, espressione raffinata, ma poco personale di un clima d’idee, di sentimenti e di gusti. Invece egli è ancora poeta, poeta non eccelso, perché disuguale e soggetto a frequenti intermittenze, sotto il peso del suo moralismo e della sua educazione retorica, ma poeta degno del massimo rispetto nei molti luoghi in cui la sua voce si monda dal turgore della concitazione oratoria.

 Ma fin dalla satira prima Giovenale afferma con uguale franchezza che egli se la prende con i morti, perché sarebbe pericoloso prendersela coi vivi nel senso che intendeva fustigare spietatamente i vivi, non i morti, e non credeva affatto alla commedia dell’onestà e della legalità, che si andava giocando a partire da Nerva: infligge quindi all’ipocrisia dei contemporanei la più dura lezione. E in realtà sarebbe sciocco pensare che Umbricio, che nella satira terza dichiara di abbandonare Roma ove l’aria s’è fatta irrespirabile, sia un personaggio dell’età domizianea e non sia stato invece escogitato quasi a portavoce dell’autore, schifato della corruzione della Roma contemporanea.

Orbene, questo evocare le ombre dei morti per trarne esempio di vizi o di virtù era un accorgimento pedagogico tipico delle scuole di retorica. A ciò si aggiunga che era diventato abituale infierire contro Domiziano e l’età sua, perché la frivolezza ipocrita dell’età traianea potesse gloriarsi del confronto.

C’è anche un’ampia sezione che tratta della salutatio mattutina e sulla distribuzione della sportula, l’ossequio fatto dal cliente al padrone e la relativa mancia. Descrive poi la giornata umiliante del cliente e la sua delusione per non essere stato invitato a cena.

Nella II satira si scaglia contro l’omosessualità maschile vista come tradimento dell’ideale di fierezza virile trasmesso dagli antenati.

Nella III satira descrive i molteplici pericoli morali a cui era esposto chi risiedeva a Roma.

Nella satira IV il poeta, se pone in rilievo l’albagia, la crudeltà e il dispotico, offensivo capriccio di Domiziano, pone in rilievo ancor più spietatamente la trepida vigliaccheria dei senatori che, invece di sdegnarsi della parodistica convocazione, fanno a gara nel prestarsi allo scherzo atroce del monarca e nel trarre fasti auspici per lui dalla pesca straordinaria.

 La passiva acquiescenza del suo ceto ai rudi colpi inferti da Domiziano, qui è spietatamente spiattellata da Giovenale, senza riguardo alcuno verso la classe degli ottimati.

Può darsi che in questo atteggiamento ci sia un residuo di rancore di poeta povero e retto verso quegli aristocratici i quali lo avevano lasciato nell’ombra e ora si atteggiavano retoricamente a novelli Catoni, mentre avevano leccato, tremando, la mano che li percuoteva; pertanto questa satira ci dà la prova che il poeta non è aggregato a nessuna conventicola politica dato che sferza con assoluta imparzialità e con uguale severità autocrati e ottimati.

In questa satira la poesia di Giovenale raggiunge uno dei vertici e offre la sua maggior prova di forza, nella varietà infinita dei bozzetti e nella mirabile duttilità con cui il poeta cambia tono per adeguarsi volta a volta allo spirito della scena ed evitare la sazietà che potrebbe nascere dalla lunghezza dell’esemplificazione.

Da questa satira sembra che egli provi una strana attrazione per le perversioni della carne, ma al solo scopo di rivelarne la bruttura.

E la satira IV, che descrive una seduta del Senato, offensivamente convocato da Domiziano solo per decidere sulla maniera di cuocere un rombo gigantesco pescato nell’Adriatico, appare come una conferma di questo proposito.

Nella VI satira descrive la corruzione delle donne del suo Un senso carnale del peccato ha fatto sì che Giovenale scrivesse la sua satira più lunga occupandosi delle donne e dei loro vizi e descrivendo una larga esemplificazione delle colpe e delle follie della femminilità di tutti i tempi col suo piccante cockail di adulterii, deboscie, lesbismi, manie, corruzioni piccole e grandi, condito dal voyeurisme esasperato di un uomo che non sa buttarsi a capofitto nell’orgia o limitarsi a condannarla severamente  col suo vistoso sottofondo sessuale e il non meno vistoso e acre sapore di dissacrazione nei confronti della classica matrona romana, ormai mito ereditato da un tempo irrimediabilmente trascorso.

Questa satira apparentemente potrebbe sembrare una raccolta completa dei luoghi comuni della polemica misogina, ma chi legga senza preconcetti si sente trascinato e sconvolto da quel ritmo cupo di sabba infernale con cui il poeta lacera dintorno al corpo della donna i veli cui lo ravvolge il sentimentalismo idealizzatore, e lo mostra nella  sua oscena nudità di belva procace, fino al quadro immortale della lussuria di Messalina, figura sensuale e a suo modo tenera, uno dei brani più eccelsi della latina, per nitidezza e forza di segno, per coerenza di rappresentazione, in cui ogni particolare è assolutamente necessario all’insieme.

Guarda la casa imperiale e coloro

Che rivaleggiano coi numi; senti

Claudio cosa dovette sopportare!

Non appena sua moglie lo vedeva

Addormentato, l’augusta puttana

Indossava un mantello col cappuccio

E usciva, accompagnata da una sola

Fantesca, preferendo un pagliericcio

Da bordello al suo letto in Palatino.

Coi capelli nerissimi nascosti

Da una parrucca bionda scompariva

Nel lupanare tiepido, dai vecchi

cortinaggi, sino alla cameretta

tutta sua, vuota. Sotto il falso nome

di Licisca si distendeva nuda,

le mammelle velate da una rete

d’oro, e scopriva il ventre da cui tu,

generoso Britannico, sei nato.

Accoglieva i clienti con carezze

e moine, intascava il suo salario.

Poi, quando il tenutario congedava

Le prostitute, se ne andava triste

E non potendo far altro era l’ultima

A chiudere la stanza. Ancora ardente

del prurito del sesso, stanca eppure

ancora insoddisfatta, rincasava

con gli occhi pesti, sudicia del fumo

della lucerna, e portava nel letto

imperiale il fetore del bordello

Nella satira V tratta del banchetto offerto dal patrono Varrone che mangia e beve cibi e vini prelibati mentre a Trebio, il cliente viene portato vino di poco prezzo in bicchieri scadenti.

La XIV satira tratta dell’educazione dei giovani, sottolineando l’efficacia che su di loro poteva avere l’esempio di genitori e maestri (maxima debetur puero reverentia)

Nelle sue satire inoltre è ripetuto insistentemente il lamento per le condizioni di cliente. Da questo e dal fallimento delle sue aspirazioni e dalle delusioni subite, Giovenale ricava una amarezza e un astio perenne che lo inducono a protestare contro l’ingiustizia della società e della sorte.

Già la stessa forma di satira ispira a molti giudici di poesia una certa diffidenza, perché in essa al disinteressato fine artistico si affiancano sempre motivi di interesse, preoccupazioni moralistiche.

 Giovenale nei suoi momenti migliori palesa un’anima quasi lucreziana, nella potenza con cui scopre quanto è di primitivo al fondo dell’umana sensibilità e passionalità.

Dai suoi orientamenti retorici, e non certo da scrupolo prudenziale, deriva anche quello atteggiamento che il poeta assume esplicitamente fin dalla satira prima e che taluni gli hanno rimproverato come segno di scarso coraggio civile, cioè il proposito di dare addosso alle ombre: “Allora sperimenterò che cosa è permesso dire contro coloro  il cui cenere è sepolto nella via Flaminia e nella via Latina”.

E’ questo anzi il grande valore morale della satira di Giovenale che sotto questo aspetto si colloca al di sopra dell’implacabile severità tacitania, che però non osa esprimere chiaramente i dubbi e i sospetti che le infonde la vita contemporanea.

Il significato racchiuso nella dichiarazione di voler scoperchiare è così trasparente ch’essa finisce per assumere solo un carattere di più acre rimprovero della malvagità dominante.

Giovenale non ha mai riguardi per nulla e per nessuno: il suo culto dell’onestà e della sanità morale è così intransigente, così rude e primitivo nella sua incapacità di piegarsi a una casistica discriminativa, che non si può mai sorprendere in lui un preciso atteggiamento fazioso, una tradizione politica sicuramente individuale.

 Giovenale grida e s’accalora, ma senza alterare e stravolgere i lineamenti, senza pose da invasato, ma solo come un uomo dabbene cui il fegato brucia alla vista delle turpitudini altrui.

Se mai egli si avvicina a Tacito nei momenti migliori, quando scolpisce anche lui, con lapidaria stringatezza, le brutture dell’umanità degenere, ma senza ricorrere alle ricercate contorsioni espressive del grande storico.

Ciò non toglie, però, che troppo spesso egli gridi e s’accalori, invece di comporre con serenità il suo quadro.

Il tema principale delle satire è la protesta contro le ingiustizie della società, contro la sperequazione delle ricchezze, contro i soprusi e le vessazioni cui sono soggetti i poveri. In nessun autore latino si ha una denuncia dell’ingiustizia sociale così violenta e così aperta:

in Fedro il lamento degli umili è più sommesso, e velato dalla forma stessa della favola;

anche Marziale lamenta con insistenza i mali della povertà, ma con animo rassegnato e disposto all’accettazione.

L’atteggiamento di Giovenale nei confronti della povertà rappresenta, invece, una rivoluzione nella letteratura antica.

Un fiore della letteratura comico-realistica fa della povertà un oggetto di riso, vi è poi un filone filosofico che fa l’elogio della povertà, la quale sola è capace di assicurare la felicità, mentre i ricchi vivono infelici, tormentati da brame insaziabili e da ansia continue.

Giovenale capovolge questo luogo comune moralistico, presentando i ricchi come beati e i poveri come eternamente infelici, anche se non ha chiara coscienza del problema sociale. In Giovenale non vi è una coscienza di classe, ma un malcontento generico e qualunquistico su un fondo di idee conservatrici, tradizionaliste e razziste.

Egli è più un elemento della piccola borghesia che si vede equiparato socialmente ai proprietari e a volte scavalcato da coloro che salgono dal basso.

Dalla sua opera emerge un quadro che sembra spaccare l’umanità in due parti: i clienti, costretti ad ingoiare i soprusi subiti dai nobili, e i ricchi, privi di umanità, capricciosi e indifferenti.

Egli inverte il luogo comune retorico, secondo la quale è la ricchezza la causa della corruzione e del vizio, affermando che è la ricchezza che deriva dalle ingiustizie e dai delitti.

Il pessimismo di Giovenale è totale: si è andati sempre peggiorando sulla via della corruzione, e si è giunti al fondo, per cui non si può né andare oltre, né tornare in dietro: il male e il vizio sono senza rimedio.

Egli non crede che si possano migliorare i costumi, perciò la sua satira non vuole insegnare, ma soltanto denunciare, senza alcuna prospettiva di un mondo diverso e migliore.

Giovenale rispecchia veramente la società del tempo, oppure ne dà una visione deformata?

In primo luogo bisogna tenere in conto che i poeti satirici tendono coscientemente a deformare la realtà, a coglierne gli aspetti più ridicoli o più ripugnanti; ma in confronto agli altri poeti satirici latini, Lucilio, Orazio e Persio, Giovenale spinge ben più oltre la deformazione mosso da una visione amaramente sarcastica e profondamente indignata del mondo.

Circa l’autenticità della sua protesta e della sua denuncia nasce il sospetto che egli nel condannare l’immoralità e la corruzione dilagante rispecchi soltanto una parte della società: ad esempio circa i costumi delle donne e la saldezza dell’istituto familiare abbiamo indubbie testimonianze di storici e di scrittori, oltre che documenti epigrafici, che dimostrano come la corruzione della donna e della famiglia non fosse così generalizzata come risulterebbe dalle Satire di Giovenale, e al contrario la moralità familiare fosse migliorata rispetto alla età repubblicana.

Nel suo violento attacco contro i Greci e i liberti arricchiti, egli rispecchia la mentalità del vecchio ceto medio dei municipi italici, dall’economia prevalentemente agricola, che sotto l’Impero vede diminuita la sua importa e la sua ricchezza, mentre nella capitale e nelle grandi città acquistano grandi fortune i liberti dediti ai commerci e alle industrie per lo più di origine greca e orientale.

E’ noto che in condizioni storiche del genere il piccolo borghese e il plebeo indigeno sono più tradizionalisti, nazionalisti e xenofobi che i membri delle classi alte. Inoltre corrisponde sostanzialmente al vero la spaccatura della società fra ricchi e poveri che in Giovenale appare nettissima, e che invano gli imperatori e le classi alte del II secolo dell’impero cercheranno di ridurre con opere di assistenza e di beneficenza.

La povertà in Giovenale non è vista soltanto in relazione alla condizione del cliente, come in Marziale, ma è un fenomeno più ampio e universale: ci sono in Giovenale le premesse della lotta di classe, senza che il poeta ne abbia la coscienza né l’intenzione di svilupparle.

Appunto in questo, per una curiosa contraddizione, il tradizionalista Giovenale rispecchia le tendenze dei tempi nuovi, che sentono più profondamente la dignità della persona umana, l’eguaglianza di tutti gli uomini e la ingiustizia delle barriere sociali, in un clima che favorisce la diffusione del Cristanesimo.