LA FAVOLA ANTICA

“C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano, lontano… quante volte le mamme e le nonne hanno ripetuto questa frase per addormentare o tener tranquilli figli o nipotini. Nessuno si è mai stancato di raccontare perché il narrare è connaturato con la natura dell’uomo ed ha origini antichissime come antica e complessa è l’origine della favola.

Sul piano filologico e culturale il dibattito ruota intorno al problema dell’inventio, della localizzazione spazio-temporale delle prime attestazioni e del ruolo del contributo collettivo o individuale nella struttura dei motivi e delle forme.

Svariate nel tempo sono state le risposte; l’unica cosa certa è che la favola, espressione di poesia popolare, ha origini remote: ne  troviamo, infatti, testimonianza nella Bibbia, nella tradizione assiro-babilonese, in quella semitica, aria ed egiziana.

Nella Bibbia compaiono esempi moraleggianti che ricordano la favola.

Nel libro IX dei Giudici (vv. 8-15) è citata la vicenda degli alberi che eleggono come loro sovrano il Rovo; questi, avido di potere, si serve del fuoco per distruggere gli alberi, presunti insidiatori del suo potere.

L’allusione è evidente: il rovo è assunto a simbolo dell’infido strapotere dello stato assolutista  cui la favola rientra nella tradizione dell’apologo politico.

Nell’area assiro-babilonese le favole sono costruite sui contrasti, brevi quadri a scopo didattico e morale, in cui agiscono animali e piante.

L’esempio più noto risale al VII sec. a.C.: descrive un vivace battibecco tra la Palma e il Tamerisco in cui ciascuna  delle due piante  decanta le proprie qualità.

Il mondo ario-indoeuropeo  offre la più ampia testimonianza del genere favolistico

Frequenti richiami alla favola si riscontrano nel MAHABHARATA (Letteratura Sanscrita) e  nelle sillogi favolistiche: le JAKATA buddiste e il PANCATANTRA indiano.

Le redazioni  pervenute delle ultime due opere risalgono al IV-V sec., ma il materiale che vi compare è precedente.

Nelle JAKATA buddiste sono riferite, in un prosa elegante intercalata da versi, numerose storie morali intorno alle molteplici vite che il Buddha trascorse, sotto forma di animale o di uomo, prima di nascere definitivamente nelle spoglie dell’Illuminato.

Il PANCATANTRA invece, è un  caleidoscopio in cui compaiono  animali (sciacalli, topi, cornacchie, colombe, tartarughe, gazzelle, scimmie) che rappresentano i diversi atteggiamenti dell’uomo.

Nel corso della narrazione, per collegare le varie favole, sono inserite numerose strofe sentenziose dalle quali traspare, volgarizzato, il pensiero della speculazione filosofica indiana.

Anche l’Egitto faraonico conobbe una vivace fioritura di favole in cui prevale soprattutto il tono dell’apologo, come attestano numerosi papiri (es. La favola dello stomaco e delle membra che,rielaborata,compare a Roma in età repubblicana. Del resto le favole presenti  nel mondo greco –romano e che hanno come protagonisti coccodrilli, gatti, scarabei, difficilmente si possono separare dalla tradizione egizia dove i predetti animali rientravano in ambito sacrale)

 

LA FAVOLA NEL MONDO GRECO

 

Il mondo greco recepì e poi arricchì in modo autonomo il genere della favola, definita  αινος, μύτος,  λογος.

In Omero  si trovano echi di favola in due passi paralleli dell’Odissea (IV, vv. 335-340; VII, vv. 126-131): Menelao, predicendo la futura strage dei Proci, li paragona alla cerva che, imprudentemente, pone i propri cerbiatti, appena nati, nella selva dove dimora il leone, decretandone così la morte.

Nella Batracomiomachia, poemetto eroicomico in 303 esametri (attribuito dalla tradizione ad Omero ) è  narrata  una buffa contesa tra le rane ed i topi;quando le prime stanno per soccombere, interviene un esercito di granchi che volge in fuga i topi.

Nelle Opere e i giorni di Esiodo  (che Quintiliano definirà “Primus auctor fabellarum”): un usignolo tenta inutilmente di impietosire lo sparviero che lo ha catturato e lo trattiene tra i suoi artigli;  la morale insegna che è da stolti opporsi ai potenti.  Infatti è il più forte ad enunciare la teoria del dominio brutale della forza: “Sciagurato, perché stridi? Uno molto più forte di te ti tiene nelle grinfie: anche se sei abile cantore, andrai dove io ti voglio menare; a mio arbitrio ti farò mio pasto o ti lascerò. Stolto chi voglia contrastare, da pari a pari, con i più forti: non ottiene la vittoria ed aggiunge alla vergogna il dolore”.

In Archiloco la favola ha valore di esempio. Egli si fa portavoce di una nuova morale, plebea ed antiaristocratica che, contro la tradizione, le convenzioni e i valori fino ad allora rispettati, accampa i diritti dell’Io e afferma i bisogni prepotenti dell’individuo.

In questa radicale rivolta si esprimevano  le condizioni del tempo e le esigenze dei nuovi strati sociali. La causa di ciò è forse da ritrovare nelle  umili origini dello  scrittore. Archiloco compose un vivace apologo in cui l’aquila che rompe un patto d’amicizia divorando i figlioletti  della volpe ha, alla fine, una giusta punizione perché anche i suoi nati muoiono.

In questa favola alcuni hanno voluto scorgere un parallelismo tra Archiloco-volpe e Licambe-aquila. Questi, padre di Neobule, fanciulla amata da Archiloco, dopo avergliela solennemente promessa in sposa, all’improvviso rompe i patti (forse per il pessimo carattere di Archiloco o per le sue origini servili di cui il poeta, però, si vantava).

Ancora Archiloco, nell’Epodo IV, userà la favola del leone vecchio e della volpe per ironizzare pesantemente sugli strumenti usati da Neobule, diventata brutta e  vecchia, per adescare i restii amanti. (Gli strali contro il padre e la figlia furono così feroci che, secondo una tradizione di epoca alessandrina, essi si impiccarono).

Anche Teognide, Simonide e Stesicoro – la poesia dei quali è intenzionalmente rivolta alla gnome- frequentemente hanno sfruttato l’espediente della favola.

Nell’Agamennone di Eschilo un leone che da  piccolo è stato amorevolmente nutrito ed allevato in casa, da adulto comincia a spargere  il terrore.

Nell’Aiace di Sofocle uno sbruffone che  si vanta di saper navigare in acqua, viene vergognosamente assalito dal mal di mare appena scoppia una tempesta.

Nelle Vespe di Aristofane il ricorso alla favola è visto come espediente per ingraziarsi i giudici in tribunale.

 

ESOPO

Il primo a dare dignità letteraria al genere favolistico fu uno schiavo frigio, Esopo, figura leggendaria originaria della Tracia.

Erodoto lo colloca a Samo nel VI sec. a.C., al tempo di Creso e di Solone e afferma che fu ucciso dagli abitanti di Delfi che furono poi puniti (come racconta Aristofane ne Le Vespe).

I biografi posteriori lo presentano come un essere deforme, brutto, balbuziente e con altri difetti fisici ma anche intelligente, facondo e pieno d’astuzia.

Giambattista Vico lo paragonava ad Omero, ma pur convinto della loro inesistenza, considerava il primo l’espressione del “carattere eroico” dei Greci, l’altro di “un genere fantastico, di un carattere poetico” dei servi degli eroi.

Altri studiosi, al contrario, ritengono che Esopo non sia un nome inventato e lo identificano con un servo balbuziente e deforme, proveniente dalla Frigia  nel VI sec. a.C.

Legato all’ambiente dei Sette Sapienti e, in particolare, vicino a Solone, avrebbe viaggiato in Oriente, spingendosi fino a Babilonia e in Egitto e successivamente in Lidia presso il re Creso.

Fu vittima delle ire del popolo di Delfi che, presolo in odio per i violenti attacchi di dissolutezza da lui mossi alla città, lo accusò  ingiustamente  di furto sacrilego e lo  condannò ad essere gettato da una rupe nella profonda gola ai cui piedi sgorga la fonte Castalia.

Esopo era già conosciuto da Erodoto che nelle sue “Storie” lo definisce  “creatore di favole”e lo ricorda come compagno di schiavitù della famosa cortigiana Rodopi (amata anche da Carasso, il fratello della poetessa Saffo).

Lo storico si dilunga sul particolare della morte del favolista della quale gli stessi cittadini di  Delfì, puniti dal dio con una terribile carestia, cercarono espiazione.

Aristofane, nelle “Vespe” e negli “Uccelli”, ne attesta la fama nelle scuole di Atene del V sec., dove le sue favole erano lette a fini didattici per il primo apprendimento della lingua.

Interessanti anche due passi tratti dai dialoghi  di Platone del “Fedone” e dell’ “Alcibiade”.

 

 

Delle vicende relative alla morte di Esopo si ritrovano testimonianze anche presso autori più tardi: presso Eraclide Pontico nei“Frammenti dì storia greca”, presso Plutarco in“De sera numinis vindicta, 12” e, infine, anche nel Lessico Suida, dove si spiega l’espressione proverbiale “sangue di Esopo”, come riferita a chi è messo a morte ingiustamente.

La raccolta di favole esopiche giunta fino a noi non è quella originale, ma l’esito di redazioni tardive: essa è infatti scritta nella lingua comune, la koinè, su base attica e non rimane traccia alcuna dell’antica prosa ionica nella quale le favole erano state originariamente composte.

Si ritiene, infatti, che Esopo abbia affidato alla trasmissione orale le sue favole che, successivamente, furono rielaborate  da  poeti o oratori.

La prima di tali rielaborazioni pare sia da attribuire a Demetrio Falereo, oratore e filologo vissuto nel IV sec. a.C.

E’ impossibile, ovviamente, distinguere, tra il materiale accumulato nel corso dei secoli, quanto ci sia di originale da quanto derivi da  elaborazioni tardive.

Certo è che la favola esopica presenta un carattere omogeneo nella struttura: si tratta di un breve racconto in cui i personaggi sono quasi sempre animali.

Di questi alcuni compaiono a simboleggiare nobili sentimenti (il Leone, l’Aquila, il Cavallo), altri invece sono lo specchio di più umile sentire (la Rana, il Topo, la Formica), altri incarnano la scaltra saggezza popolare (la Volpe, la Scimmia).

Probabilmente in età ellenistica, per influsso del mimo, della commedia e dell’epigramma, l’impianto narrativo della favola si allarga e vengono inseriti anche gli uomini: personaggi sempre legati alla vita quotidiana, come il vasaio, il pescatore, il  contadino, il taglialegna, lo schiavo.

Poche le favole che hanno come protagonisti gli dei, rarissime quelle in cui figurano alberi o elementi diversi (per lo più attrezzi da lavoro)

 

Dopo che le favole esotiche (circa 500 in dialetto ionico) entrarono  nel normale uso della scuola accanto ad Omero,  alla narrazione si aggiunse  un breve commento atto a rendere la favola più aderente all’insegnamento morale; si trattava, comunque, sempre di un insegnamento spicciolo, lontano dalla profonda ricerca della perfezione ulteriore.

Vi si insegnava la fedeltà, l’amicizia, l’amore per il lavoro, la riconoscenza, la verità e la moderazione, in uno stile semplice, immediato, diretto ma con  preziosismi linguistici o echi letterari.

A questo proposito, M. Giammarco afferma: “Insomma suggerisce quei comportamenti quotidiani confacenti all’ambiente popolare, al quale le favole erano rivolte. I grandi ideali delle classi alte, propri della poesia epica, come la fama, la nobiltà, la vita oltre la morte per mezzo della gloria sono estranei alla morale esopica “.

 

 

La fortuna di Esopo nel mondo greco-romano

 

Tra i secoli V e IV a. C., Senofonte ricorda nei “Memorabili”  la favola di Esopo del Cane e della Capra; lo storico Teopompo inserisce nelle sue “Storie Filippiche” l’apologo della Guerra e della Violenza.

Durante l’Ellenismo la raccolta delle favole esopiche fu assai popolare.

Callimaco provò a ridurre alcune favole di Esopo in trimetri giambici scazonti.

In ambiente latino non mancano antiche testimonianze relative alla diffusione della favola, come l’apologo di Menenio Agrippa, di derivazione egizia, che è ricordato anche da Tito Livio.

Ma sono soprattutto la satira e la commedia a sfruttare i motivi della favola, per il costante ricorso all’allegoria e alla bonaria censura dei vizi umani.

Ennio riprende la favola esopica dell’Allodola e dei suoi figli nel campo di grano.

Plauto nella “Aulularia”  rielabora la favola del Bue e dell’Asino; nello “Pseudolus “  ricorda la favola del Lupo a custodia delle Pecore; nel “Trinumnus”  riprende la favola dei Lupi e dei Cani che dormono insieme.

Anche Lucilio si serve della favola come complemento alla satira.

I riferimenti oraziani sono sempre legati a Esopo, come la rielaborazione della vicenda della sciocca Rana che si gonfia fino a scoppiare, o la narrazione dell’incontro tra il raffinato Topo di città e quello di campagna.

Catullo inserisce nel carme XXII il tema delle due bisacce cariche di vizi imposte all’uomo per volere di Giove.

In età tiberiana la favola trova il suo più grande cultore in Fedro.

Rispetto a Esopo, lo scrittore latino rivendica l’originalità della sua opera poiché tende ad ampliare il mondo della favola esopica inserendo personaggi umani, alcuni contemporanei del poeta, e sfumature di carattere nei personaggi.

Inoltre Fedro, ricorrendo a un linguaggio disadorno e assai legato all’attenzione scolastica (la fantasia è spesso limitata e l’ispirazione poco viva), scrive una favola amara, una meditazione sulle angustie della vita e sui disagi e le tensioni dell’epoca.

 

 

L’impegno favolistico continua anche nell’epoca umanistica e nel Rinascimento, tanto in Oriente, presso gli scrittori bizantini, quanto in Occidente.

L’Italia barocca non cura il genere della favola.

Nel sec. XVII in Francia fiorisce il massimo continuatore della favola moderna, La Fontaine, che pubblica, a partire dal 1668, le sue “Fables”, ispirandosi ad Esopo, a Fedro, ma anche alla vivace tradizione medievale francese.

L’età illuministica segna l’inizio della riscoperta filologica della favola.

Il Romanticismo non coltiva il genere, considerandolo troppo didascalico ed ingenuo.

In tempi recenti si può ricordare,  con tecnica nuova ed originale, la vasta produzione di C. Alberto Salustri, detto Trilussa, attento e pungente commentatore del vivere sociale.

 

STRUTTURA

 

La favola è tripartita: inizia con un promythium che è una sorta di titolo, prosegue con l’intreccio vero e proprio (in genere semplice, lineare e costituito da un solo episodio ), termina con l’epimythium cioè la morale.

Si parte, cioè, da una situazione iniziale a cui subentra  lo svolgimento (intermedia); infine c’è la conclusione.

I protagonisti sono per lo più animali con gli stessi vizi e virtù degli uomini.

A volte compaiono gli uomini, più raramente  troviamo come protagoniste le piante.

Non ci sono divinità che presiedano all’azione né alti ideali da perseguire, l’unico scopo è la sopravvivenza personale.

I personaggi sono limitati ( non ve ne sono più di due o tre) ed interpretano ruoli fissi abbastanza rigidi: la volpe rappresenta l’astuzia, il leone la forza, la potenza, l’asino la stupidità, il lupo la prepotenza, l’agnello l’ingenuità.

I protagonisti rappresentano comportamenti o caratteri sempre in netta contrapposizione gli uni con gli altri.

Esopo, per salvarsi, consiglia la furbizia o la forza guidata dall’intelligenza.

Es.: la volpe caduta nel pozzo attira con l’inganno il caprone e poi lo abbandona nell’acqua;

il sole fa spogliare con i suoi raggi un viandante mentre Borea con gelide folate lo costringe a coprirsi sempre di più.

La morale è  espressa dall’autore all’inizio od alla fine della favola.

Talvolta, però, può essere anche implicita.

Il linguaggio è caratterizzato dalla presenza di frasi molto semplici: aggettivi qualificativi di significato contrario relativi ai caratteri contrapposti o ai diversi comportamenti dei personaggi; dialoghi, monologhi.

 

IL TEMPO E LO SPAZIO

Mancano precise indicazioni temporali e spaziali; l’ambientazione è indeterminata o descritta in modo vago ed impreciso.

Ciò è giustificato dal fatto che per la favola non è importante la descrizione dell’ambiente quanto piuttosto il comportamento di personaggi da cui ricavare insegnamenti.

 

 

 

LA FAVOLA A ROMA

Nella letteratura latina la fabula o apologo non costituiva un genere a sé.

La troviamo nelle satire di Ennio, di Lucilio e  di Orazio (famosa quella del sorcio di campagna e di città nel II libro)

Il genere fu ripreso da Fedro, uno schiavo macedone nato forse intorno al 20 a.C. che aveva studiato a Roma.

Per le sue capacità  e forse per i suoi meriti come maestro di scuola fu affrancato da Augusto e diventò liberto come attesta il titolo dell’opera: Phaedri Augusti liberti fabulae Aesopiae.

Sotto Tiberio iniziò la rielaborazione delle favole esopiche in senari giambici (versi tipici della commedia, elevandone lo stile).

Dopo la pubblicazione dei primi due libri subì una condanna, forse a causa di allusioni satiriche rivolte ai potenti.

Nel prologo del III libro (dedicato al potente Eutico) chiede che sia riparata un’ingiustizia ricevuta da Seiano, il prefetto del pretorio di Tiberio.

Gli ultimi libri (dedicati a Particulone e Fileto) sono più sereni.

I cinque libri (che comprendono 93 favole) ci sono giunti mutili o accorciati: contengono 31, 8, 19, 25, 10, favole ciascuno.

Nel prologo Fedro cita alberi parlanti, ma nelle favole rimaste non c’è traccia.

Forse nell’antichità esistevano raccolte più ampie.

Nel secolo scorso furono pubblicate 32 nuove fabulae provenienti da un manoscritto di  Niccolò Perotto erudito del ‘400.

Tale Appendix Perottina si è ingrandita con l’apporto di altre favole in prosa (solutae) derivanti da raccolte favolistiche medioevali (in alcune ci sono alberi parlanti).

I cinque libri sono preceduti da un prologo, una specie di dichiarazione poetica di Fedro in cui afferma che qualche volta citerà Esopo solo auctoritatis gratia.

Quindi se all’inizio si accontenta del ruolo di semplice traduttore, poi rivendica la dignità artistica e letteraria delle sue favole, originali per stile e contenuto.

Nel brano vi sono spunti diventati topici: la funzione poetica come base della narratio e l’indicazione dell’inventor del genus.

 

 

PROLOGUS

 

Aesopus auctor quam materiam repperit,

hanc ego polivi versibus senariis

Duplex libelli dos est: quod risum movet,

et quod prudenti vitam consilio movet.

Calumniari si quis autem voluerit,

quod arbores loquantur, non tantum ferae

fictis iocari nos meminerit fabulis.

 

 

Fedro dichiara che la base di partenza è Esopo che ha solo limato e che il suo scopo è ammaestrare dilettando con racconti inverosimili (richiama quindi il miscere utile dulci di Orazio nell’ Ars Poetica).

Il preambolo è pieno di luci e di ombre, di tono scanzonato misto a malinconiche riflessioni.

Rattristato per le critiche mossegli, si presenta come un semplice rifacitore ma successivamente nel  prologo del secondo libro, pur continuando a seguire lo stile di Esopo, Fedro rielaborerà le favole con interventi personali; ciò gli permetterà di affermare successivamente  che la cultura latina grazie a lui ha un poeta in più da opporre  ai greci.

Nel prologo del terzo libro c’è ancora evoluzione in quanto lo scrittore accenna anche ad amare vicende personali (invidia e processo intentato da Seiano).

Nel prologo del quarto libro ribadisce il concetto  di non avere imitato Esopo ma di essersi servito  di un genere antico per trattare argomenti nuovi (usus vetusti genere sed rebus novis).

Nel prologo del V libro l’affermazione della propria originalità si fa più netta: Esopo è un nomen anche se invenctor del genere, nel quale Fedro si è inserito in modo autonomo.

Negli ultimi tre libri i protagonisti sono gli esseri umani, tra cui Esopo in persona.

Risum movet – consilio movet :sono enfatizzate dalla paronomasia dei due verbi nella clausola del verso.

Allitterazione e iperbati evidenziano il sintagma fictis fabulis per rivendicare la propria libertà nell’inventio.

Protagonisti gli animali che, sotto sembianze zoomorfe, rappresentano i vizi umani.

La società  appare divisa in oppressi ed oppressori.

A livello personale anche se Fedro ebbe cura di non palesare nomi e di  rappresentare le cose in generale (ipsam vitam et mores hominum ostendere), le allusioni satiriche contenute in alcune favole gli attirarono l’inimicizia di Seiano, il potente ministro di Tiberio che gli intentò un processo

Vi sono amare considerazioni sull’ipocrisia umana, la rassegnata protesta dell’umile, la negazione di ambizioni troppo elevate, la considerazione che imitando il ricco il povero muore.

L’interpretazione morale palesa una visione pessimistica della vita: il dramma dell’esistenza dominata dalla legge del più forte, dalla crudeltà, dall’astuzia dall’ipocrisia.

Eppure aleggia un desiderio di giustizia ed una segreta fiducia nella riscossa dell’uomo dalle sue meschinità.

Nella raffigurazione del mondo c’è realismo plebeo.

La brevitas è voluta, i dialoghi sono concisi, il linguaggio è espressivo e preciso.

La lingua è disadorna ma elegante

La caratterizzazione dei personaggi è rapida.

Ci fu silenzio da parte dei contemporanei ed egli rimase oscuro ed ignorato.

Marziale cita: improbi iocos Phaedri (III, 20, v. 5)

Aviano nella prefazione …….  cita i suoi predecessori: Esopo, Socrate, Orazio, Bario e Fedro.

 

TESTI

Le due bisacce:  IV, 10

Varie le rappresentazioni fornite dagli antichi circa il viaggio dell’uomo sulla terra.

Per Fedro è un viandante che procede carico di due bisacce nelle quali Giove ha posto i vizi propri e quelli altrui.

 

Peras imposuit Iuppiter nobis  duas

Propriis repletam vitiis post tergum dedit,

Alienis ante pectus suspendit gravem.

Hac re videre nostra mala non possumus;

Alii simul delinquunt, censores sumus.

 

Nucleo tematico principale: Ognuno ha i propri difetti, ma il nostro modo di comportarci ci fa vedere solo i difetti altrui e non quelli personali propri. Tale tematica è anche presente nel Vangelo secondo Matteo

 

 

La volpe e la maschera tragica      I ,7

Personam tragicam forte vulpes viderat:

“O quanta species”, inquit, “cerebrum non habet!”

Hoc illis dictum est, quibus honorem et gloriam

Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.

 

Nucleo tematico:Spesso gli uomini hanno una bella apparenza ma mancano di senno.

TRADUZIONE

Per caso, una volpe aveva visto una maschera da tragedia: “Oh!, che bell’aspetto!”- disse –  “ma non ha cervello!”

Ciò è stato detto per coloro ai quali la sorte ha concesso onore e gloria, ma ha tolto il buon senso.

 

La volpe e l’uva IV, 3

 

Fame coacta vulpes alta in vinea

Uvam adpetebat summis sapiens viribus.

Quam tangere non potuit, discendens ait :

« Nondum matura est, nolo acerbam sumere ».

Qui facere quae non possunt verbis elevant,

Adscribere hoc debebunt exemplum sibi.

 

Nucleo tematico principale : L’uomo di solito disprezza quelle cose che non riesce ad ottenere.

La volpe rappresenta l’uomo avido e pieno di sé che giustifica un insuccesso con una motivazione infantile.

La Fontaine chiama la volpe “guascona” o normanna, perché in Francia erano noti sia l’orgoglio e la grandezza dei Guasconi sia l’astuzia dei Normanni

 

Traduzione. Una volpe, spinta dalla fame, cercava di afferrare dei grappoli d’uva posti su un alto pergolato, saltando con tutte le sue forze; poiché non potè toccarla, allontanandosi, disse: ”Non è ancora matura! Non voglio cogliere l’uva acerba”. Coloro che disprezzano con le parole le cose che non sono capaci di fare, dovranno attribuire a se stessi questa favola.

Morale della favola: Non bisogna disprezzare ciò che non si riesce ad ottenere.

 

 

La rana e il bove ( I,24)

Inops, potentem dum vult imitari, perit.

In prato quondam rana conspexit bovem

Et tacta invidia tantae magnitudinis

Rugosam inflavit pellem: tum natos suos

Interrogavit, an bove esset latior.

Illi negarunt. Rursus intendit cutem

Maiore nisu et simili quaesivit modo,

Quis maior esset. Illi dixerunt bovem.
Novissime indignata dum vult validius

Inflare sese, rupto iacuit corpore.

 

Traduzione: Il debole che vuole imitare il potente va in rovina

In un prato, una volta, una rana vide un bue e, presa dall’invidia per una così grossa mole, gonfiò la pelle rugosa; poi chiese ai figli se fosse più grande del bue. Le risposero di no. Di nuovo tese la pelle con maggiore sforzo e domandò nello stesso modo chi fosse più grande. Essi risposero il bue. Da ultimo, adirata, mentre voleva gonfiarsi con maggiore sforzo, giacque morta col corpo scoppiato.

 

La volpe e il corvo (I,I3)

Qui se laudari gaudet verbis subdolis.

Fere dat poenas turpi paenitentia.

Cum de finestra corpus raptus caseum

Comesse vellet celsa residens arbore,

Vulpes hunc vidit, deinde sic coepit loqui :

“ O qui tuarum, corve, pennarum est nitor !

Quantum decoris corporee t vultu geris!

Si vocem haberes, nulla prior ales foret!”

At ille stultus, dum vult vocem ostendere,

Emisit ore caseum, quem celeriter

Dolosa vulpes avidis rapuit dentibus.

Tum demum ingemuit corvi decepts stupor.

(Hac re probatur quantum ingenium valet;

virtute semper praevalet sapientia).

 

Traduzione: Colui che si compiace di essere lodato con parole ingannevoli, paga il fio con un pentimento tardivo.Un corvo mentre stava seduto su un alto albero, volendo mangiare un pezzo di cacio rubato da una finestra, una volpe lo vide e cominciò a parlare: ”O corvo, quale splendore di penne tu hai! Quanta bellezza porti nel corpo e nel volto! Se tu avessi (anche ) la voce, nessun uccello sarebbe superiore a te!” Ma quello sciocco, mentre vuol far mostra della propria voce, lasciò cadere dalla bocca il cacio che rapidamente l’ingannevole volpe afferrò con avidi denti. Allora finalmente lo stupido corvo, tratto in inganno, cominciò a lamentarsi.