LA PESTE

Molte sono state le pestilenze comparse nel nostro mondo: ne abbiamo testimonianza da parte di alcuni scrittori.

 Già nella Bibbia si parla di una pestilenza che colpì i filistei: provocava bubboni e uccideva i topi.

Nell’Iliade Omero parla di una pestilenza che portò molti lutti agli Achei durante la guerra contro Troia.

 Tucidite: la peste di Atene

La peste apparve per la prima volta in Etiopia, poi si diffuse in Egitto, in Libia, e nella maggior parte del territorio del re.

Su Atene piombò all’improvviso ed i primi ad esserne contagiati furono quelli del Pireo, sicché in seguito si diffuse la voce che i Peloponnesiaci avevano avvelenato le cisterne di acqua piovana, poiché in quel luogo non vi erano ancora sorgenti.

Più tardi arrivò nella città e allora cominciò a crescere il numero dei morti.

Intorno a questa malattia ognuno…dica pure quello che sa, …io dirò come si manifestò e da quali sintomi fu preannunciata, in modo che, se un giorno di nuovo si manifestasse, ognuno che sia attento, possa sapere di che si tratta, conoscendone già prima le caratteristiche. Io stesso potrò fornire precise indicazioni perché mi sono ammalato e ho visto altri soffrire”

Così lo storico Tucidite (nato ad Atene nel 460 a.c.) nel II libro delle sue Storie inizia la descrizione della terribile epidemia verificatasi in Attica negli anni 430 – 425 a.C.

L’intento dello scrittore era quello di scrivere la storia della guerra del Peloponneso (dal 431 al 404 a.C.) che vedeva contrapposti Ateniesi e Lacedemoni, oltre ai loro rispettivi alleati.

La pestilenza è uno degli avvenimenti più gravi della prima fase della guerra e ha le sue implicazioni nello sviluppo degli eventi.

Il motivo che spinge Tucidite a descrivere il flagello della peste è puramente

“storico”.

Quando, infatti, nel XV anno da quando era stata stipulata, i Tebani avevano violato la tregua trentennale che era stata stabilita dopo l’occupazione dell’Eubea, con l’attacco a Platea, alleata di Atene,” gli Ateniesi si prepararono come se dovessero combattere e anche gli Spartani si prepararono ed i loro alleati, accingendosi anche a mandare ambascerie al re di Persia ed altrove presso i barbari; ciascuno sperava in qualche luogo di assicurarsi un aiuto”

Mentre, quindi, i Lacedemoni marciavano verso l’Attica con l’intento di penetrarvi e devastarla, Pericle ad Atene andava rassicurando il popolo spaventato e lo esortava a prepararsi per l’imminente scontro” portando tutti i beni dai campi in città ,… a difendere la città raccogliendosi in essa” evitando per il momento di uscire in battaglia.

Così gli Ateniesi, attaccati, si rifugiavano in città, dove potevano vivere con i rifornimenti che giungevano da tutto l’Egeo e dal Mar Nero.

Probabilmente fu proprio questo eccessivo affollamento dentro le mura della città a favorire l’epidemia, causata da una micidiale mescolanza di morbi diversi, quali tifo, scorbuto, ecc.

Così la peste si scatenò nella città di Atene alla fine del I anno della Guerra Peloponnesiaca.

Dica pure, riguardo a questo argomento, ognuno, medico o profano, in base alle proprie conoscenze, quale sia stata la probabile origine, e quali cause ritiene capaci di procurare un siffatto sconvolgimento; io scriverò come ( la pestilenza) si sia manifestata, ed esporrò chiaramente quei sintomi dai quali la si possa riconoscere, essendone informati, se colpisse di nuovo, perché io stesso ho avuto la malattia e ho visto gli altri soffrirne”

 Quando la popolazione giunse dalle campagne “solo per pochi vi furono case o ricoveri presso amici e conoscenti: molti si sistemarono nelle zone deserte della città, nei templi, nei recinti degli eroi, dappertutto, ad eccezione dell’Acropoli…

Molti si sistemarono anche nelle torri delle mura come ciascuno poteva. La città infatti non bastava”

 Quando cominciò ad imperversare la malattia, i medici si trovarono impreparati per ragioni di inesperienza ma anche perché, senza le dovute precauzioni, essi stessi si ammalarono.

i medici non bastavano a curare un male sconosciuto e nuovo…vana era ogni altra arte umana

Non si riuscì a trovare una cura, né alcun rimedio che portasse sollievo; morivano così molti per mancanza di cure e molti altri anche se “scrupolosamente curati”.

Gli Ateniesi perdono anche la fiducia nell’aiuto degli dei.

 “Le suppliche nei templi e il ricorso ai vaticini o altre pratiche del genere erano tutte cose inutili, e alla fine le abbandonarono”.

Tucidite dopo aver narrato le prime avvisaglie del male, descrive minuziosamente i sintomi e le conseguenze, che furono drammatiche.

La malattia si presentava con tossi violente, nausee, convulsioni; il corpo livido, era cosparso di piccole dolorosissime piaghe; la gola e la lingua erano di color sanguigno ed emettevano un fiato strano, inoltre un bruciore e una sete insopportabile divoravano gli ammalati.

 Il corpo a toccarsi esternamente non era né troppo caldo né pallido ma rossastro, livido; le parti interne ardevano a tal punto da non sopportare il rivestimento di vesti leggere, né altro che non fosse andar nudi e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda.

Erano continuamente tormentati dalla difficoltà di riposare e dall’insonnia. Il corpo, per tutto il tempo in cui il morbo raggiungeva il suo acme, non si consumava ma inaspettatamente resisteva al tormento sicché la maggior parte moriva dopo 9/7 giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure se riuscivano a scampare, con il trasferirsi della malattia negli intestini e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una violenta diarrea, i più morivano in seguito, sfiniti.

Il male raggiungeva i genitali e le estremità delle mani e dei piedi; molti si salvarono con la perdita di queste parti o degli occhi. Spesso chi guariva perdeva l’uso delle dita delle mani, o diventava cieco, altri perdevano la dimenticanza di ogni cosa, e non riconoscevano sé stessi o i parenti.

Gli uccelli e i quadrupedi che si cibavano dei cadaveri, dopo averne gustato le carni, morivano.

Non esisteva alcuna medicina: quello che era utile per uno, era nocivo per un altro.

se sopravvivevano, dopo che la malattia era scesa nel ventre, e si era prodotta una forte ulcerazione ed era sopraggiunta una violenta diarrea, in seguito i più morivano proprio per lo spossamento”

Nessuno aveva la forza di reagire; la popolazione cadde in uno stato di miserevole prostrazione che peggiorò la già grave situazione mentre i moribondi erano abbandonati dagli stessi familiari che, “vinti dall’orrore del male, non ne sopportavano i laceranti lamenti”

L’epidemia faceva strage soprattutto tra la gente di campagna che alloggiava in capanne soffocanti, a causa della stagione calda ed i cadaveri giacevano a mucchi, nelle strade e nei templi. I moribondi vagavano per la città.

Tutte le leggi delle quali prima si servivano per la sepoltura, furono sovvertite e ognuno, come poteva, seppelliva i suoi morti. Molti si volsero a sepolture indegne…infatti, vedendo un rogo preparato da altri…vi davano fuoco dopo avervi posto il loro morto, altri, invece, mentre un corpo bruciava, fuggivano via dopo avervi buttato sopra quello che portavano”

In tanto orrore i più fortunati erano quelli che, guariti, non avevano più paura di riammalarsi, mentre la città era in preda al caos: nessuno rispettava più le leggi civili, né quelle divine.

Gli uomini, non sapendo quale sarebbe stato il loro futuro, iniziarono a trascurare le leggi divine ed umane”

A questo punto in un paesaggio così lugubre, l’autore introduce una nota di speranza “Tuttavia coloro che erano scampati alla malattia provavano compassione per i moribondi e i malati…la malattia non colpiva mortalmente la stessa persona una seconda volta…e per il futuro concepivano la vana speranza che nessun’altra malattia avrebbe mai potuto ucciderli”

I saggi ateniesi allora ricordarono un antico vaticinio che aveva predetto “Verrà la guerra dorica e con lei la peste”  

Tito Lucrezio Caro (96/ 94 a.c.-51 a.C.)

Nel suo De rerum natura lo scrittore ora descrive la dolcezza con cui il pulviscolo dorato di un raggio di sole penetra in una stanza buia, ora la forza con cui la natura cospira contro l’umanità e la schiaccia.

Infatti il libro VI, che si era aperto con l’esaltazione di Atene illuminata dalla saggezza di Epicuro, si chiude con l’agghiacciante, macabra descrizione della terribile epidemia (mutuando la scrittura tuciditea e impreziosendola con contaminazioni da altri autori per dare un effetto patetico – assente nello stile sobrio e asciutto dello scrittore greco).

Il brano non dev’essere considerato a sé stante ma come parte di un discorso sviluppato in tutto il VI libro.

In esso dopo un elogio di Atene e di Epicuro, si passa alla descrizione dei fenomeni metereologici (il tuono, il fulmine, le nuvole, le piogge) che provocano negli uomini la paura di una punizione divina.

Si tratta poi dei fenomeni terrestri (terremoti o vulcani) e si giunge alla descrizione della peste, vista come una grandiosa esemplificazione di un ragionamento strettamente consequenziale, volta a dimostrare che gli uomini non devono aver paura “perché, se non va temuta la morte, tanto meno vanno temuti i naturali sconvolgimenti e cataclismi di qualsiasi specie. Temere è turbarsi, e turbamento è fonte di infelicità: insegnare all’uomo a non turbarsi anche di fronte al cosmo è l’ultima lezione morale del poema

Il male naturale, che la scienza non è in grado di prevenire e a cui per lo più non riesce a porre rimedio, rivela come sia precario il progresso umano non sostenuto dalla saggezza.

Dinanzi a tali accadimenti, infatti, l’uomo perde la sua illusoria sicurezza e la paura della morte scatena i più reconditi egoismi.

Soltanto l’equilibrio spirituale che poggia sulla conoscenza della natura, mette in grado l’uomo di affrontare serenamente la morte; il male stesso se non si aggiunge l’errore e la follia, diviene tollerabile.

Sin dall’inizio sono presenti immagini poetiche (aerea permensus multum camposque natantis”) e l’insistenza su un lessico di morte e desolazione: “Mortifer aestus/ finibus in Cecropis funestos reddidit agros, vastavitque vias, exhausit civibus urbem

Il senso di sofferenza e di angoscia che sfocia in tinte patetiche e drammatiche non è amor mortis né gusto del truculento ma commossa partecipazione alle umane sventure.

Lucrezio, però, non è d’accordo con Tucidite sulle cause della pestilenza:

Quando una parte del cielo, che per caso ci sia avversa si sposta e un’ora maligna comincia a vagare, a poco a poco avanza strisciando…e per dove passa conturba e muta ogni cosa… Questa forma di morbo ed effluvio datore di morte, seminò di cadaveri i campi nella terra di Cecrope, desolò le contrade e vuotò la città di abitanti. Sorto e venuto dalle estreme regioni dell’Egitto, varcando gran tratto di cielo e fluttuando sulle pianure, infine gravò sopra tutta la gente di Pandione”

Poi dà la stessa descrizione dei sintomi fatta da Tucidite.

Persino la gola, nera all’interno, trasudava sangue e la via della voce, chiusa dalle piaghe, si sbarrava e la lingua, interprete della mente, grondava sangue, indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto…l’alito ,fuori dalla bocca, emanava un lezzo fetido, come puzzano i cadaveri putrefatti abbandonati…La parte più interna degli uomini ardeva fino alle ossa, ardeva nello stomaco una fiamma come dentro le  fornaci…Alcun affidavano ai fiumi gelidi l membra ardenti per il morbo, scagliando il corpo nudo tra le onde. Molti si gettarono dall’alto, a capofitto, nelle acque dei pozzi” con tanta avidità da caderci dentro.

Infine dice:

ma in tale frangente, questo era il più miserevole e doloroso, che quando ciascuno vedeva sé stesso avvinto dal male, da esserne votato alla fine, perdutosi d’animo, giaceva col cuore dolente e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte”

Tregua il mal non aveva” e li sfiniva tanto che essi non avevano più neanche la forza di lamentarsi, chiedevano aiuto con gli occhi sbarrati, con uno sguardo ansioso, ma ormai spento e sfiduciato, con un’espressione furente.

Il corpo andava man mano deteriorandosi: le mani si rattrappivano e gli arti tremavano percorsi da brividi di freddo. Quando ormai restavano pochi giorni di vita, diventavano irriconoscibili: dimagrivano fino al punto che avevano “le nari compresse, affilata del naso la punta, scavate le tempie, gli occhi infossati, dura e fredda sul viso la pelle” e non avevano più neanche la forza di esprimere col volto il loro dolore, sicché era “distesa per sempre la fronte”

Non c’era scampo a questo male; infatti chi non moriva per la peste, moriva “da nera dissenteria consumato e d’ulceri sozze chiazzato”

Dal v.1197 al 1229 Lucrezio ritorna a descrivere i sintomi della peste soprattutto nei malati terminali.

“Non molto tempo dopo le membra giacevano nella rigidità della morte. Generalmente al risplendere dell’ottavo lume del sole, o anche nella nona luce, rendevano la vita”

“E se qualcuno di loro, come avviene, evitava la rovina della morte, per le piaghe orribili e il nero flusso del ventre, poi, lo attendevano tuttavia distruzione e morte!

…” alcuni …vivevano dopo essersi mutilati del membro virile, altri senza piedi e mani rimanevano tuttavia in vita, altri ancora perdevano gli occhi”

“Specialmente i forti e fedeli cani, accasciati per tutte le strade, esalavano l’anima fra gli affanni”  

Anche gli animali furono presi da questo male, non si vedevano più uccelli svolazzare cantando nel cielo, né cani seguire fedelmente il loro padrone.

Era “una macabra gara dovunque di funebri esequie, desolate e deserte

Virgilio (Andes,70- Brindisi, 19 a.C.)

Nel IV libro delle Georgiche lo scrittore latino descrive le conseguenze che un’epidemia di peste portò al bestiame nella provincia gallica del Norico (attuale Austria) agli inizi del I sec.a.C.

“Ecco il toro, mentre fuma sotto il duro giogo, prorompe e vomita dalla bocca bava mista a sangue ed effonde gli estremi lamenti. Afflitto s’incammina l’aratore, trascinando via il giovenco che geme per la morte del fratello, e abbandona l’aratro confitto a metà nel solco. Non li allettano più le ombre dei boschi profondi, né i teneri prati, né il ruscello che, spiacciando fra i sassi più puro dell’ambra, s’effonde sul campo; ma già si sciolgon loro le intime fibre, un intontimento grava i loro occhi già immoti e la cervice con un pesante abbandono scivola a terra. Che giovan loro le tante fatiche e le buone azioni (compiute col loro lavoro), che cosa aver rivoltato le dure zolle? Eppure non possono aver loro nociuto i doni di bacco sul Massico, o gli iterati banchetti; si nutrono di fronde e del cibo frugale dell’erba, le loro bevande son le limpide sorgenti e i fiumi mossi dalle correnti, né alcun cruccio interrompe i loro sommi salutari?

Elevando le bestie a livello degli esseri umani, geme contro le forze cieche e maligne che ingiustamente stroncano quelle creature innocenti, alle quali nulla giova aver lavorato tutta la vita, interamente dedicata a servire l’uomo.

Virgilio infonde alla bestia da soma sentimenti umani, raccontando di come il toro venga trascinato via a fatica, gemente per la morte del fratello, dall’ormai afflitto aratore. Poi, quasi come se fosse l’animale stesso a ricordare, l’autore ne tratteggia il passato, quando pascolava lieto i verdi campi e si abbeverava alle fresche e pure acque del ruscello, vicino ai grandi boschi.

Ora, invece, vittime dell’agonia causata dal morbo mortale che li ha contagiati, gli animali trascorrono le loro ultime ore soffrendo, sull’orlo dell’incoscienza, e si abbandonano al loro triste destino, dopo una vita di fatiche, stramazzando, ormai privi di sensi, su quella stessa terra che in passato hanno rivoltato e dissodato, sotto la vigile guida dell’uomo.

Tacito (Gallia Narbonense, 55 ca-120 d.C.)

Negli Annales (l. XVI, 13) così descrive una pestilenza:

“Tempeste ed epidemie inviate dagli dei fecero tristemente famoso quell’anno, già inquinato da tante sozzure. La Campania fu devastata da un uragano che abbatté dovunque fattorie, piantagioni e messi, spingendo la sua violenza fin nelle vicinanze di Roma, dove infieriva una terribile pestilenza sui mortali di ogni ceto, …Le case erano piene di cadaveri, le vie di funerali; né sesso, né età venivano risparmiati. Schiavi e liberi plebei erano ugualmente ghermiti dalla morte tra i lamenti delle spose e dei figli che, spesso, mentre li assistono e li piangono, sono colpiti a loro volta e arsi sul medesimo rogo. Non diversamente morivano senatori e cavalieri…

Il medico Galeano descrive la peste Antonina del 2 sec.d.C., propagata entro i confini dell’impero romano dai soldati di ritorno dalle campagne militari contro i Parti.

Nel 542 ci fu la peste di Giustiniano (527- 542).

La pandemia fu tra le più devastanti della storia ed ebbe luogo nei territori dell’impero bizantino.

 La situazione divenne tragica nel giro di poche settimane, e si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo.  In particolare a Costantinopoli, che superava i 500.000 abitanti, la peste trovò un ambiente ideale, data la forte densità abitativa.

Veniva dall’Africa centrale o dall’Etiopia tramite un’imbarcazione che risaliva il corso del Nilo. I topi infetti portarono la peste bubbonica nel porto egizio di Pelusium.

Giovanni Boccaccio

Nel 1347 la peste si abbatté su tutto l’Occidente.

Scoppiata in Asia, si era propagata con le navi genovesi che, insieme alle merci, trasportavano anche una grande quantità di topi, la cui pulce diffondeva la malattia agli uomini.

Il morbo raggiunse prima Messina, poi il NordAfrica, le grandi isole del Mediterraneo, la penisola iberica e nel 1348/49 il Norditalia e tutto il resto d’Europa.

Furono particolarmente colpiti i centri urbani, le cui condizioni igieniche erano precarie a causa di una forte concentrazione demografica: ciò aumentava la velocità del contagio.

La popolazione europea perse circa 28 milioni di persone su un totale di 100, e la popolazione italiana fu dimezzata.

In Italia la mortifera pestilenza che aveva svuotato Firenze, offrì lo sfondo per la stesura del Decameron.

La gente dell’epoca era impreparata a reagire alla malattia, tanto che le scarse condizioni igieniche favorirono la diffusione del contagio, soprattutto nelle aree urbane dove i comuni adottarono vari sistemi per far fronte all’epidemia.

A Firenze la peste si manifestava con il “gavocciolo mortifero” che poi

s’incominciò a permutare in chiazze nere o livide

Né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto”, i malati morivano entro 3 giorni dal contagio.

Fu incoraggiata l’adozione di misure d’igiene personali, particolarmente accurate, furono poste restrizioni ai movimenti di persone e merci, fu prescritto l’isolamento dei malati o il loro trasferimento nei lazzaretti, l’immediato seppellimento delle vittime in fosse appositamente preparate fuori dalle mura e la distruzione col fuoco dei loro vestiti.

Svariati furono gli atteggiamenti individuali per far fronte alla pestilenza.

Alcuni ritenevano che il vivere moderatamente e il guardarsi da ogni eccesso dovesse servire a resistere alla peste; altri vivevano separati e si rinchiudevano in casa, circondandosi da ogni lusso (delicatissimi cibi ed ottimi vini) senza permettere che alcuno parlasse con loro e senza voler sentire alcuna notizia dall’esterno che facesse riferimento a morti o malati.

Altri sostenevano che il bere molto e il godere della vita, andando a cantare, sollazzandosi o soddisfacendo ogni desiderio, potesse essere la medicina certa contro il male.

Altri ancora andavano in giro portando in mano fiori, erbe odorose, spezie; poi le odoravano pensando fosse cosa buona per il cervello dato che nell’aria era sempre presente un odore irrespirabile di cadaveri.

Infine altri decisero di abbandonare la città.

La mortalità era orribile, si gonfiavano le ascelle, l’inguine e si cadeva morti.

Gli affetti erano trascurati: il padre abbandonava il figlio, la moglie lasciava il marito perché il morbo si trasmetteva con l’alito.  

Poiché si ignoravano le ragioni scientifiche del contagio, cominciarono a circolare varie teorie sulla sua diffusione.

Alcuni credevano che derivasse dall’inquinamento atmosferico dovuto ad un miasma proveniente dal sottosuolo, liberatosi a causa dei terremoti.

Altri, tra cui lo stesso Boccaccio, credevano che la peste fosse la punizione divina per la cattiveria degli uomini.

La paura del contagio spinse molti a cercare dei responsabili, “gli untori” credendo che ungessero le porte e i muri delle case per diffondere la malattia.: li identificarono negli emarginati della società, mendicanti e vagabondi.

La gente veniva seppellita se era ricca o aveva conoscenze importanti, i meno fortunati seppellivano i defunti davanti alla propria casa nelle fosse, senza la benedizione del prete né il suono delle campane.

In molti luoghi si scavavano enormi buche data la moltitudine dei morti.

non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo, proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiteri delle chiese, poiché ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravveggenti; e in quelle stivati, come si mettono le mercanzie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricopriano  fino a tanto che della fossa al sommo si pervenia”

Il Boccaccio, nell’introduzione alla I giornata della sua opera, definisce la peste” la giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”

L’atteggiamento dello scrittore di fronte al flagello, è una forma di disgusto misto ad angoscia per la malattia e per il degenerare di norme sociali e costumi civili.

Nel Decameron narra che 7 donne “savie ciascuna e di sangue nobile e di bella forma e ornate di costumi e di leggiadra onestà” e 3 “discreti e valorosi” giovani per evitare il contagio, si incontrarono nella chiesa di S. Maria Novella e decisero di abbandonare Firenze; si rifugiarono un mercoledì mattina in campagna, a due sole miglia fuori Firenze, dove sorgeva un attrezzatissimo

 “palagio” circondato da prati, giardini, luoghi ameni di ogni genere, acque freschissime, vini preziosi.

Il luogo scelto era in netto contrasto rispetto alla città devastata dalla peste nera.

I giovani vanno contro le convenzioni sociali del tempo andando a convivere con 7 donne.

Le donne: Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta e Neifile, e i giovani: Panfilo, Filostrato e Dioneo, organizzano una vita di svaghi e di diletti, tenendo lontana ogni cattiva notizia.

Decidono di eleggere a turno, un re o una regina che regoli la vita di ogni giorno.

Per 10 giorni, sotto il reggimento di diversi re, a turno ognuno narra una novella; solo il venerdì e il sabato non si eleggono re né si raccontano novelle.

Il re o la regina scelgono il tema delle novelle da narrare nella giornata e ciascun narratore deve attenersi all’argomento ad eccezione di Dioneo, che ha il privilegio di raccontare l’ultima novella, libero da vincoli tematici.

La prima regina, Pampinea, decide di trascorrere il pomeriggio al fresco in un verde prato; il tema è libero ma uno dei temi dominanti è la riprovazione dei vizi dei potenti, laici ed ecclesiastici, accusati di corruzione, avarizia, viltà, ipocrisia.

Il II giorno, Filomena assegna come tema le avventure a lieto fine.

Il III giorno, la brigata di trasferisce in un bellissimo giardino. Neifile assegna come tema la narrazione di novelle erotiche.

Nel IV e V giorno Filostrato e Fiammetta decidono di affrontare tematiche amorose.

Nel VI giorno si punta sull’efficacia della parola.

Nel VII giorno Dioneo decide di affrontare le beffe delle donne nei confronti dei mariti.

Nell’VIII giorno Lauretta assegna il tema della beffa in modo generalizzato.

Nel IX giorno il tema è libero.

Il soggiorno volge a conclusione: Panfilo dichiara esaurito l’esperimento e invita i compagni a rientrare in città.

Alessandro Manzoni

Nei Promessi sposi narra le peripezie di due giovani innamorati costretti dallo strapotere dei potenti ad abbandonare i luoghi natii. Accanto alla gente semplice ed umile ruotano nobili presuntuosi, uomini senza scrupoli, alte personalità religiose, ma anche il gruppo esiguo dei personaggi positivi: fra’ Cristoforo, il cardinale Borromeo, ecc.

E’descritta in modo mirabile la vita nel paesello e in quella dei palazzi dei grandi.

Fanno da sfondo alla microstoria dei due oppressi molte vicende storiche: la guerra di successione al ducato di Mantova, la carestia, la sommossa di S. Martino a Milano il 2 novembre 1628, la discesa dei Lanzichenecchi con il conseguente dilagare della peste nel 1630.

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero…non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d’Italia… In questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, 53 anni avanti aveva desolato pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo”

Importante è la figura delle autorità, che non volendo ammettere l’esistenza della pestilenza, perché avrebbero avuto molti problemi, diedero poca importanza ai contagi.

un commissario…e un medico… tutt’è due o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiere di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste; ma in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni”

Il preavviso della malattia era un incubo: forte sonnolenza, dolori in tutto il corpo, presenza di bubboni, delirio e poi la fine.

Al dilagare dell’epidemia vengono presi i primi provvedimenti sanitari, aspramente osteggiati dalla popolazione, che non vuole credere all’evidenza.

Ad un certo punto decisero addirittura di organizzare una processione per san Carlo che in precedenza aveva già salvato la popolazione. Il contagio però aumentava e la popolazione spaventatissima, cercava una spiegazione.

A quel punto si diffuse la diceria che i responsabili del contagio fossero degli individui malvagi, detti untori, che applicavano unguenti infetti alle cose e alle persone.

un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudicerìa, giallognola, biancatra, sparsavi come con delle spugne… La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, pestecon paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti, i paggessieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano… I forestieri… venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia”

Il giorno dopo la processione il numero delle vittime aumenta vertiginosamente e vengono assoldati inservienti, detti monatti, per trasportare in fosse comuni i cadaveri degli appestati.

Nel dramma generale si registrano però anche casi luminosi di generosità, stimolati dall’esempio del cardinale Federigo.

Il vescovo Federigo “visitava i lazzaretti per dar consolazione agli infermi e per animare i serventi; percorreva la città portando soccorso ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò insomma e visse in mezzo alla pestilenza, meravigliandosi anche lui alla fine, di essere uscito illeso”

 Ci sono però anche casi di violenze e sopraffazioni come i saccheggi e i ricatti messi in opera dagli stessi monatti o da malfattori che, fingendosi monatti, entravano nelle case degli appestati per appropriarsi dei loro beni.

“e mentre i cadaveri sparsi…facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto…Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore…”

Camus

Vissuto tra il 1913 e il 1960, ancora piccolo, andò in Algeria, vide come venivano trattati i negri dai colonizzatori e ne rimase turbato, provocandogli una profonda crisi religiosa.

Tornato in Francia, si oppose agli esistenzialisti affermando che al mondo esiste solo l’uomo con i suoi problemi e le piccole gioie.

Premio Nobel 1957, cominciò a concepire il libro nel 1939. Lo andò maturando attraverso le esperienze e la lettura fra l’inizio della II guerra mondiale e l’immediato dopoguerra.

Nella Peste mise in luce le sue esperienze di vita.

L’azione, narrata in terza persona dal dottor Rieuz, si svolge a Orano, piccola città dell’Algeria. da cui parte per poi estenderne le circostanze e il significato, universalizzandoli.

Gli abitanti erano gente semplice: un uomo lontano dalla moglie, che viveva con la madre; un sacerdote che pur di essere vicino ai suoi fedeli, muore di peste; un medico semplice che pensava fosse impossibile che quel male potesse colpire Orano. Correva da un malato all’altro, non sapendo come reagire alle raccomandazioni che gli venivano fatte da madri o familiari preoccupati. La popolazione si chiudeva in sé stessa, disperandosi poi si coalizzava contro il male, dimenticando le controversie. Grazie alla forza della coalizione i topi portatori del contagio, vanno via. Tutta l’opera è un’allegoria: i topi sono gli uomini che distruggono mondi preesistenti creandone nuovi, sono i colonizzatori francesi, gli ariani, coloro che scatenano guerre.

Gli appestati sono gli uomini condannati a subire: i negri, gli ebrei.

La soluzione: gli uomini si devono coalizzare e restare uniti per non essere di nuovo colpiti dalla

 “peste”

Se qui la peste vuol rappresentare nel suo contenuto più evidente la lotta della Resistenza europea contro il nazi-fascismo, in realtà raffigura tutte le forme del male contro cui lotta l’uomo: finisce con l’incarnare la stessa condizione umana, la prigione in cui si trova chiuso l’uomo.

Infatti la città di Orano viene separata dal mondo, isolata, in seguito a un’epidemia di peste. Improvvisamente, mentre la vita cittadina scorre meccanicamente nella sua quotidianità, una quantità sempre maggiore di topi va a morire per le strade della città. La prima reazione è di incredulità. Ma poi di fronte al numero sempre crescente di vittime, la realtà della epidemia è riconosciuta. Alcuni degli abitanti si adattano alla situazione, altri si ostinano a non esaminare la realtà, pochi capiscono. La lotta è improba. Il dottor Rieux, Terron, Grand, Rambert (i protagonisti) continuano una lotta sfibrante. L’epidemia aumenta, diventa più mortale: non c’è alcuna speranza per coloro che lottano. Ma il loro sforzo continua ugualmente. Ed ecco le prime guarigioni. La peste lentamente cessa. Il dottor Rieux assisterà dopo tanta solitudine, e senso dell’esilio alla gioia forte e confusa dei suoi concittadini, ansiosi di cancellare l’isolamento e la separazione. Ricomincia a circolare quel 2 calore umano che fa dimenticare tutto. A questo punto il dottore rivela il motivo per cui ha scritto la cronaca: ha voluto testimoniare in favore di tutti coloro che sono morti a causa della peste e dire con semplicità ciò che si impara nella sventura, cioè che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare. Ma nello stesso tempo Rieux ha voluto ricordare ciò che hanno fatto e continueranno a fare tutti gli uomini che, non potendo essere santi e rifiutando di accettare i flagelli, si sforzano di essere medici.

Egli sa anche, però, che questa sua cronaca non può essere quella della vittoria definitiva, perché

“il bacillo della peste non muore mai”