VERGA E VERISMO

Verismo

Agli inizi dell’800 si venne sviluppando in tutta Europa una nuova corrente letteraria alimentata dalla tecnicizzazione del lavoro, dalle nuove scoperte scientifiche e dall’industrializzazione: il Positivismo.

 Con questo movimento c’è una rivalutazione della ragione umana e la conseguente estromissione di tutto ciò che era metafisico, in opposizione alle teorie, romantiche che avevano soffocato la stessa ragione.

Assistiamo dunque ad un secondo Illuminismo, periodo in cui non c’è più spazio per la superstizione; si diffonde una mentalità laica e l’uomo è sempre propenso ad andare avanti in nome del progresso con l’esaltazione dei valori civili e l’acquisizione delle tesi delle rivoluzioni borghesi e democratiche.

 Anche l’Italia viene investita da questa ondata innovatrice ma la situazione della nostra nazione in confronto col resto d’Europa è disastrosa. Infatti essendo stata l’Italia fino ad allora tagliata fuori dalle grandi correnti di pensiero europee, le teorie positivistiche giungono da noi solo negli anni ’60.

La poetica naturalista entrata in Italia, assume perciò un significato diverso da quello della Francia, anche se entrambe le nazioni ebbero in comune i due canoni del Realismo letterario: il reale positivo come oggetto e l’impersonalità dell’opera d’arte; essi, essendosi svolti in ambienti culturalmente, economicamente e socialmente diversi, assunsero caratteristiche proprie.

Giovanni Verga, Luigi Capuana ed altri, furono definiti scrittori meridionalisti, perché posero la loro attenzione sulle condizioni di vita reali dei ceti popolari nelle singole situazioni.

 Essi andarono, perciò, alla ricerca del vero, attraverso l’analisi delle classi subalterne, sulla scia dei francesi Goncourt e Zola.

I presupposti sono uguali al Naturalismo ma le diversità derivano dal programma di una letteratura intesa come ricerca ed educazione attraverso il vero.

Alla base c’è la delusione postrisorgimentale per un’Italia che non è riuscita a risolvere i problemi sociali.

Perciò si interessa di un ambito meridionalistico e studia il proletariato delle campagne e delle borgate.

Il Verismo quindi nasce dalle esigenze di concretezza e aderenza alla realtà tipiche del Positivismo: emergere della questione sociale, prime lotte dei lavoratori, condizioni di povertà.

L’artista, infatti non ha fine politico, né crede nelle condizioni di vita esistenti.

Il centro è Milano ma teorici e animatori sono siciliani.

In questo contesto si staglia imperante una figura che rappresenterà la punta di diamante, il fondatore effettivo del verismo italiano.

 E‘ grazie a lui infatti che le tesi di questa nuova corrente vengono portate avanti: Giovanni Verga.

Molti critici si sono chiesti fino a che punto si possa parlare del verismo italiano come di una corrente letteraria derivata dal Naturalismo, tanto più che il suo principale esponente, Verga, non è poi neanche convinto che il progresso sia un bene neppure per i vincitori (vedesi Mastro don Gesualdo).

Differenze Naturalismo e Verismo

  • Naturalismo studia il proletariato parigino industrializzato abbrutito dalla miseria e dai vizi (alcolismo, prostituzione, ecc.).

          Verga si interessa delle plebi paesane: studia il proletariato delle campagne e     

          delle borgate.

  • Naturalismo studia gli ambienti periferici delle grandi città (Parigi)

          Verga studia la campagna, i contadini, i pescatori.

  • Naturalismo è ottimista – miglioramento di vita del proletariato.

          Verismo è pessimista – impossibile un riscatto dei miseri.

  • Naturalismo cura l’impersonalità dell’arte.

      Verismo è più partecipe e commosso (lessico italiano, sintassi dialettale)

  • Naturalismo ebbe intenti polemici e di denuncia sociale nella convinzione tipicamente positivista, che ogni problema potesse essere superato.

           Verismo: sull’ottimistica fiducia prevale un atteggiamento di pietà profonda,    

            di rispetto, di commiserazione perché la realtà non si può mutare.

Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia appartenente all’aristocrazia terriera di idee liberali.

Dopo un ciclo di studi regolari, su incoraggiamento del letterato Antonio Abate, suo maestro, scrive Amore e patria, che ha come sfondo la Rivoluzione americana (1856)

A causa di un’epidemia di colera, la famiglia Verga si trasferisce nelle campagne di Vizzini, di loro proprietà.

Così, confessò più tardi, mi mescolai alla vita dei contadini: ebbi dei compagni della mia età, di cui mi impressionarono la storia e il carattere; mi affezionavo alle brave persone che vedevo tutti i giorni; cercavo istintivamente di comprenderle. Più tardi queste impressioni della giovinezza mi ritornarono con forza vivissima; ed è allora che cercai di fissarle”,  

Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Catania e a proprie spese pubblica I carbonari della montagna. (1859)

I suoi primi romanzi non hanno nulla del verismo, anzi sembrano riproporre la parabola di sviluppo del genere nell’800.

Del periodo romantico – patriottico fanno parte i romanzi giovanili: Amore e morte, incompiuto; I carbonari della montagna, Sulle lagune che sono ispirati alle vicende del Risorgimento, a motivi patriottici e amorosi.

I carbonari della montagna,1861

Narra le fasi della rivolta che scoppiò in Calabria contro le truppe francesi di Gioacchino Murat.

Sullo sfondo compaiono castelli, torri diroccate, paesaggi che fanno pensare al gusto dell’orrido di certa letteratura tardo romantica.

Sulle lagune, 1863

Il romanzo, ambientato a Venezia, narra l’amore di un giovane ungherese, soldato nell’esercito austriaco, e una giovane italiana, il cui padre e imprigionato in Austria.

Nel 1860 Verga si arruola nella Guardia Nazionale (dove rimane per 4 anni) che poi abbandona dopo aver versato una grossa somma di denaro.

Nel 1865 si reca a Firenze, allora capitale del regno d’Italia.

Nel vivace mondo fiorentino frequenta Prati, Aleardi, l’anarchico Bakunin.

Nel 1872 si trasferisce a Milano dove incontra esponenti della Scapigliatura e frequenta i circoli letterari e gli ambienti della società elegante.

Al periodo romantico passionale appartengono le opere scritte durante il soggiorno fiorentino e milanese: Eva, Una peccatrice, Storia di una capinera, Tigre reale, Eros, cherisentono di una chiara influenza tardo romantica e scapigliata.

Sono narrate torbide vicende d’amore e di morte, collocate in ambienti aristocratico – borghesi.

Comunque si può già notare la lucidità con cui Verga conduce l’analisi psicologica di Eva, l’ambiente sociale, i motivi economici che sono alla base di tante angosce e disperazioni.

Una peccatrice, 1866

Verga, che fa partire la storia dalla conclusione, inserisce nell’azione due narratori: Angelini, presentato come amico dei protagonisti e come scienziato che guarda alla patologia dei sentimenti, e lo stesso Verga che si interessa dell’elaborazione letteraria attraverso la tecnica narrativa per garantirne l’integrità.

La storia inizia partendo dai dialoghi tra Pietro Brusio, un universitario milanese   e l’amico Angelini. A causa di una delusione d’amore Pietro dichiara di dubitare della sincerità delle donne. Però poi si innamora a distanza di Narcisa, una contessa di Prato, una mantenuta, bella e mondana. Per Pietro la donna rappresenta il mistero, che con la sua bellezza lo attrae come accade con l’arte. Egli si abbandona completamente all’amore che gli dà la spinta per realizzarsi nell’opera d’arte col dramma Gilberto che viene rappresentato a Napoli. Da quel momento il giovane conquista denaro e un posto in società. Durante un ricevimento incontra la donna amata che stavolta ricambia il suo amore (che prima gli era parso irraggiungibile).

 Ben presto, però, la quotidianità smorza la passione. Così il giovane, appagati i sensi, pian piano si allontana dalla donna.  Adesso è Narcisa a soffrire per l’indifferenza di Pietro: assume oppio e muore di crepacuore.

Dopo tali avvenimenti Pietro ritorna al suo paese “rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti” e dissipando i suoi magri risparmi.

Anche se si notano nell’opera toni macabri, orripilanti, orridi, c’è un pregevole scrupolo documentario oltre ad una buona capacità di manipolare le strutture narrative.

Storia di una capinera, 1871

La storia gli è ispirata dall’infatuazione da lui avuta a Vizzini per un’educanda che fu costretta a tornare in convento.

Il romanzo, in forma epistolare, racconta una monacazione forzata.

Il racconto è affidato alle lettere che Maria invia all’amica Marianna, che non compare mai.

La protagonista, Maria è una giovane educanda, orfana di madre, che è costretta a farsi suora da un padre debole e dalla matrigna, desiderosa di proteggere la dote della propria figlia.

A causa di un’epidemia di colera, Maria esce dal convento e gode per la prima volta delle gioie derivanti dal contatto con la natura e con i familiari.

 Incontra durante una passeggiata in montagna Nino, un giovane di cui si innamora: la dichiarazione d’amore avviene attraverso il vano di una finestra. Ma il giovane è costretto ad un matrimonio di convenienza con la sorellastra.

Gli sposi vanno ad abitare di fronte al convento e la suora assiste melanconicamente alla loro storia amorosa.

Si scatena allora in lei un delirio amoroso che la conduce alla follia: sconfitta dalla pena d’amore, si ammala e muore.

Nella narrazione si nota un languido romanticismo.

L’opera gli diede successo letterario e di pubblico.

Eva, 1873

Il pittore siciliano Enrico Lanti, povero e appassionato, dotato di grande capacità d’immaginazione, cerca di fare nella città di Firenze, esperienze nuove.

Si innamora di una ballerina di successo, Eva, che rinuncia ad una vita di lusso e di successo per amore di Enrico. Quando l’amore di lui scema per stanchezza, la donna ritrova la capacità di vivere e ritorna alla vecchia vita equivoca.

Ma il giovane, chiuso nel proprio mondo fantastico, vede di nuovo Eva come la ammaliatrice di un tempo, se ne innamora di nuovo e, geloso, uccide in un duello il nuovo amante della donna. Eva, però, non si riavvicina a lui. Allora Enrico ritorna nella terra natale dove trova conforto negli affetti familiari e muore di tisi.

Eva rappresenta la donna fatale che ama la trasgressione ma è anche attenta alla realtà, e alla solida concretezza della società borghese: ciò le permette di sopravvivere al lacerante rapporto col pittore.

Si avverte l’influsso della letteratura scapigliata.

L’impianto narrativo appare maturo dato che i dialoghi sono ben utilizzati e controllati.

Tigre reale, 1873

Verga, qui personaggio ma anche narratore, racconta la storia di cui è confidente e testimone.

 I personaggi vengono presentati come “due prodotti malsani di una delle esuberanze patologiche della civiltà”.

 Narra la storia d’amore tra un diplomatico siciliano, Giorgio La Ferlita, e una bellissima nobildonna. Giorgio ha acquisito una mentalità cosmopolita ma è dotato di una fantasia eccitata e un’indole appassionata.

La donna, sposata ad un nobile russo, è costretta a seguire il marito nella sua terra.

Allora Giorgio sposa Erminia, una donna dall’animo gentile che gli dà un figlio e la serenità perduta.

Ma poi, il protagonista, dimentico dei propri doveri verso la moglie e il figlio malato, tradisce la famiglia con Nata, l’affascinante contessa russa.

Contemporaneamente anche Erminia a sua volta vive un innocente sogno d’amore con Carlo, un cugino ufficiale di marina.

Il figlio, ammalato, guarisce. Erminia confessa il suo sogno d’amore e riconquista Giorgio.

Un giorno, però, torna dalla Russia Nata, la donna amata che è ammalata di tisi e muore.  Il barone dopo aver consumato con lei una “orribile notte d’amore” torna tra le braccia della moglie, che si è dimostrata una donna dai sentimenti schietti e sinceri.

Eros, 1974

Verga è il narratore etero- diegetico che con ironico distacco, si limita solo a fare da spettatore.

Narra la storia di un giovane marchese, Alberto Alberti, scettico ed epicureo, protagonista delle cronache mondane.

Questi, figlio di genitori separati, simbolo dei vizi delle società cittadine, che abbandona gli idealismi eroici, sin da subito appare destinato ad ereditare il destino di fallimento della propria famiglia.

Egli è un uomo inquieto, dotato di una personalità debole e di uno spirito analitico distruttivo.

Ha dapprima una liason con una cugina, Adele, di animo semplice, sensibile e puro; poi passa all’amore passionale con una fanciulla mondana e raffinata, Velleda, “bionda, elegante, graziosa”; infine conquista Armandi, una contessa matura ma conturbante.

 Dopo tale vita sentimentale tempestosa si rende conto che l’uomo moderno è artefice dei propri dolori perché vive in modo complicato i piaceri amorosi.

Ritorna dalla cugina ma, resosi conto dell’inutilità della propria esistenza, non riuscendo a liberarsi del proprio spirito scettico e corrosivo, si uccide.

L’unica donna schietta e sincera, desiderosa di verità e semplicità è Adele, la moglie di Alberti.

Anche qui si sente l’influenza della scapigliatura milanese.

Nedda, 1874

Con la novella Nedda ha inizio la seconda attività del Verga caratterizzata dal ritorno all’ambiente siciliano e alla vita dei contadini e dei pescatori della sua terra.

In Nedda, primo lavoro verista, Verga prende coscienza della questione meridionale e volge la sua attenzione agli strati della gente più umile.

Il mondo alto borghese con tutti i suoi difetti, le sue immoralità, i bisogni fittizi, scompare per lasciare il posto a personaggi e sentimenti nuovi.

Mentre Manzoni regala a coloro che furono destinati a subire e a soccombere nella vita terrena il riscatto della Divina Provvidenza, per gli umili del Verga non c’è questa consolazione: essi sono vinti, destinati a rimanere tali nel dolore e nella rassegnazione.

Nedda (da Sebastianedda) era una dolce fanciulla costretta a lavorare fin da piccola, per provvedere alle spese per il dottore che curava la madre, molto ammalata.

 Era bruna, vestiva miseramente e aveva un atteggiamento timido: aveva gli occhi neri e i capelli folti, neri ed arruffati.

Faceva dei lavori molto duri (il manovale, la raccoglitrice di olive) che le rovinavano i lineamenti. Guardandola attentamente, nessuno avrebbe potuto sapere che età avesse, perché la miseria l’aveva schiacciata fin da bambina.

Mentre fissava il fuoco che ardeva nel caminetto, si ricordò di quando lavorava nella fattoria del Pino, alle falde dell’Etna.

Il suo ricordo più chiaro era il periodo in cui il cattivo tempo non permetteva che le raccoglitrici di olive potessero compiere il loro dovere.

Mentre le compagne passavano le giornate a ballare e a cantare, Nedda rimaneva in disparte a pensare alla povera madre.

Anche quando le altre pregavano, o dovevano consumare il pasto che la custode preparava, la povera Nedda pensava alla madre moribonda. Dopo aver detto il rosario, le giovani donne andavano a dormire.

Il giorno seguente alcune di esse, dopo essersi svegliate, dissero alle compagne che pioveva. Per questo motivo nacque una discussione, il padrone si intromise e pagò loro un terzo della giornata.

Nedda, allora, decise di tornare dalla madre; durante il tragitto inciampò diverse volte ma la voglia di rivedere la madre era tanto grande che superò tutto.

 Arrivata nel paese, Nedda incontrò un amico che le disse che la madre stava come al solito.

Il giorno dopo, che era domenica, il dottore le ordinò di comprare altre medicine, ma la madre morì.

Dopo che il feretro fu portato via, Nedda si sedette sull’uscio e ripensò ai momenti felici trascorsi insieme alla povera madre.

Mentre pensava a tutto ciò, lo zio Giovanni le si avvicinò e dopo alcuni attimi di silenzio le disse che ad Aci Catena c’era un lavoro che faceva per lei; aggiunse che aveva fatto dire una messa in memoria della madre.

Nedda lo ringraziò di cuore ed entrò in casa mentre un velo di tristezza scese sul suo volto.

Il giorno seguente Nedda non poté mettere il lutto; per questo motivo il sacerdote la rimproverò e le sue amiche la derisero.

Una sera Nedda sentì la voce di Janì provenire dal viottolo.

Il giorno seguente, dopo essersi salutati, il giovane porse a Nedda un fazzoletto di seta che aveva acquistato nella città. Janì aspettava con impazienza Nedda per poter ritornare a casa con lei e parlarle.

Dopo un po’ lo zio Giovanni chiamò Janì, che, dopo aver salutato Nedda e aver detto allo zio che la amava, ritornò a casa.

Il giorno dopo i due giovani partirono per cercare lavoro e riuscirono a trovare un buon posto dove gli uomini venivano pagati con 30 soldi e le donne con 20. 

Una domenica mentre Nedda e Janì passeggiavano per la campagna, il giovane le fece dei discorsi che la fecero arrossire; poi, ad un tratto, lui le domandò di sposarlo, ma lei preferì cambiare discorso.

Una sera, mentre filava, udì la voce del fidanzato che proveniva dal cortile; aprì l’uscio e vide che il suo amato era pallido. Quando gli domandò il motivo, Jani le rispose che aveva un po’ di febbre a causa della malaria e che sarebbe ripartito l’indomani per cercare un nuovo lavoro.

Nedda lo salutò con dolore, perché sentiva dentro il cuore che sarebbe avvenuta una disgrazia.

Tre giorni dopo la giovane vide Jani che era adagiato su di una scala, con la testa fasciata perché era caduto da un albero. Lui le racconto tutta la storia, ma il giorno dopo morì prima di poterla sposare.

Nedda si accorse di aspettare un bambino e dopo aver chiesto inutilmente del lavoro, decise di allevare il bimbo nel modo migliore, anche se doveva contare sui pochi soldi che aveva conservato.

Nacque una bambina ma dopo pochi giorni morì uccisa dalla miseria e Nedda restò sola abbandonata al suo destino.

Con questa novella lo scrittore abbandona i personaggi passionali, evoluti e raffinati dei romanzi giovanili. Ritrae la vita degli umili, che trascorrono la vita rassegnati e silenziosi tra gli stenti e le fatiche. Abbandona perciò le complicate analisi psicologiche, i lirismi e i commenti precedenti per utilizzare una narrazione sobria, disadorna, spersonalizzata, in un linguaggio semplice e scarno.

Dopo Nedda Verga scrisse ancora storie ambientate nella borghesia cittadina.

Quindi alla base della svolta verista si devono porre altre motivazioni:

  • la teoria dell’evoluzione naturale dei positivisti e di Darwin
  • gli studi storici sulla questione meridionale
  • la lettura di Flaubert e Zola
  • l’influsso della Scapigliatura
  • la visione della misera vita dei contadini avuta quando si trovava a Vizzini

Pur non avendo lasciato traccia del cambiamento, è degna di nota la lettera scritta a Salvator Farina che precede la novella L’amante di Gramigna del 1880 da cui si possono enucleare i principi alla base del verismo verghiano:

Il racconto avrà il merito di essere brevissimo e di essere storico, un documento umano

– Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare…

– Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale…

– Quando nel romanzo..il processo della creazione rimarrà un mistero…il suo modo e la  sua ragione di essere  così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé senza serbare alcun punto di contatto col suo autore.

Con la pubblicazione nel 1880 di 8 novelle “Vita nei campi” e “Novelle rusticane” si assiste alla definitiva conversione dello scrittore al Verismo sotto il punto di vista artistico e spirituale.

Verga, lontano dalla Sicilia, ricorda nostalgicamente le ansie, i tormenti, le aspirazioni, la miseria della plebe siciliana.

Riesce a comunicare al lettore in maniera perfetta il mondo dei suoi personaggi, in tutta la sua primitiva naturalezza grazie soprattutto ad una particolare tecnica di composizione che va dall’erlebrepede (discorso vissuto dai personaggi) alla sintassi zoomorfa (persone che assumono, si riducono a similitudini con animali), al discorso oggettivo (impersonalità dell’autore)

Successivamente abbiamo i romanzi I Malavoglia (cui dovevano seguire La duchessa di Leyra, L’Onorevole Scipioni, L’uomo di lusso per completare il Ciclo dei Vinti sulla scia di Balzac e Zola) e Mastro don Gesualdo.

Nella Prefazione ai Malavoglia Verga afferma di voler rappresentare “il movente dell’attività umana che produce la fiumana del Progresso”

  • Nei Malavoglia tale movente è “la lotta per i bisogni naturali”;
  • In Mastro è l’avidità di ricchezza.
  • Nella Duchessa è la vanità aristocratica.
  • Nell’Onorevole è l’ambizione.
  • Nell’Uomo di lusso c’è la sintesi di tutte le bramosie e ambizioni umane.

Durante gli anni trascorsi a Milano Verga intreccia varie relazioni:

  • con la maestrina Giselda Fojanesi, che poi sposò il poeta Mario Rapisardi che la scacciò di casa;
  • con la contessa Paolina Griffi;
  • con la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo che gli fu accanto fino alla morte.

La raccolta Vita dei campi esce nell’80 e contiene i racconti:

Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La lupa, L’amante di Gramigna, Guerra dei santi, Pentolaccia.

La novella Fantasticheria contiene indicazioni illuminanti per comprendere la genesi del romanzo “I Malavoglia”

Verga tratteggia personaggi, situazioni e significato dei Malavoglia, rivelando come il romanzo sia per lui un fondamentale approdo poetico, etico, spirituale.

La novella ha la forma di una lunga lettera.

In essa Verga immagina di scrivere ad una donna dell’alta società con la quale aveva visitato il paese di Acitrezza.

Lo scrittore rievoca le povere casupole, i branchi di monellacci che li scortano come sciacalli, la piccola folla paesana.

Ricorda alcuni personaggi: un vecchio nonno, una donna, una ragazza che faceva capolino dietro vasi di basilico.

Rivede una casa col panchettino dinanzi all’uscio e il nespolo del cortile.

Saranno questi i protagonisti del romanzo “I Malavoglia”.

La rievocazione assume accenti commossi specialmente nel ricordo di quei poveretti “ che solo pregano Dio di chiudere gli occhi dove li hanno aperti “ e sottolinea quello che sarà il punto focale, il centro umano e poetico della futura opera narrativa: l’ideale dell’ostrica”, cioè l’ attaccamento alla famiglia, il senso del focolare come unico rifugio contro le offese della vita, “il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna l’ha lasciata cadere mentre scardinava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della vita…mi sembrano.. cose serissime e rispettabilissime”

Lo scrittore addita in questo passo e in altri successivi una delle motivazioni di quel senso sacro della famiglia nel quale vedeva concretarsi la sostanza umana delle vicende di cui sarebbe stato testimone e trascrittore fedele.

I poveri della Sicilia erano in realtà abbandonati da secoli alla loro sorte e il loro dramma era quello innanzitutto di una solitudine storica: vissuti da sempre sotto l’oppressione feudale in un regime di sfruttamento e di abbandono sentivano come unica difesa “l’istinto di stringersi tra loro per resistere alle tempeste della vita”. E poiché in quelle terre, per molti aspetti ancora vergini, le leggi scritte non potevano essere conosciute, esse erano sostituite da altre, ugualmente sacre: le leggi elementari e primigenie dell’amore del focolare, della roba, come unico mezzo di sopravvivenza.

La cosiddetta civiltà non aveva contaminato con i suoi cavilli e sofismi i cuori di gente che traeva dal contatto quotidiano con la natura, talvolta terribile ma spesso consolatrice e sempre giusta, le sue interiori norme di vita.

Fantasticheria, 1880

Prosa lirica e autobiografica.

Lo scrittore ha effettuato un breve soggiorno ad Aci Trezza, un paesino di pescatori sulla costa orientale della Sicilia e a pochi chilometri da Catania. in casa di una sua amica, esponente del bel mondo. Essa è il simbolo dei raffinati ambienti aristocratici e borghesi dei romanzi passionali precedentemente scritti dal Verga. con le sue avventure e i suoi sentimenti eccezionali che lo aveva affascinato nella sua prima stagione creativa.

Le impressioni della dama erano state pessime ed annoiate “stanca di vedere eternamente il verde della campagna e l’azzurro del mare e di contare i carri che passavano per via”.

Il terzo giorno era ripartita frettolosamente, pentita di aver fatto una così grossa sciocchezza.

A questo Verga contrappone il mondo degli umili, dei diseredati, con la loro vita elementare, miserabile, ma autentica, fondata sulla rassegnazione coraggiosa e sulla capacità eroica nella lotta contro il destino.

Eppure la gente lì ci vive – dice lo scrittore- e nulla può staccarla di lì.

 Il libro, che scriverà, parlerà proprio di quella gente, di Mena, di padron ‘Ntoni, di Lia, il cui riso era andato a finire “in lacrime amare” nella città grande, “lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano”

Migliore sorte era toccata ai morti: Luca era morto nella battaglia di Lissa, e il padre Bastianazzo in un naufragio.

Nel paese ora rimangono tanti bambini, tanti pezzentelli che crescono in mezzo al fango e alla polvere della strada.

I due mondi sono contrapposti in modo intenzionale, anche se tutta la simpatia dello scrittore va al mondo dei poveri.

La conclusione evidenzia il fatalismo pessimistico del Verga, la sua visione statica e pietrificata della società.

.Ieli il pastore          Ieli, diminutivo di Raffaele, è un ragazzo indipendente cresciuto portando a pascolare le bestie.          Infatti trascorre la fanciullezza in campagna come guardiano di cavalli. Talvolta ha          la compagnia di don Alfonso, il figlio del padrone e di Mara, la figlia di Massaro Agrippino e          della gnà Lia.          Col passare del tempo muoiono i genitori, e Mara si trasferisce con la famiglia in           paese. Don Alfonso è “cresciuto nel cotone”, poichè proviene da una famiglia agiata.           Inizialmente i due ragazzi passano la maggior parte del loro tempo insieme, ma,           successivamente, i due si limitano solo a salutarsi: la differenza sociale comincia a pesare           sempre di più ed entrambi dimenticano i momenti e le avventure passate insieme da ragazzi.           Mara è la ragazza per la quale Jeli perde la testa. Viene descritta come una giovane bellissima          con gli occhi neri come stelle che ama vestirsi di rosso.           Il suo rapporto con Jeli è di stretta amicizia, tanto che alcuni a Tebidi sostengono che si          sarebbero sposati.          Il giorno della fiera di San Giovanni, mentre Ieli conduce i cavalli al mercato, accade che per il           sopraggiungere di una carrozza il puledro Stellato cada in un burrone e si ferisca.          Il fattore, intervenuto, finisce il cavallo con un colpo di fucile, per ricavarne la pelle.          Dopo averlo schiaffeggiato, licenzia Ieli che fa la triste esperienza della violenza e della logica           economica.           Senza lavoro e senza un posto dove passare la notte Jeli vede sbattersi la porta della casa di           Mara in faccia, come se fosse un pezzente.           In tal modo fa esperienza del disinteresse della gente nei suoi confronti e dell’abbandono.           Jeli si vede escluso dalla festa quando tutti si divertono cantando e ballando mentre lui sta fuori          ad osservarli.          A Jeli è precluso anche l’affetto di Mara che passeggia e chiacchiera con il figlio           di massaro Neri e non si cura minimamente di Jeli che la osserva baciarsi con il ragazzo.            Il motivo economico è un elemento fondamentale anche nel legame tra Mara e Jeli.           Quest’ultimo pensa di non poter pretendere di sposare Mara a causa della non irrilevante           differenza sociale esistente fra loro.          Trovato un altro lavoro come pecoraio, Jeli pensa di sposare Mara anche se sul conto della         ragazza c’è la diceria che se la intenda con don Alfonso e che per tale motivo sia stata lasciata         dal precedente fidanzato, il figlio di massaro Neri.          Ieli sposa Maria ma a causa del lavoro, torna a casa solo 2 volte al mese.          La notte di santa Barbara, però, rientrato a casa, viene lasciato dalla moglie per un po’ sotto         la pioggia: solo dopo un certo lasso di tempo Mara gli apre la porta di casa.         Ingenuamente Ieli non capisce ciò che accade.        Un giorno però, litigando sul prezzo di un formaggio, il ragazzo della mandria gli dice:        “Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato e avete messo        superbia che vi par di essere un re di corona con quelle corna che avete in testa”.         Ieli, però, non reagisce nemmeno quando lo chiamano “Corna d’oro”         Un giorno mentre tosa le pecore vede sopraggiungere don Alfonso con amici e Mara che è incinta.         Al momento del ballo don Alfonso stringe forte a sé Mara.        Allora Ieli afferra una lunga forbice e taglia la gola a don Alfonso.        Più tardi mentre lo conducono legato davanti al giudice “Come – diceva – non dovevo ucciderlo       nemmeno? Se mi aveva preso la Mara!”     Rosso Malpelo      Malpelo era un ragazzo avvilito dalla miseria e maltrattato da tutti, persino dalla madre e dalla      sorella a cui consegnava ogni sabato, quando tornava a casa, il suo misero salario.        Sin da piccolo era stato costretto a lavorare ma tutti lo scacciavano perché aveva una brutta fama;       infatti le credenze popolari dicevano che chi aveva i capelli rossi era malvagio.        Perciò era considerato poco raccomandabile, anche se era pronto a fare scherzi.       Il padre, Misciu, lavorava nella cava di rena e proprio in quel luogo morì travolto dal crollo di un       pilastro.      Il giorno in cui Misciu morì, l’ingegnere che curava i lavori alla cava, non si preoccupò troppo per      l’accaduto e tornò a vedere la fine dell’opera, perché riteneva che l’evento non fosse degno della      sua persona.      Malpelo, in preda alla disperazione, iniziò a scavare freneticamente per cercare il corpo del padre      fino a quando non gli si staccarono le unghie e gli altri minatori non lo afferrarono per i capelli per       tirarlo via.      Riuscì però a ritornare alla cava in compagnia della madre. Con la morte del padre era diventato       più irrequieto e aveva verso i suoi coetanei un atteggiamento ostile.      Invece Malpelo aveva una certa simpatia per Ranocchio: alcune volte lo sgridava ed altre lo      aiutava.      Era abituato ad essere maltrattato da tutti ed era sempre pronto a vendicarsi delle offese;      questo suo comportamento faceva soffrire la madre!       Malpelo avrebbe preferito fare il manovale o il carrettiere o meglio ancora il contadino, perché      non gli piaceva fare quel lavoro che gli aveva portato via il padre.      Il ragazzo ripensava a ciò che era accaduto alla miniera per la morte del padre e a quando era     piccolo e andava in quel posto accompagnato da Misciu e provava tristezza.      Un giorno nella cava i compagni trovarono la scarpa del mastro Misciu e Malpelo fu colto da una      strana sensazione che lo portò prima alla ricerca frenetica del cadavere del padre e dopo ad un tale      rifiuto e ad una paura per il ritrovamento dello stesso.     Quando ciò avvenne, i compagni prima non dissero niente a Malpelo, poi gli fecero credere che      avessero trovato solo i “calzoni di fustagno quasi nuovi” e le scarpe ancora grandi per il figlio.    A Rosso i calzoni adattati alla sua statura dalla madre sembravano “dolci e lisci come le mani del    babbo che soleva accarezzargli i capelli”.    Le scarpe invece le teneva appese ad un chiodo: la domenica le pigliava in mano, le lustrava e se   le provava; poi le contemplava preso da un’infinita tenerezza per il ricordo del padre.     Ma tale ricordo suscitava in lui un’avversione verso gli uomini e gli animali.    Si vendicava, perciò, maltrattando a sua volta i deboli, come il piccolo Ranocchio (con cui passava   diverse serate) ed andava a vedere le ossa del vecchio asino grigio oltre a parlare e raccontare    strane storie; Ranocchio però, lavorando nella cava, muore per le malattie e le fatiche e l’asino     grigio che egli tempestava di botte.    Malpelo alla fine muore sperduto in una galleria della miniera dove è stato mandato per una     esplorazione pericolosa.     Cavalleria rusticana
E’ una vicenda in cui passione, onore e interesse si fondono indissolubilmente, creando per sovrapposizione il complesso movente della catastrofe finale. Turiddu Macca, un contadino siciliano, figlio di Nunzia, al rientro dal servizio militare, viene informato che Lola, la sua innamorata di un tempo, si è fidanzata con un carrettiere forestiero,  compar Alfio.  Turiddu, riavvicinando Lola, ha l’occasione di farle notare che “ora che sposate Alfio, che ci ha 4 muli in stalla, non bisogna farla chiaccherare la gente. Mia madre, invece, poveretta, la dovette  vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato” Quando Lola si sposa, Turiddu, che vive autenticamente la sua passione amorosa sebbene abbia una  motivazione di invidia economica (ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell’oro) per rivalsa, corteggia Santa, la figlia di massaro Cola (un vignauolo, ricco come un maiale), che abita di fronte alla casa di compare Alfio. Turiddu comincia a lavorare come operaio e cerca di sedurre la ragazza girando intorno a lei; però ben presto è cacciato da Cola. Allora la ragazza gli apre la finestra e i due cominciano ad amoreggiare. Mentre Santa si innamora del giovane. Lola li spia la sera dalla finestra, nascosta dietro un vaso di basilico.  Lola, indispettita, cerca di far tornare a sé l’antico innamorato che ha incontrato durante la processione della Madonna del Pericolo.  Lola, che era stata spinta dalla madre verso una scelta di tipo economico (accasarsi con un buon partito), non ha dimenticato i vecchi affetti che hanno la meglio sul desiderio di salvaguardare la propria posizione sociale. I due si incontrano di nascosto di notte. Santa, accortasi di ciò, allontana Turiddu (gli battè la finestra  sul muso) e riferisce ciò che accade a compare Alfio che “cambiò di colore come se l’avessero accoltellato”. Alfio, che tornava dalle fiere con bei regali per la moglie, considera l’offesa molto grande. Turiddu, alla vigilia di Pasqua, mentre è all’osteria, viene raggiunto da compare Alfio che lo sfida a duello (soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto  per quell’affare). I due si accordano per incontrarsi all’alba del giorno successivo tra i fichidindia della Canziria. Si danno il bacio della sfida e si affrontano in un duello straziante e sanguinoso, armati  solamente di un coltello.  Comincia il duello; Alfio viene colpito e cade a terra. Allora afferra una manciata di terra e la getta  contro il rivale. Turiddu, accecato, viene così facilmente colpito da 3 coltellate e muore. Il dramma si chiude col suono delle campane mentre una popolana si mette a gridare: “E’ morto compare Turiddu”. Sul piano stilistico Cavalleria rappresenta una conquista soprattutto per la fusione di modi di dire, metafore popolari in un tessuto linguistico senza punte toscane o letterarie. Il dramma fu rappresentato a Torino nel 1884. Della compagnia faceva parte Eleonora Duse. Da questa novella fu tratta l’opera lirica di Pietro Mascagni dal titolo omonimo.     La lupa       Ambientata in una Sicilia bruciata dalla calura, la donna, presa da ossessione passionale verso il     genero, muore uccisa da lui dopo averla respinta.     Il testo rappresenta il quadro della mentalità superstiziosa della collettività che non accetta chi,     come La lupa, una donna selvaggia e provocante, trasgredisce i precetti della moralità corrente.     La gnà Pina, infatti è il simbolo dell’amore libero che la comunità vede come un‘apparizione    diabolica e trasgressiva. La sua presenza in chiesa è ritenuta assolutamente inopportuna.     Il prezzo dell’energia erotica che propaga è la solitudine     Nel villaggio dove viveva la chiamavano la Lupa perché ella non era mai sazia delle relazioni che     aveva con gli uomini.     Le altre donne avevano paura di lei perché con la sua bellezza attirava a sè i loro mariti e i loro figli,     anche semplicemente guardandoli.      Di ciò soffriva la figlia, Maricchia, che sapeva che non avrebbe trovato un marito.     “Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e      nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona      terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio”.     Una volta la Lupa si era innamorata di un giovane, che era tornato da soldato.     Nanni mieteva il grano con lei, che lo guardava avidamente e lo seguiva.    Una sera gli dichiarò il suo amore: “Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele.     Voglio te!” Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella, rispose Nanni ridendo. Ella se ne andò via per ripresentarsi ad ottobre per la spremitura delle olive e gli offrì in sposa Maricchia e Nanni accettò. Maricchia non lo voleva a nessun patto ma la madre la costrinse con la minaccia che l’avrebbe ammazzata.  La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più in qua e in là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e  cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Poi la Lupa decise di rimanere a dormire nella casa con gli sposi. Di giorno Maricchia stava in casa ad allattare i figlioli, e sua madre andava nei campi a lavorare con gli  uomini… Un pomeriggio caldo la Lupa svegliò Nanni che dormiva in un fosso e gli offrì del vino, ma egli la pregò di andarsene via. Maricchia era disperata e accusava al madre di volerle rubare il marito e andò anche dal Brigadiere. Nanni supplicò il gendarme di essere messo in prigione pur non rivedere la donna ma  lei non lo lasciava in pace. inpace.. in pace.
Una volta Nanni prese un calcio al petto da un asino e stava sul punto di morire, il prete si rifiutò          di confessarlo se la Lupa fosse stata là; ella se ne andò ma, visto che Nanni sopravvisse continuò a          tormentarlo sicchè lui alla fine minacciò di ucciderla. Nonostante ciò lei tornò altre volte incurante dei divieti e continuava a stare addosso a Nanni anche dopo che questi si era ammalato. Il giovane “avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della lupa che quando gli  sui ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima e il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo… …poi come la lupa tornava a tentarlo. – Sentite, le disse, non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo! Ammazzatemi, rispose la lupa, chè non me ne importa; ma senza di te non voglio starci.Ei come la scorse da lontano, …andò a staccare la scure dall’olmo. La lupa lo vide venire… e non si arrestò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro… mangiandoselo con gli occhi neri. Ah! Malanno dell’anima vostra! Balbettò Nanni         e la uccise, senza che lei opponesse resistenza.  C’è nella novella il tema antico, mitico dell’incesto vissuto come tabù.  La rappresentazione della Lupa è tradizionale: “Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane. … era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi  così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”              La dichiarazione d’amore al giovane da parte della donna, concentrata nella sua ossessione,         avviene su uno sfondo simbolico caratterizzato dal colore nero.         La disperazione è espressa con gesti scomposti ed estremi.        I gesti sicuri della donna, spinta solo dall’istinto e ignara di ogni norma morale, si contrappongono       all’incertezza di Nanni che conosce la debolezza dei sensi ma anche il pentimento e il senso       di colpa. Egli infatti vive la passione come patimento che richiede espiazione.       Nel momento finale i due conservano i loro comportamenti fondamentali: Nanni è determinato       anche se “stralunato”, la Lupa, rappresentata dalle immagini simbolo della passione, mantiene       la sua sicurezza.     L’amante di Gramigna
La novella comincia con una lettera allo scrittore Salvatore Farina in cui Verga espone il principio fondamentale della poetica verista: l’impersonalità dell’arte. Secondo Verga il racconto dev’essere talmente oggettivo da dare l’impressione di essersi fatto da sé, senza alcuna impronta della personalità dello scrittore.     Una fanciulla, Peppa, dopo aver sentito narrare le imprese di Gramigna, un brigante alla macchia,      che ormai da parecchi anni razziava e saccheggiava le campagne siciliane, presa da un’intensa     passione per lui, rinuncia a sposare il fidanzato Finu, un giovane molto conosciuto nella zona per      la sua ricchezza lascia la casa e la possibilità d’una vita agiata e serena per seguire il brigante di cui     diviene l’amante. Il bandito prima non acconsente alla ragazza di seguirlo, ma dopo che costei    dimostra il proprio coraggio, decide di tenerla con sé. Dopo un lungo scontro tra il bandito e i     carabinieri, Gramigna e i suoi compagni d’armi, compresa Peppa, vengono presi e portati in prigione.      La ragazza, comunque, viene liberata, grazie al pagamento della cauzione da parte della madre.     Dopo qualche mese Gramigna viene trasferito e Peppa, ancora innamorata, lo segue e continua a     trascorrere la propria vita presso il carcere dove si trova Gramigna. Comincia a lavorare per i    carabinieri che si occupano della prigione, facendo la serva nella caserma insieme al figlio avuto dal      brigante, mantenendosi sempre fedele all’uomo.  Temi principali sono: l’ideale dell’impersonalità dell’arte, l’adesione totale alla realtà, ottenuta mediante lo studio del fatto umano, della concatenazione psicologica che ne regola lo svolgimento. Prevale il tema della fatalistica accettazione del proprio destino tanto che Peppa, rimproverata da compare Finu per il suo comportamento, dice: “E’ vero…lo so! Questa è stata la volontà di Dio” Manca la pietà verso gli umili, il sentimento tragico del destino dell’uomo. Domina il linguaggio scientifico del positivismo.                              GUERRA DI SANTI       Durante i festeggiamenti della festa in onore di San Rocco, a causa dell’invidia di quelli del quartiere    di San Pasquale, iniziano delle liti che provocano molti feriti e litigi tra parenti; saltano anche i     matrimoni. A San Pasquale aspettavano il delegato di Monsignore che avrebbe dovuto portare la    mozzetta ai canonici: infatti avevano fatto venire ad incontrarlo anche la loro banda fuori dal     paese. I galantuomini in riunione avevano una gran voglia di accapigliarsi e il delegato, dicendo che    era venuto per la conciliazione, invitò questi signori a prendere il cioccolato in sagrestia.     In paese per la forte carestia scoppiò il colera: anche Turi e Saridda ne furono colpiti.      Nino, a questa notizia, corse a casa di questi ultimi e ci fu la riconciliazione. Poi si ammalò anche   Nino che stette per morire.  Saridda, disperata, voleva morire con lui, anche Nino guarì e insieme     a Turi si gettavano in viso l’un l’altro San Rocco e San Pasquale. Finalmente tutti fecero la pace.  

 

PENTOLACCIA

La novella narra la storia di Pentolaccia, un povero bracciante siciliano. Egli voleva sposare “la Venera” a tutti i costi nonostante la madre gli dicesse che la ragazza non era per lui, dato che non aveva voglia di lavorare e sicuramente in breve tempo lo avrebbe tradito. Ma il giovane, contro il parere di tutti, la sposò, costringendo la madre a lasciar la casa. Una volta diventata padrona di casa, “la Venera” ne combinò di tutti i colori. Da quel momento la gente lo denominò “Pentolaccia”. Egli allora iniziò ad insospettirsi ma la moglie lo rassicurava dicendogli che erano solo delle dicerie. Purtroppo le voci della gente erano vere, infatti “la Venera” lo tradiva con don Liborio, un ricco dottore che non faceva mancare niente alla donna e al marito. Don Liborio era anche molto rispettato dall’ingenuo Pentolaccia che lo chiamava “signor compare” e faceva per lui ogni tipo di mestiere. Ma un giorno Pentolaccia sentendo due contadini parlar di lui definendolo “cornuto”, tornò a casa e, al colmo dell’ira, appena vide don Liborio a casa sua, gli ordinò di non farsi più vedere altrimenti avrebbe fatto una brutta fine. Ma don Liborio non si preoccupò minimamente pensando ad un momento di follia da parte del contadino. Il giorno seguente “Pentolaccia” decise di tornare prima dai campi e cogliendo la moglie mentre si preparava, aspettando la visita di Don Liborio, si appostò vicino all’uscio di casa senza farsi vedere e, quando sentì i passi dell’anziano dottore per la via, si preparò con una stanga in mano. Appena Don Liborio entrò nella stanza, “Pentolaccia” lo colpì con una stangata sulla nuca e lo uccise sul colpo. E così “Pentolaccia” finì in galera.

Nei Malavoglia il progresso è visto come un fiume in piena che travolge senza pietà gli affetti, le tradizioni e l’economia di sussistenza di un piccolo paesino del catanese.

Ecco l’introduzione al romanzo: Il movente dell’attività umana, / che produce la fiumana del progresso, /è preso qui alle sue sorgenti. /Il cammino fatale, incessante, /spesso faticoso e febbrile che segue/ l’umanità per raggiungere/ la conquista del progresso è grandioso/ nel suo risultato, visto nell’insieme da lontano. / nella luce gloriosa che l’accompagna/ dileguatesi le inquietudini, / l’avidità, l’egoismo, tutte le passioni, / tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano / l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, / dal cui attrito sviluppasi la luce della verità”.

L’idea esposta nella prefazione, sotto il titolo “I Vinti” intende rappresentare l’intera scala sociale: dall’umile condizione del pescatore siciliano all’accanito arrampicatore economico, dalle classi aristocratiche ai rappresentanti politici per poi giungere all’intellettuale.

Il progresso per Verga esiste ed è un fenomeno grandioso, ma analizzandolo da vicino, in profondità, vi si scoprono avidità, egoismo, vizi, debolezze, passioni.

il Verga propone lo studio di come nascono nella gente umile le irrequietudini per la ricerca del benessere; nel romanzo sono descritte le pene e le speranze di gente che tribola quotidianamente per sopravvivere, le fatiche di una povera famiglia di pescatori che conduce la sua lotta contro la sventura per cercare di migliorare la propria condizione ma inevitabilmente viene ricacciata nella miseria dalla rigida struttura sociale.

Il Verga mostra la catastrofe cui va incontro l’uomo quando voglia, per bramosia o per insoddisfazione, raggiungere un benessere o un riscatto sociale che non gli è permesso dal destino, condannato come è ad essere, senza scampo, un vinto.

I personaggi sono gente afflitta e diseredata, offesa dalla giustizia ma che, nonostante tutto, continua a vivere anche soffrendo in uno stato di totale rassegnazione.

Un senso oscuro di fatalità si sente scorrere in tutto il romanzo, attraverso i personaggi, i fatti, persino i luoghi in cui si svolge il dramma, cupi, arsi, aspri, privi di quella naturale bellezza che pure hanno ma che nessuno sembra vedere, pietrificato nel proprio dolore.

La vicenda è basata sulla ritualità che possiamo ritrovare nei piccoli avvenimenti quotidiani dato che i personaggi appaiono i custodi di principi legati ad una tradizione patriarcale.

La figura dominante è il patriarca, padron ‘Ntoni, rappresentante della casa del nespolo: a lui spetta il compito di prendere le decisioni più importanti

E’ il depositario consapevole di quei valori antichi ed immutabili che gli altri componenti della famiglia cercano di sovvertire.

E’ l’immagine viva e potente di una saggezza antica, di un’abitudine al dolore e alla sofferenza, un personaggio a suo modo eroico, perché malgrado tutto non si fa abbattere dal destino avverso e continua a combattere in nome di quei principi semplici, elementari su cui si basa l’esistenza degli umili e che vanno difesi fino alla morte: la casa, la famiglia, l’onore, la dignità umana.

Soltanto chi, come Alessi non avrà tentato di mutare le leggi di questo mondo, riuscirà infine col suo lavoro a ricostruire ciò che è stato distrutto: facendo propria la lezione di Padron ‘Ntoni: riscatterà la casa del nespolo, poiché soltanto nel rispetto degli ideali di una ancestrale giustizia e di una religione della famiglia, si può trovare la possibilità di sopravvivenza.

Nei Malavoglia Verga ha creato un complesso affresco corale, in cui un intero paese è protagonista. Con le sue chiacchere, con i suoi amari commenti, le sue umane gelosie, le sue crudeli compassioni: non è soltanto uno sfondo ma è parte integrante in cui tantissimi personaggi, a volte solo abbozzati, si fondono in una sintesi drammatica che rende ognuno specchio di tutti, di quella unità morale di sentimenti che lega coloro che fanno parte di uno stesso destino di “vinti”

Il vecchio Padron Ntoni partiva dal presupposto che nelle avversità familiari bisognava aiutarsi l’un l’altro come le 5 dita della mano: lui rappresenta il dito pollice.

Ognuno deve rispettare il proprio ruolo” chi è il dito grosso deve far da dito grosso”

Maruzza, La Longa rappresenta la massaia ideale dedita a svolgere le proprie incombenze” una piccina che badava a tessere, salare le acciughe e a far figlioli da buona massaia”

Il pessimismo verghiano non conosce né luce né speranza di redenzione, i suoi umili nascono soli e muoiono ancor più soli, senza neanche la fede che li possa confortare. La quotidianità dell’argomento suscita interesse, emozione e tristezza.

Tutti i personaggi sono chiusi nel cerchio doloroso del loro dovere e delle loro angosce, come anche le figure minori di paese, ciascuna con il suo carico di pene ed il suo esiguo fardello di speranze.

Il paese in cui sono ambientate le vicende è Aci Trezza, sulla costa orientale della Sicilia tra Catania e Messina.

 Ad Aci Trezza vive la famiglia Toscano (Malavoglia) composta dal vecchio padron Ntoni, dal figlio Bastianazzo con la moglie Maruzza, la Lunga e da cinque nipoti: Ntoni, un fannullone di venti anni, Luca che ha più giudizio del fratello maggiore, Mena detta sant’Agata per la sua dedizione al lavoro, Alessi e la piccola Lia.

Protagonista dei “Malavoglia” è anche l’intero paese di Aci Trezza con i suoi abitanti che partecipano all’azione del romanzo o come messa corale sul cui sfondo si muovono i principali personaggi o come singoli individui dai caratteri ben delimitati (nei quali si rispecchia la vita di tutti i giorni, con le sue miserie e i suoi problemi).

I Malavoglia abitano “la casa del nespolo” e possiedono una barca, la Provvidenza, con cui faticosamente si guadagnano da vivere.

Quando il giovane ‘Ntoni parte per il servizio militare, incominciano i guai per la povera famiglia: l’annata è scarsa e mancano le braccia per governare la barca.

Padron ‘Ntoni decide allora di acquistare a credito dall’usuraio del paese una partita di lupini da rivendere.

Ma la barca viene sorpresa dalla tempesta e nel naufragio perdono la vita Bastianazzo e il figlio della Longa.

Nel frattempo Ntoni ritorna dal servizio militare: così si riapre la speranza per l’avvenire.

Il giovane si mette a lavorare ma maledice la sorte perché non ha voglia di continuare quella vita, tanto più che tutto il guadagno della famiglia serve appena a pagare la riparazione della barca.

Così in un modo o nell’altro, la vita per la sfortunata famiglia procede.

Ma la notizia della morte di Luca durante la battaglia di Lissa è un colpo veramente duro per i Malavoglia che, impossibilitati a pagare il debito, devono lasciare la casa del nespolo.

Eppure la tenacia del vecchio ‘Ntoni è tale che la famiglia riesce a riprendersi anche se con gravi sacrifici e rischi (tra cui la barca sempre in mare anche nei giorni di tempesta).

 Ma le disgrazie continuano: la povera Longa, colpita dal colera, muore tra la disperazione della famiglia e il giovane ‘Ntoni decide di partire.

Rimasto solo Alessi, padron ‘Ntoni è costretto a vendere la Provvidenza perchè il guadagno non basta neppure a pagare i lavoranti a giornata.

In seguito Ntoni torna lacero ed affamato. Riaccolto in famiglia, si lascia trascinare nuovamente sulla china della perdizione e finisce in carcere. Il disonore fa cadere la famiglia in una profonda crisi.

Intanto il tempo passa: Alessi sposa Nunziata e riscatta la casa del nespolo ma padron Ntoni muore all’ospedale.

Una sera Ntoni ritorna a casa: viene invitato a restare ma preferisce andare dove nessuno lo può riconoscere.

Nella piazza deserta del paese il giovane fissa a lungo i luoghi natii, poi all’alba si mette in cammino mentre la vita nel villaggio riprende col solito ritmo.

Se i Malavoglia sono la rievocazione della storia di un’intera famiglia, o meglio di un intero villaggio, è anche vero che i 2 poli intorno a cui ruota tutta la vicenda sono il vecchio e il giovane Ntoni; il primo è il personaggio di maggior rilievo, simbolo della fede nella vita e tenace custode di quelle virtù semplici e primitive nelle quali l’uomo trova la forza di lottare e vivere.

Il secondo appare come il vero protagonista, colui che, essendosi staccato dal gruppo finisce per essere ingoiato da quel pesce vorace che è il mondo.

E con lui sarà ingoiata l’intera famiglia.

Nei personaggi dei Malavoglia si trovano dunque realizzate 2 concezioni di vita.

 Da un lato vi sono i rappresentanti di una società immobile ed arcaica, ostili ad ogni idea di progresso, legati alle superstizioni e tradizioni del passato.

Dall’altro troviamo i fautori di una rottura con le antiche tradizioni, desiderosi di un totale riscatto umano ed economico.

Nei Malavoglia si riscontra la concezione della vita come profonda tristezza dato che vede tutti i personaggi come dei vinti.

 La vita è rappresentata nelle sue fatiche quotidiane, nella sua pesante monotonia.

Su di essa incombe un destino che bisogna accettare con pazienza, senza maledice e senza benedice.

In questo mondo l’uomo è chiuso in sé, affidato alle sue forze che si logorano giorno per giorno contro l’ostilità della sorte.

Nei personaggi Verga riesce a infondere, però, nobiltà d’animo nella convinzione che “il mondo è così come è” perché così deve essere e che pure da questa semplice accettazione della realtà si può trarre l’idea di un dovere da compiere e di una legge da servire.

Mondo dei Malavoglia e dei Promessi Sposi

Manzoni può essere considerato un antecedente del Verga. Noti entrambi pur se in epoche diverse (il primo in pieno Romanticismo, il secondo durante il periodo verista), hanno punti in comune.

Il Romanticismo è l’epoca dei grandi ideali, del trionfo dell’amore su ogni azione, è l’epoca in cui la Patria è il fulcro delle leve su cui è posta l’umanità intera e, in particolar modo, il popolo italiano.

 Verga elabora la propria opera in un’epoca travagliata da insoddisfazioni sociali, in un periodo in cui Zola e Maupassant pubblicano le loro opere e l’uomo sente il bisogno di scrivere la vita reale e senza fronzoli o imbellettamenti.

Il Naturalismo, nato in Francia, viene importato in Italia dal siciliano Luigi Capuana col nome di Verismo.     

Il Naturalismo affronta tematiche sociali scabrose: la prostituzione, la disoccupazione, le malattie.

Il Verismo è ansia per il benessere sociale.

Manzoni scrisse la sua opera fingendo di aver trovato un vecchio manoscritto anonimo.

Verga così scrive a Capuana: “Mi trovai per caso tra le mani un vecchio diario di bordo in cui erano scritti i travagli di un marinaio. Una storia semplice. Fu per me un fascio di luce.”

Nacque così il bozzetto mai pubblicato col titolo di “padron Ntoni”; in seguito col titolo di “Poveri Pescatori”. Infine nel 1881 col titolo di Malavoglia.

La concezione che ispira Manzoni è di stampo religioso-provvidenziale, del trionfo del bene sul male; quella verghiana è costituita dall’ideale dell’ostrica che per poter vivere deve rimanere attaccata allo scoglio altrimenti o la mangiano i pesci oppure viene presa dai pescatori.

Il mondo dei Promessi Sposi può considerarsi il mondo dei vincitori, infatti alla fine i 2 giovani hanno la vittoria sul male che la società del tempo era abituata a compiere con estrema facilità.

I Malavoglia, invece, sono da considerarsi il mondo dei vinti, che la marea ha spinto sulla spiaggia e vengono sconfitti dalle proprie ambizioni e dalla società.

Nel mondo Dei Promessi Sposi i personaggi principali sono 2 giovani e la falsa signoria.

Nei Malavoglia i protagonisti sono la famiglia Toscano ma anche l’intero paese che partecipa alla sventura della famiglia come se anch’essi fossero componenti di questa sconfitta sociale.

Il linguaggio manzoniano è pulito, ingenuo, quello dei Malavoglia è paesano, facile ad intendersi nei suoi reali significati.

Padron Ntoni con i suoi proverbi (che il Russo definì “salmi biblici, versetti di un patriarca della casa e del lavora”) può paragonarsi a fra’ Cristoforo.

Infatti padron Ntoni, anche se spinto dall’ansia di progredire, è cosciente del disfacimento della sua famiglia, mentre fra’Cristoforo da religioso è cosciente della vittoria che i 2 promessi sposi avranno sul male.

La Mena ci ricorda Lucia anche se la prima è sconfitta da ciò che le accade intorno e perde tutto, anche l’amore.

Il mondo manzoniano è cristiano, quello verghiano pur cristiano, è fatto di uomini.

La povera Lia che diverrà prostituta, a differenza di Mena non può paragonarsi alla monaca di Monza: Lia è una conseguenza del disfacimento sociale, Gertrude è conseguenza del periodo storico in cui vive.

Sono mondi apparentemente uguali, ma in realtà assai diversi: l’uomo è presentato nei suoi pregi e difetti, anche se in Manzoni il linguaggio è mascherato dalla società del tempo.

I Malavoglia sono i Vinti, i primi del ciclo che il Verga si accingeva a comporre ma che non porterà a termine.

Col ciclo si proponeva di affrontare nelle varie classi sociali ed a diversi livelli, il tema delle ambizioni umana sconfitte, ma dei 5 romanzi programmati, oltre ai primi due, scrisse solo poche parti del terzo, “La duchessa di Leyra”, sia perché la vena dello scrittore era già stanca, sia per le difficoltà narrative e stilistiche incontrate nel raccontare un mondo aristocratico, troppo contorto e problematico.

La vita dei diseredati offre una lezione di civiltà. Quei primitivi sono tali in quanto immuni dalle tare di una società corrotta.

 Il Capuana parla di un “metodo impersonale portato sino alle estreme conseguenze. ”E’ pur vero che quei pescatori siciliani di Acitrezza” non assomigliano a nessuno dei personaggi di altri romanzi ma non perché Verga abbia esasperato il principio dell’impersonalità ma perché ha animato i suoi personaggi e le vicende di quell’altissima pietà che ha richiamato per qualche critico il Manzoni di quella connotazione  che si rivela a dispetto dei propositi di obiettività nel modo con cui l’autore mette in rilievo certe situazioni, un certo clima spirituale, certi tratti del carattere e del paesaggio stesso che parlano tutti della fatica e della dignità con cui quella gente vive i suoi oscuri drammi.

Evidentemente Capuana, pur dotato di sagace intuito letterario, fu influenzato nell’ultima parte di questo giudizio da quelle stesse teorie del Naturalismo francese che egli aveva fatto conoscere all’amico Verga (cosa del resto comprensibilissima in momenti in cui la scienza positivistica avrebbe voluto ridurre a patologia medica o a scienza comparata anche l’opera d’arte, secondo i canoni che per fortuna il Verga seguì solo in parte e compatibilmente col suo profondo istinto di poesia.)      

La successiva produzione verghiana ha come centro di narrazione la roba.

Per le vie, 1883

Sono 12 novelle in cui   sono descritti scorci di vita misera del proletariato urbano, emarginato, tarato con la sua pena di vivere. Accanto all’argomento sociale si profila il tema del vagabondaggio, cioè della vita come viaggio faticoso e doloroso.

Il progetto fu probabilmente suggerito dall’infittirsi in quegli anni dei romanzi sociali della Scapigliatura.

 Novelle rusticane, 1883

In 12 novelle presenta il mondo miserrimo della Sicilia agricola salvo qualche eccezione. Infatti ne “Il reverendo” si narra la storia di un prete che si arricchisce utilizzando la propria posizione di sacerdote.

Ne “I galantuomini” viene narrata la storia di nobili decaduti.

Nel resto della raccolta c’è una spregiudicata accettazione del destino avverso e l’attaccamento alla logica della “roba” che sarà alla base di Mastro don Gesualdo.

Infatti ne la “Storia dell’asino di S. Pietro” la bestia è vista solo in chiave economica. Infatti l’asino, man mano che invecchia, perde di valore.

Ne “Gli orfani” il protagonista Meno quando gli muore la moglie, ne piange la perdita solo in base al valore economico, in quanto la donna era una saggia amministratrice dei beni della famiglia.

In “Pane nero” la protagonista Lucia si rivela opportunista e calcolatrice, infatti sposa per “passione economica” il vecchio padrone che l’aveva compromessa ma che le assicura una ricca dote.

In “Libertà” viene narratauna delle tante ribellioni contadine avvenute in Sicilia al tempo della spedizione dei Mille nel 1860.

La ribellione avviene a Bronte, un piccolo centro alle pendici dell’Etna, dal 2 al 5 agosto 1860 per effetto del decreto emanato da Garibaldi prima di entrare a Palermo sulla spartizione delle terre comunali: ciò aveva suscitato tante aspettative e speranze tra i contadini.

L’insurrezione è repressa da Nino Bixio che istituì un tribunale di guerra ed emise 5 condanne a morte, tra cui quella dell’avvocato Niccolò Lombardo che si era schierato dalla parte dei ribelli ma non era riuscito a controllare la sommossa.

Le condanne furono eseguite con celerità senza che ci fosse alcuna difesa.

All’inizio è descritta la furia selvaggia dei contadini che, issato il tricolore sul campanile e suonato le campane, scendono in piazza e al grido “Viva la libertà” irrompono nelle strade con falci e scuri: assaltano le case dei “galantuomini” e ne fanno strage.

Muoiono il barone, il prete, lo speziale, il notaio col figlio, le nobildonne ingioiellate.

A sera la furia si calma e le strade diventano silenziose.

La mattina dopo, domenica, coloro che timidamente si affollano sul sagrato della chiesa restano tristi perché non c’è la messa ed è chiuso il “casino dei galantuomini”

Il giorno successivo comincia la repressione: il generale dei carabinieri a caso comincia a fucilare 5 o 6 contadini. Poi arresta i responsabili degli eccidi e li porta a Catania dove dopo 3 anni si celebra il processo.  Il giorno della sentenza il carbonaio mentre lo traducono in carcere dice “O perché? Non mi è toccato nemmeno un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!”

In “Malaria” si parla della malattia che ha costituito per l’Italia nei secoli passati un vero flagello; è un’infezione causata da parassiti del sangue e trasmessa dalla zanzara Anofele. Per lungo tempo non si è saputo come curarla L’unica possibilità era evitare i luoghi paludosi. Non è ciò che fanno i protagonisti della novella.  

“La roba” è incentrata sul tema dell’accumulo dei beni, dell’avidità umana che diventa attaccamento smodato e irrazionale a quanto costituisce la propria ricchezza. Mazzarò è dipinto come un folle che insegue senza umanità la roba e vorrebbe condurla con sé anche dopo la morte.

Il protagonista, Mazzarò, è un umile contadino che grazie al suo impegno riesce a diventare un grande proprietario terriero e quindi un grande latifondista.

La preoccupazione di accumulare ricchezza è una passione che domina questo personaggio verghiano; essa è capace di sopraffare tutti gli altri sentimenti e di divorare gli stessi personaggi che ne sono dominati.

Mazzarò ha immense ricchezze, una profonda passione per la roba poiché l’aveva conquistata con le proprie mani e con la propria testa, con la fatica e con la persistenza. Solo lui non si vantava pensando alla sua roba che era tutto quello che aveva di più caro dato che non aveva figli né parenti che gli volessero bene o che provassero un po’ di affetto per lui.

Prima che Mazzarò potesse accumulare tutta quella roba: uliveti, vigneti, pascoli, praterie, lavorava presso un barone come contadino e in breve tempo riuscì a possedere tutte le ricchezze e perfino il palazzo del suo padrone.

Benché avesse molte ricchezze, era molto avaro e quando qualcuno gli chiedeva in prestito dei soldi, lui rispondeva che non ne aveva e quando aveva del denaro lo conservava per comperare nuovi appezzamenti terrieri.

Mazzarò ha un grande problema che lo assilla perché morendo non ha la possibilità di dare in eredità la roba che gli è costata tanti sacrifici.

Dice che questa è un’ingiustizia di Dio che, dopo essersi logorato la vita ad accumulare roba, una volta ottenutala, uno deve lasciarla.

Perciò quando vede un ragazzo seminudo, curvo sotto il peso, gli lancia per invidia il suo bastone gridando: “Guardate chi ha i giorni lunghi! Costui che non ha niente!”

Quando seppe che stava per morire, arrabbiato, andava ammazzando col bastone le sue anatre e i tacchini gridando: “Roba mia, vienitene con me!”

La roba è insomma per Mazzarò una specie di culto religioso.

Nel romanzo “Il marito di Elena”, del 1882, è narrata la storia di Cesare, un giovane di origini contadine che grazie all’impegno e ai sacrifici si laurea in legge. Sposa Elena, una giovane appartenente alla borghesia cittadina. E’ una creatura ambiziosa che vive in modo scontento perché non riesce ad adattarsi al mondo della provincia che ritiene mediocre ed angusto.

Incapace di accettare i sacrifici del marito che fa di tutto per arrecarle gioia, intraprende avventure mondane e amori deludenti, a cui il marito accondiscende in modo remissivo. Dopo vari tentativi per cercare di recuperare l’amore della moglie, che ormai è diventata indifferente, Cesare reagisce e la uccide. 

In Mastro don Gesualdo, 1889, è raccontata in 4 blocchi: ascesa ( il matrimonio), trionfo ( l’ascesa ), declino ( la vicenda di Bianca e della figlia Isabella), sconfitta( fine di Mastro), la parabola di Gesualdo, un perdente perché la sua volontà di scalata sociale è pura utopia.

 Verga descrive l’esperienza con cui la gente tenta di accumulare e conservare la roba cioè casa, moglie, terra, figli.

L’uomo lotta strenuamente pur di difendere ciò, da chi detiene il potere e dalla stessa natura malefica.

Per tale motivo i personaggi diventano egoisti, cattivi, ipocriti e spietati.

Verga vede la realtà per quello che è, non demonizza il progresso che anzi è grandioso visto nell’insieme, ma che purtroppo, non sempre è vantaggioso per tutti.

Egli vuole mostrare l’altra faccia della medaglia: se è vero che il progresso riduce il lavoro e quindi le sofferenze dell’uomo, è vero anche che esso ne genera delle altre. Crea un personaggio dalla forte statura morale, dalla virile impostazione umana:una figura cruda, priva di illusioni, indurita dalla sofferenza e dalle umiliazioni, circondata di una tristezza antica, che accetta, senza porsi motivazioni, l’infelicità umana.

Infatti sopporta rassegnato i tradimenti e l’ingratitudine della propria famiglia, attende invano che la moglie e la figlia Isabella, lo ripaghino con un po’ di affetto dell’amarezza del suo esistere ma la solitudine a cui è destinato trapela in ogni momento nel romanzo soprattutto in quelle autentiche pagine d’arte che narrano la sua morte nel castello dei Trao a Palermo, lo spegnersi di una vita che era stata tanti attiva ma consumata senza gioie, e che avviene tra l’indifferenza dei servi, il freddo distacco della figlia e del genero, dilapidatore dei beni faticosamente accumulati.

Questa morte desolata ed amara esprime il vertice del pessimismo verghiano

(sociale, storico, familiare, valoriale) secondo cui per gli umili non è possibile in alcun modo emanciparsi dalla propria condizione.

Ambientato in un modesto centro agricolo siciliano, Vizzini, al tempo della spedizione dei Mille, racconta la storia di un uomo Gesualdo Motta, un ex lavoratore che, arricchitosi col sudore della fronte e a costo di durissimi sacrifici, è diventato il dominatore del paese, odiato ma anche rispettato da tutti. L’eroe ha una bontà genuina, compressa e rude ma sincera; non diventa cinico come i casi della vita avrebbero voluto, è invece disilluso e senza sogni, bisognoso come ogni uomo di tenerezza e d’amore che nessuno si preoccupa di dargli, ad eccezione della fedele serva, Deodata;  nella semplicità primordiale, nella dedizione assoluta che nulla pretende e tutto è disposta a dare della donna, Mastro ritrova i soli momenti di dolcezza e di rude abbandono.

Lei gli darà quei 2 figli cha la moglie legittima non gli aveva dato.

Il culto della roba e del denaro lo assilla; diventato ricchissimo, aspira ad un titolo nobiliare che ottiene sposando Bianca Trao. La donna lo accetta solo per salvare dal fallimento la sua famiglia.

Il matrimonio, però, aggrava la posizione di Gesualdo perché tutti gli sono contro.

 I familiari, benché siano stati aiutati da lui, lo considerano un estraneo e lo sfruttano; i borghesi ne invidiano le ricchezze; i nobili lo odiano.

Il suo denaro attira tutti ma nessuno gli vuole bene sinceramente.

Ben presto il matrimonio si rivela un fallimento: neanche la nascita della figlia Isabella riesce a strapparlo dalla solitudine perché la giovane si vergogna del padre e preferisce farsi chiamare Trao anziché Motta.

Così Gesualdo muore consumato dal cancro nella più amara solitudine, lontano dalla sua casa natale, a Palermo, nel palazzo del genero dove assiste impotente allo sperpero della roba che con tanta fatica aveva accumulato.

Diversamente dai Malavoglia, il romanzo non può essere inteso come un’opera corale.

Al dramma di una famiglia e di un paese si sostituisce la sofferenza di un uomo che già nel nome porta i vantaggi, don, e gli svantaggi, mastro della sua posizione: il rispetto e il disprezzo dei suoi conterranei.

Il protagonista appare subito come personaggio rude, incurante dei giudizi della gente. Orgoglioso di sé e delle proprie origini, ricorda volentieri il suo passato: il fatto che da ragazzo sia stato un manovale con i sassi sulle spalle lacere o che abbia costruito il suo primo mulino con denaro preso in prestito, anziché umiliarlo, lo esalta.

Si sente il dominatore del paese e disprezza il mondo dei borghesi che non conoscono la gioia della conquista.

Per questo rimprovera aspramente il fratello fannullone (che ha sempre bisogno di denaro da spendere all’osteria), la sorella, il cognato, lo stesso padre che non capisce nulla eppure vuole sempre intervenire nei suoi affari.

Nonostante ciò, Gesualdo non nutre rancore nei confronti di quelli che con il loro egoismo e la loro stupidità mettono ancora più in risalto la sua grandezza.

 Egli, pur nella ricchezza, trascorre una vita che non conosce agi o riposo, sempre in attività per controllare i suoi operai o per sostituirsi ai lavoratori pigri.

Conosce una pausa solo a sera, quando divide una modestissima cena con la serva Diodata, l’unica che lo ama veramente, che lo comprende e con la quale si può sfogare Però, per far lega con i pezzi grossi del paese, è costretto a respingere l’unica persona capace di comprenderlo anche in silenzio.

Poichè il fine della vita di Gesualdo è il culto della roba, in nome di questa rinuncia a Diodata e per il desiderio di un prestigio sociale che le sue origini non gli possono dare, stringe il matrimonio con Bianca: una decisione sbagliata che rende ancora più cupa la sua solitudine in un mondo che non lo comprende e lo odia.

Ma la continua ricerca di ricchezza lo porta alla rovina: il padre e tutti i suoi familiari lo trascinano in tribunale, la figlia sposa il duca di Leyra, un nobile spiantato che dilapida le ricchezze di Gesualdo.

Morta la moglie, gli avvenimenti politici scatenano contro di lui l’odio dei concittadini che vogliono la sua roba mentre una malattia implacabile ne fiacca le forze e lo costringe a vivere a Palermo.

Riappare l’ideale dell’ostrica: la terra, che tanto aveva dato a Gesualdo, alla fine si vendica con chi l’ha tradita, respingendo chi si è allontanato da lei. 

Come ‘Ntoni aveva tradito la casa del nespolo, così Gesualdo ha tradito la terra, perciò la rovina di entrambi è la conseguenza del loro tradimento.

Nonostante la malattia che lo divora, Gesualdo conserva ancora fino alla fine la sua fierezza, rifiuta ogni vittimismo, combatte silenziosamente la sua battaglia nella solitudine a cui è abituato.

Accanto a Gesualdo c’è la storia dei Trao, razza antitetica a quella di Gesualdo.

Diego, Bianca e Isabella appartengono a un mondo diverso, un mondo che Gesualdo ha avuto il torto di voler comprare e che invece ha le sue leggi rigide ed immutabili che escludono intrusi e aiuti.

Se Gesualdo è il custode della roba, Diego Trao è il custode della nobiltà con le sue pergamene e i suoi ricordi.

Ma anche i Trao sono destinati alla sconfitta: il mondo cambia intorno eppure loro non scendono a patti con i tempi e ne sono travolti.

Il mondo di Motta e quello dei Trao è, perciò, senza speranza.

Mentre i Malavoglia con la tenacia del loro lavoro potranno tornare a riprendere possesso della casa del nespolo e della loro identità, Mastro non ha nessuna prospettiva; neppure la famiglia offre un conforto alla sua drammatica solitudine.

Lo stile dei 2 romanzi è improntato nel rispetto delle regole veriste, che proponevano l’impersonalità dell’autore nell’adesione rigorosa alla verità, l’interesse documentario per i fatti, l’assenza di commenti morali o di descrizioni psicologiche, l’uso del dialogo al posto della narrazione continua.

Infatti personaggi e luoghi sono indagati con assoluta obiettività, sono gli stessi protagonisti a parlare, a “raccontarsi”, mentre vivono le loro storie, con la differenza che ne “I malavoglia” Verga è più impersonale, usa il discorso indiretto libero, che esclude ogni intervento dell’autore nell’opera.

In Mastro invece, introduce il monologo interiore, il soliloquio degli stessi personaggi che con le loro parole e i loro sentimenti s’interrogano e si scavano dentro.

La lingua ha un lessico semplice e quotidiano, con l’uso frequente di espressioni dialettali e del gergo comune, spoglia di artifici letterari o di reminiscenze letterarie, ed è un’originale invenzione verghiana.

Verga scrisse poi altre novelle pubblicate in 2 raccolte:

  • I ricordi del Capitano d’Arce ( 1891)
  • Don Candeloro e C.

Ne I ricordi c’è la voce di un capitano che racconta la vita sentimentale di Ginevra, la moglie di un comandante di marina. L’ambiente appare frivolo e leggero, in realtà tutti i gesti fatti nei salotti o negli interni borghesi appaiono velati da una specie di malessere che si evidenzia particolarmente nelle più eleganti figure di donna.

Don Candeloro, raccolta pubblicata nel 1894, che contiene novelle composte a partire dal 1889, è rappresentato il mondo del teatro e la vita degli attori appare non separata dalla finzione, dalle maschere rappresentate. Nella loro vita i protagonisti sono costretti a lottare per sopravvivere di fronte ad un pubblico di provincia. Essi rivelano in modo assai dolente le costrizioni a dover rinunciare ad ogni autentico desiderio o ideale.

La raccolta consegna una nuova tappa nel lavoro del Verga che scopre il fallimento della sua metodologia impossibilitata a rappresentare una realtà che pur avendo mille facce, in sostanza è priva di consistenza.

Due i temi basilari:

  • il teatro come luogo di finzione: è la metafora delle vuote convenzioni sociali
  • il convento visto come luogo di simulazione, rappresentante di una religione ipocrita che viene usata come strumento di interesse e potere.

Il tramonto di Venere

Rappresenta la vita difficile di una ballerina, Leda, che conosce dopo il successo, la sconfitta, la decadenza e soprattutto il tradimento dell’amante che ha dimenticato il sostegno ricevuto in passato da lei.

Verga si cimentò anche con lavori teatrali.

Esordì con Rose caduche (1869), traduzione di Una peccatrice.

Cavalleria rusticana (1884), che fornisce una immagine della Sicilia basata su figure violente e colorate, sospesa in una distanza quasi mitica anche se convenzionale.

 In portineria (1885) che parla di una donna malata, Orelie.

      La lupa (1896)

Dal tuo al mio (1903), dramma in 3 atti, nato per il teatro e poi trasformato in un romanzo dallo stesso titolo.

L’ambientazione siciliana è associata ad un’analisi dei conflitti sociali tra la vecchia aristocrazia, la piccola borghesia arrampicatrice e la debole e divisa classe operaia dei lavoratori delle solfare.

Verga fu nominato senatore nel 1920 e si recò a Roma per il giuramento

Morì a Catania a gennaio del 1922 per trombosi.