PIRANDELLO

Nacque ad Agrigento il 28 giugno 1867, in una villa di campagna detta “Il Caos” da Stefano, ex garibaldino, che si occupava della gestione delle zolfare, e da Caterina Ricci – Gramito, sorella di un ex compagno d’armi del padre.
Ricevette in casa da un precettore l’istruzione elementare fino al ‘79.
Apprese da parte di un’anziana signora molti dei racconti di fiabe e leggende del folklore siciliano che ritroveremo in alcune sue opere (Angelo Centuno, Le donne delle notte,ecc.).
Avendo una forte vocazione umanistica, scrisse a 12 anni una tragedia (andata perduta) che recitò con le sorelle e gli amici del padre nel teatrino di casa.
1880 – La famiglia si trasferì prima a Palermo e poi a Porto Empedocle.
1885 – Terminò gli studi classici a Palermo, si fidanzò con la cugina, Paolina, di qualche anno più grande di lui e tornò per breve tempo ad Agrigento.
1886 – Si iscrisse a 19 anni alla facoltà di Lettere presso l’università di Palermo; l’anno dopo si trasferì a Roma e diventò allievo di Ernesto Monaci, uno dei più grandi filosofi del tempo.
1889 – A Palermo con l’editore Pedone Lauriel pubblicò Mal giocondo, una raccolta di versi e ruppe il fidanzamento con Paolina.
Un contrasto col professore di latino della facoltà di Roma, Onorato Occioni, lo spinse a trasferirsi nel novembre a Bonn dove si innamorò della tedesca Jenny Schulz- Lander (a cui dedicherà la raccolta di poesie, Pasqua di Gea, pubblicata nel ‘91 a Milano)
Nello stesso anno si laureò in Filologia Romanza con la tesi: Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti, sostenuta in lingua tedesca.
Rimase a Bonn come lettore di Italiano presso l’università che però lasciò anche per motivi di salute.
1892 – Avendo il fratello Innocenzo fatto il servizio militare al suo posto, si trasferì a Roma, sovvenzionato dal padre.
1893 – Prese parte al movimento letterario e giornalistico della città. Ebbe notevole risonanza un suo scritto antidannunziano pubblicato dal Marzocco.
Destò interesse il romanzo Marta Ajala, poi intitolato L’esclusa, uscito a puntate sul quotidiano romano La tribuna e pubblicato poi in volume a Milano nel 1908 dall’editore Treves.

L’esclusa
Composto nel 1893 e pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore.
I primi 2 capitoli, che si sviluppano nell’assenza della protagonista, ci presentano il quadro, cupo e sgradevole, della famiglia Pentàgora dopo la scoperta del presunto adulterio di Maria Ajala, moglie di Rocco. La famiglia Pentàgora è stata funestata da alcune generazioni dal tradimento delle mogli. Marta è innocente ma è condannata dal marito che l’ha sorpresa mentre legge una lettera inviatale da un ammiratore, Gregorio Alvignani (che abita al piano di sopra), le cui avances la donna aveva sempre respinto. Sia il padre che il marito le rifiutano ogni difesa dalla pubblica opinione. Il marito la scaccia di casa e la esclude dalla famiglia, pur sapendo che è in attesa di un bimbo. La piccola città siciliana dove è nata e vive, la isola, la respinge, le vieta ogni attività e la dileggia pubblicamente in nome di un esteriore e automatico moralismo. Marta, pur innocente, tuttavia è ritenuta da tutti colpevole. Marta si rifugia nella casa paterna, dove viene accolta amorevolmente dalla madre e dalla sorella. Il padre, sentendosi disonorato, affida l’amministrazione dei propri beni ad un nipote disonesto e si chiude al buio in una stanza, rompendo ogni rapporto con gli altri. Dopo alcuni mesi l’uomo muore nello stesso giorno in cui Marta, a causa dei disagi e delle mortificazioni, mette alla luce un bimbo morto. Per aiutare la famiglia, dopo il dissesto causato dalla disonesta amministrazione del cugino, Marta, ripresasi lentamente, superati gli esami, ottiene l’incarico di maestra, ma il paese la contesta. Marta accetta allora l’aiuto dell’avvocato Gregorio Alvignani, il suo ex spasimante che, divenuto deputato, la sistema come insegnante in un collegio a Palermo, insieme alla madre e alla sorella che le sono rimaste vicine. La donna alla fine cede senza amore alla corte del protettore. A questo punto il marito, guarito da una grave malattia, corre da lei per riconoscerne l’innocenza e chiederle di tornare da lui. Ma Marta, incinta dell’Alvignani, rifiuta questa soluzione e medita, sia pur riluttante, il suicidio. Sul letto di morte della madre di lui, confessa al marito di essersi data all’Alvignani ma ora Rocco non intende più rinunciare a lei. La famiglia si ricomporrà e Rocco avrà un figlio non suo.
Pirandello qui condanna la società malevole ed egoistica, attenta alle apparenze e alle convenzioni sociali.
Pur obbedendo ai canoni della narrativa verista con la descrizione di molti particolari, dei luoghi, dei pregiudizi popolari ma anche della volontà di riscatto, Pirandello fa prevalere il contrasto fra apparenza e verità, fra ciò che veramente siamo e ciò che di noi dicono gli altri. Qual è la verità di Marta?
L’autore insinua nella donna un’inquietudine: Marta stenta a riconoscere la propria femminilità e non si abbandona mai positivamente agli affetti, come se la fatica di difendersi dalla malignità della gente abbia un costo altissimo in termini di inadeguatezza al ruolo di moglie, di madre, di amante. Marta, donna sola, è in crisi: è un’esclusa dagli altri e da sé stessa e tenta di imporre la propria personalità prima attraverso un atto trasgressivo e poi col rientro nella norma e nella “maschera”.

1894 – Scrisse la prima raccolta di racconti “Amori senza amore” e molti articoli e testi vari su alcune riviste e giornali.
Il 27 gennaio a Girgenti sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio di affari del padre. Il matrimonio, sebbene combinato dalla famiglia, inizialmente fu felice. Nacquero nel ‘95 Stefano, nel ‘97 Rosalia, detta Lietta, nel ‘99 Fausto.
1895 – Scrisse, senza pubblicarlo, Il nido, un dramma che nel corso di 20 anni subirà modifiche del titolo (Il nibbio, Se non è così, La ragione degli altri).
1897- Iniziò a insegnare Italiano presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma dove rimase molti anni, tenendo corsi, poi raccolti in vari saggi, tra cui L’umorismo e Arte e Scienza.
Pubblicò su L’Ariel, un giornale letterario fondato con due amici, il suo primo testo teatrale: l’atto unico L’epilogo, poi ribattezzato La morsa.
1899- Continuò a scrivere poemetti e la prima commedia in 3 atti: Se non è così.
Poi La ragione degli altri, rappresentata solo 16 anni più tardi.
Alla nascita del figlio Fausto cominciarono i primi segni delle crisi nervose della moglie.
1902 – Scrisse Il turno e due raccolte di novelle: Beffe della morte e della vita e Quando ero matto, già apparse su giornali e riviste.

Il turno
I.Esalta l’attaccamento alla roba di don Marcantonio Ravì, che, per continuare ad arricchirsi, costringe la figlia Stellina, bella, ricca e allevata come una principessa, a sposare don Diego Alcozèr, di 72 anni, già quattro volte vedovo, anche se sa che è innamorata di Pepè Alletto.
La povera donna Rosa, madre della giovane, era favorevole al progetto del marito, tanto che ai parenti faceva notare che ciò che faceva Marcantonio era ben fatto.
Marcantonio, bonaccione, grasso e grosso, con le gambe tozze, sembrava fatto apposta per compensar Don Diego che gli camminava accanto tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, estraendo dalla tasca un astuccietto di velluto. Egli non spendeva mai niente: aveva tanti gioielli delle mogli defunte: che doveva farsene?
Pepè viveva con la madre settantenne, Bettina, che lo trattava ancora come un bambino di dieci. Il padre aveva dato fondo a tutto il patrimonio e ne era poi morto di crepacuore; si era salvata soltanto la vecchia casa in cui abitavano. Pepè non amava molto lavorare, ma se fosse nato in una città più grande, forse la passione che aveva per la musica gli avrebbe aperto un avvenire.
Eppure vuole trovare una sistemazione per essere degno della fanciulla. Intanto, Ciro Coppa, dopo la morte della giovane moglie Filomena, sorella di Pepè, con un male che i medici non riuscivano a capire, innamoratosi di Stellina, la convince a chiedere il divorzio da don Diego. E quando Ciro morirà nello stesso letto della moglie, Pepè si farà carico della crescita dei due nipoti.
II. Al Ravi gli sarebbe piaciuto maritare la figlia con il consenso popolare e andando in giro per la città, fermava amici e parenti per chiedere un parere. Ma appena sentivano il nome di Don Diego Alcozèr sbruffavano una risata domandando se parlasse sul serio. Il Ravi si allontanava indignato, pensando che quel partito fosse una fortuna per la figliola; egli non era riuscito a maritare la figlia secondo il suo piacere, nonostante avesse lavorato tutta la vita onestamente, né vi erano giovanotti adatti ad assicurarle il benessere. Quindi per lui l’unica soluzione era quella di sposare un vecchio ricco, proprio come Don Diego: più che matrimonio, si trattava di una pura e semplice adozione con un uomo di settantadue anni. Stellina avrebbe dovuto soltanto aspettare di aver composto il corpo del marito benefattore, e a questo punto allora il giovanotto! Bella, ricca, allevata come una principessa: così i giovanotti come le mosche intorno a lei! Stellina naturalmente non apprezzava il ragionamento del padre, ma egli era talmente sicuro che in pochi anni lo avrebbe ringraziato: lo considerava un suo dovere costringere la figliola inesperta a ubbidire. La povera donna Rosa era favorevole al progetto del marito, tanto che ai parenti faceva notare che ciò che faceva Marcantonio era ben fatto.
Don Diego si faceva vedere per la città col futuro suocero: Marcantonio, bonaccione, grasso e grosso, con le gambe tozze, sembrava fatto apposta per compensar Don Diego, che gli camminava accanto tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, compiacendosi di mostrare quell’unica ciocca di capelli che gli nascondeva il cranio alla meglio. Don Diego parlava bene il latino, aveva goduto tutta la vita e voleva fino all’ultimo godere; odiava la solitudine e amava la gioventù, di cui cercava la compagnia. Seduti al Caffè del Falcone, riprendevano il discorso del matrimonio, interrotto dai saluti che Marcantonio distribuiva a voce alta ai suoi innumerevoli conoscenti. Don Diego non era entrato in casa della promessa sposa, poiché minacciava di cavargli gli occhi se si fosse permesso di presentarsi, ma Don Diego di queste minacce non gliene parlava, gli diceva soltanto di avere pazienza. Intanto Don Diego acconsentiva, e estraeva dalla tasca un astuccietto di velluto. Egli non spendeva niente: aveva tanti gioielli delle mogli defunte: che doveva farsene? Don Marcantonio intanto metteva in tasca il dono e sbuffava pensando all’ostinazione della figlia che se ne stava rinchiusa in camera rifiutando anche il cibo. La madre stava di guardia come una sentinella, parenti e vicine cercavano di metterla contro il marito, ma invano. Ogni giorno chiedeva la chiave per aprire l’uscio, e dare un altro regalo a donna Rosa da consegnare alla figliola. Stellina strappava di mano alla madre il regalo e lo buttava a terra, ma appena uscita la madre, si alzava, gironzolava un po’ per la camera e prendeva il regalo: la curiosità era più forte dell’odio per il vecchio donatore.
Il giorno dopo seduti al Caffè del Falcone, Don Diego diceva al Ravi che quasi ogni sera sotto casa sua si facevano serenate, e sapeva anche che erano i fratelli Salvo. Ma Marcantonio rispondeva che non ne sapeva nulla, anzi era anche propenso a cercarli, ma Don Diego lo bloccava per paura che lo compromettesse. Una sera il Ravi incontrò Pepè Alletto e lo chiamò in disparte pregandolo di lasciare in pace sua figlia e prendendolo sotto braccio gli disse di lasciargli organizzare quel matrimonio, aiutandolo anzi. Per dire la verità né Stellina né lui avevano mai aspirato a tanto, certo la ragazza gli piaceva, ma era convinto del fatto che non era in condizione di prendere moglie. Viveva con la madre settantenne, che lo trattava ancora come un bambino di dieci. Il padre aveva dato fondo a tutto il patrimonio e ne era poi morto di crepacuore; si era salvata solo la vecchia casa in cui abitavano. Pepè non amava molto lavorare, ma se fosse nato in una città più grande, forse la passione che aveva per la musica gli avrebbe aperto un avvenire. Certe sere mentre contemplava il mare rischiarato dalla luna, si sentiva angosciato da certe malinconie, ma di questi suoi strani momenti si vergognava, temendo che i suoi amici se ne accorgessero, così cercava di non pensarci, tornando nella triste realtà a cui doveva adattarsi. Intanto il Ravi era preoccupato che tra lui e la figlia ci fosse qual cosa per la quale non volesse acconsentire al matrimonio con Don Diego.
Circa due mesi dopo si celebrarono le nozze tanto combattute. Marcantonio si era allargato molto con gli invitati, volendo il consenso popolare, visto che amici e conoscenti disapprovavano. Per Stellina dopo le congratulazioni degli invitati, la commiserazione nasceva spontanea. Intanto il Ravi, notando un certo impaccio nella sala, invano cercò di incitare, tanto che soltanto Pepè mettendosi al pianoforte, suonò e ballò, spingendo gli altri a farlo, ravvivando la festa. Stellina gli sembrava più bella del solito tra le congratulazioni degli invitati che lo lodarono per come suonava, tanto che era considerato l’eroe della festa; tuttavia, colui che doveva ringraziarlo di più era Marcantonio. Don Diego, per mostrarsi galante nei confronti della sposa, le porse un bicchiere di rosolio: le mani gli tremavano a tal punto che gliene versò qualche goccia sul vestito. A questo punto Stellina scoppiò a piangere, cadendo in una violenta crisi di nervi: due ragazzi la sollevarono e la portarono in un’altra stanza. Marcantonio cercava di tranquillizzare gli invitati, ma invano perché tutti erano addolorati dalle sorti della povera ragazza. Intanto la festa era finita, e la gente andava via in silenzio: era già suonata la mezzanotte. Pepè sentendo un insulto verso la giovane sposa da parte di Luca Borrani, reagì allo spintone con uno schiaffo, e da lì nacque un parapiglia.
Il giorno dopo Pepè si rivolse al cognato Ciro Coppa per un consiglio, perché la mattina stessa aveva ricevuto una lettera del Borrani: questi non voleva sfidarlo per l’insulto e lo schiaffo della sera avanti, per avvisarlo che lo avrebbe preso a schiaffi dovunque l’avrebbe incontrato, anche in chiesa.

1903 – Il padre fallisce. La solfatara viene distrutta da una frana e nella disgrazia sfuma anche la dote della moglie dello scrittore che, dopo aver letto la lettera che annuncia il disastro, patisce enormemente per il fatto: prima ha una paresi alle gambe, poi crisi sempre più violente. I l grave trauma psichico mina la sua mente in modo serio e la donna ossessionata da una morbosa gelosia, rende difficile la vita familiare.
Per arrotondare lo stipendio, anche a causa dell’assistenza continua alla moglie, Pirandello si dedica a lezioni private e a collaborazioni giornalistiche.
1904 – Esce a puntate sulla rivista Nuova Antologia Il fu Mattia Pascal.
L’opera ha molto successo: viene raccolta in volume, tradotta in tedesco e poi in altre lingue. Nel romanzo si rivela la coesistenza di due personalità, l’una reale l’altra fittizia, sovrapposte nello stesso individuo: ciò non gli permetterà di vivere fuori delle strutture sociali e dello stato civile

Il fu Mattia Pascal
Scritto nel 1904, il romanzo si basa sul concetto che è impossibile vivere al di fuori delle strutture sociali e dello stato civile…
Mattia è nato e cresciuto in un paesino siciliano. Rimasto ben presto orfano di padre, è giunto alla giovinezza fra gli agi di un illusorio benessere, mentre l’amministratore dei beni familiari gli sta preparando con i suoi furti una totale rovina. Al termine di una boccaccesca vicenda (che ricorda abbastanza da vicino la trama di Liolà), si trova ammogliato senza affetto con la giovane Romilda Pescatore, la cui madre- strega, malvagia ed invadente, giunge ben presto ad avvelenargli la vita.
Quando dopo l’inevitabile rovina finanziaria, non resta a Mattia, uomo timido e modesto, che una vita triste e sterile, divisa tra la biblioteca comunale di Miragno in cui gli è stato dato un posto per misericordia, e la casa sempre risonante delle rampogne della suocera e i debiti che lo affliggono.
Poi le cose cambiano: un giorno, al termine della sopportazione, disperato per la morte della propria madre e della figlioletta appena nata, Mattia fugge a Montecarlo e al casinò vince una notevole somma di denaro che gli permetterebbe di sanare tutti i debiti, di riportare un po’ di pace sotto il tetto coniugale e di trascorrere la vita in un parsimonioso benessere.
Mentre è sulla via del ritorno a casa, in treno su un giornale legge la notizia del suo suicidio. Dopo il suo allontanamento, infatti, è stato rinvenuto nella roggia di un mulino il cadavere di uno sconosciuto che tutti, moglie e suocera per prime, hanno identificato in lui.
Dopo un primo moto d’indignazione nell’animo di Mattia subentra la gioia di sentirsi libero e di potere, senza rimorsi, evitare la triste vita d’un tempo. Così decide di rompere il cerchio socialmente ed umanamente insopportabile casa-famiglia-lavoro.
Cancellata la sua stessa identità di disgraziato e sconfitto, col nuovo nome di Adriano Meis, viaggia a lungo libero da preoccupazioni anche se impossibilitato, per la mancanza di documenti, ad avere legalmente un’altra vita. Si trasferisce in una pensione romana dove, insieme a una galleria di personaggi strampalati, conosce Adriana di cui si innamora.
Ma l’impossibilità di avere una “forma” (stato anagrafico, identità civile, ecc.), che in un primo momento non è inavvertita, si fa sempre più dolorosa quando l’affetto umile e dolce della giovane Adriana apre nuove speranze al suo cuore. Una serie dolorosa di casi, infatti, gli dimostra che nessuna vera vita nuova è per lui possibile: Adriano non figura in nessuna anagrafe, e può continuare a vivere a condizione di non lavorare, né possedere, né amare. Non gli è concesso neppure di denunziare chi lo deruba e sfidare a duello chi lo offende. Per uscire da tale situazione Mattia simula il suicidio di Adriano, riprende il suo vero nome e ritorna al paese natio, amareggiato e desideroso di vendicarsi. Purtroppo scopre che nemmeno riprendere la vecchia vita, la primitiva” forma”, è possibile. La moglie ha sposato il suo amico Pomino e ha avuto un figlio. Mattia a questo punto rinuncia a far valere i propri diritti di primo marito: egli è un estraneo per tutti e la sua posizione è quella del rifiuto e dell’esclusione. Con la compagnia di una vecchia zia e di un prete che l’ha sostituito come bibliotecario, vive contemplando la vita degli altri, scrivendo le proprie memorie, “la sua bislacca avventura” e portando qualche volta fiori sulla tomba dello sconosciuto scambiato per lui. In conclusione deve ammettere, come concludono i suoi interlocutori. Che fuori della legge e fuori di quelle particolarità liete o tristi che siano per cui noi siamo noi, non è possibile vivere E a chi gli chiede chi egli sia risponde: “Eh, caro mio, io sono il fu Mattia Pascal”
Tramontati i vecchi valori romantici, Mattia come uomo moderno si può inserire nella categoria degli “inetti”, degli sconfitti, degli ignavi della vita e della coscienza.
Secondo Benedetto Croce è il romanzo dello smarrimento, dello stupore e dell’angoscia di chi si accorge, constatandolo sulla propria pelle, del vuoto che è nascosto dietro i nomi, le apparenze basate sulle norme, le convenzioni sociali.

… Ero solo ormai, e più solo di com’ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d’ogni legame e di ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l’avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.
Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero!
Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita, non doveva aver più per me, ormai, ragion d’essere. lo dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal.
Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi.
– E innanzi tutto, – dicevo a me stesso, – avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si vogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini. Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa posizione, e portava gli occhiali su la punta del naso…

1906 – I fratelli Treves inserirono Pirandello tra i loro autori, ristampando alcune opere e pubblicando nuove raccolte di novelle.
1908 – Pubblicò l’Umorismo e il saggio Illustratori, attori e traduttori.

“ L’Umorismo consiste nel sentimento del contrario provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come ordinariamente nell’arte, una forma del sentimento , pur seguendo passo dopo passo il sentimento, come l’ombra segue il suo corpo. L’artista bada al corpo solamente, l’umorista bada al corpo e all’ombra e talvolta più all’ombra che al corpo: nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’accorci, quasi a far smorfie al corpo che, intanto, non se ne cura”

Per avvalorare tale tesi Pirandello cita questo esempio:

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti…e poi tutta imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. avverto che quella signora è il contrasto di ciò che una vecchia e rispettabile signora dovrebbe essere…Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la calvizie, riesce a trattenere in sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più ridere come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre quel primo avvertimento, o piuttosto ,più addentro: da quel primo avvertimento mi ha fatto passare a quel sentimento del contrario”

1909 – Pubblicò sulla rivista Rassegna contemporanea il romanzo I Vecchi e i giovani (raccolto poi in volume dai Treves nel 1913), sulle vicende siciliane fra Garibaldi e i Fasci Siciliani.
Iniziò la collaborazione col Corriere della Sera.
1910 – Il commediografo Nino Martoglio, direttore del teatro siciliano, lo convinse a trasporre in un atto unico, ricavandolo dalla omonima novella, Lumie di Sicilia, che venne rappresentato il 9 dicembre al teatro Metastasio di Roma.
1911 – La vita nuda e Suo marito, in cui la protagonista, una scrittrice compone due drammi: Se non è così, mai rappresentato, e La nuova colonia.
Vi si narrano le trame di due drammi attribuiti alla protagonista, Silvia Roncela
(quella de La nuova colonia, il mito che Pirandello scriverà 15 anni dopo)
Nello stesso anno andò in scena la rappresentazione di un dramma La morsa, al teatro a Sezioni di G.E. Nani a Torino.
1912 – Scrisse i Terzetti.
1914- E’ l’anno de Le due maschere, poi titolato nel 1920 Tu ridi.
1915 – Un nuovo romanzo, Si gira, ripubblicato 10 anni più tardi col titolo Quaderni di serafino Gubbio operatore, a Firenze da Bemporad, ha un chiaro riferimento al mondo del cinema e alla polemica vita/ macchina.

L’opera, divisa in 7 Quaderni, ha come protagonista Serafino Gubbio, un giovane intellettuale che da Napoli si reca a Roma per trovare lavoro. Di lui non abbiamo connotati fisici né altro in quanto egli è il testimone della crisi, propria dell’intellettuale nello scontro tra la propensione umanistica e il nuovo mondo industriale. Serafino viene assunto in qualità di operatore cinematografico presso una casa di produzione, la Kosmograph. Durante la lavorazione l’attrice russa Varia Nestoroff si trova accanto come coprotagonista il barone Aldo Nuti, suo ex amante che approfitta di una scena, in cui appare una tigre, per uccidere la donna. Ma a sua volta viene assalito e ucciso dalla bestia. Serafino, impotente, gira la scena ma per il trauma subito, resterà muto per sempre. Per comunicare con gli altri si servirà allora di “una penna e un pezzo di carta”

“Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per scherzo, mi domando se veramente tutto questo frastuono e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto.

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella…
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciaio le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la macchina che meccanizza la vita!”

Emergono in questo periodo vari volumi di novelle e altri atti unici: Il dovere del medico e Cecè, rappresentati nel ‘13 e nel ‘15.
A Milano al Teatro Manzoni il 19 aprile Marco Praga mise in scena la prima commedia in 3 atti, Se non è così del 1899, con Irma Gramatica.
Scoppiata la guerra, i figli andarono sotto le armi, la moglie ebbe sempre maggiori crisi con scene di gelosia molto furiose.
1915 – Ad Agrigento morì la madre mentre il figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli austriaci ed internato a Mathausen.
1916- Nino Martoglio e l’attore siciliano Angelo Musco lo pregarono perché tornasse a scrivere per il teatro.
Pensaci, Giacomino e Liolà furono rappresentati a Roma con successo al Teatro Nazionale il 10 luglio e Argentina il 4 novembre.
1917- Pubblicò ancora novelle e un mistero profano All’uscita.
Trascorsi gli anni della 1 guerra mondiale, col consenso dei figli rinchiuse la moglie in una casa di cura psichiatrica; poi scrisse e fece rappresentare La ragione degli altri, Il berretto a sonagli, La giara ( Roma, Teatro nazionale, compagnia Angelo Musco), A vilanza, cioè La bilancia, scritta insieme a Nino Martoglio, Così è se vi pare ( Milano, Teatro Olimpia, compagnia Talli), Il piacere dell’onestà, rappresentato la prima volta a Torino al Teatro Carignano il 27 novembre, con la compagnia Ruggeri.

Il berretto a sonagli.
Ciampa, uno scrivano tradito dalla propria moglie che se la intende col principale, difende con logica ferrea la scelta di negare il tradimento che, restando segreto, non offende la sua dignità di uomo e di marito.
Solo in questo modo egli non assumerà la maschera di cornuto con le tragiche conseguenze che, secondo l’ottica sociale, il fatto dovrebbe comportare: l’uccisione della moglie e dell’amante.

“E non ammazzo soltanto lei, perché forse farei un piacere, così, alla signora! Ammazzo anche lui, il signor cavaliere, per forza, signori miei! per forza!”

Ciampa sa che la finzione è l’unica possibilità di vivere in una società farisea che assegna un compito ad ognuno. Beatrice, però, la moglie dell’adultero cerca di uscire dagli schemi convenzionali che considerano il matrimonio come condizione privilegiata per la donna. Per screditare il marito ed esporlo al ludibrio di tutto il paese, cerca di rendere di pubblico dominio la tresca ma dovrà fare i conti con le leggi non scritte che regolano il vivere sociale: dovrà fingersi pazza (su proposta di Ciampa che impone tale escamotage per risolvere in maniera dignitosa ed incruenta la faccenda) per poter gridare la verità.

Ciampa- …non comprende che questo è l’unico rimedio? Pei lei stessa! Per il signor cavaliere! Per tutti! Non capisce che sua sorella ha svergognato anche il signor cavaliere, e che deve dare anche a lui una riparazione di fronte al paese? Si dice – E’ Pazza – e non se ne parla più! – Si spiega tutto! – Pazza, pazza da chiudere e da legare!- E solo così non ho più niente da vendicare! Mi disarma. Dico – E’ pazza! Posso più farmene di una pazza? – E basta così….
Beatrice – Ma che dite? Volete davvero che passi per pazza davanti a tutto il paese?
Ciampa- Ma davanti a tutto il paese, lei, signora, non ha bollato con un marchio di infamia tre persone? Uno, d’adultero; Un’altra, di sgualdrina; e me, di becco? Ah, lei vorrebbe dirlo soltanto d’aver commesso una pazzia? Non basta, signora! Deve dimostrare d’essere pazza – pazza davvero- da chiudere!…
…Volti la pagina, signora! se lei volta la pagina, vi legge che non c’è più pazzo al mondo di chi crede di aver ragione! – Via, vada! vada! si prenda questo piacere, di fare per tre mesi la pazza per davvero! Le par cosa da nulla? Fere il pazzo! Potessi farlo io, come piacerebbe a me! Sferrare, signora, qua (indica la tempia sinistra …) per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto ma sonagli della pazzia e scendere in piazza a sputare in faccia alla gente la verità. La cassa dell’uomo, signora, comporterebbe di vivere, non cento ma duecent’anni! Sono i bocconi amari le ingiustizie, le infamie, le prepotenze, che ci tocca d’ingozzare, che ci infracidano lo stomaco! il non poter sfogare, signora! il non poter aprire la valvola della pazzia! Lei, può aprirla: ringrazi Dio, signora! Sarà la sua salute, per altri cent’anni! – Cominci, cominci a gridare!

1918 – A Livorno, al Teatro Rossini, venne rappresentato Ma non è una cosa seria con Emma Gramatica; Il gioco delle parti a Roma Teatro Quirino con Ruggero Ruggeri e Vera Vergani.
Il figlio Stefano tornò dalla prigionia in Austria.
1919 – L’innesto andò in scena il 29 gennaio a Milano (compagnia Virgilio Talli); La patente il 19 febbraio a Roma con Angelo Musco;
L’uomo, la bestia, e la virtù, il 2 maggio al Teatro Olimpia di Milano con Antonio Gandusio.
La moglie venne internata. Nei suoi deliri aveva accusato il marito di incesto con la figlia Lietta che si era dovuta allontanare dalla casa paterna.

LA PATENTE
E‘ la storia di Rosario Chiàrchiaro, un povero padre di famiglia che la voce popolare ha designato come iettatore: a lui non resta che rivolgersi alla giustizia, rappresentata dal giudice D‘Andrea, uomo semplice e buono, profondamente lacerato, però, dal conflitto fra il senso del dovere e la consapevolezza che talvolta il codice e la procedura possono divenire strumento di sopraffazione sociale.
Con tragica solennità e munito di una logica paradossale, la vittima non chiede alla giustizia di essere liberato dalla persecuzione, bensì vuole il riconoscimento ufficiale del suo ruolo, la patente appunto, che gli permetta di professionalizzare quel malaugurato mestiere ed evitare così che la famiglia e lui stesso vivano e muoiano nell‘indigenza.

Come accade per la maggior parte dei racconti e dei drammi pirandelliani, anche questo lascia in bocca un sapore aspro ed amaro.
Nel mondo rappresentato dal Pirandello, non c‘ è connivenza, non c‘ è possibilità di franchigia o di narcosi.
Gli individui che cadono nell‘orbita pirandelliana sembrano ribaltati dalla vita, anche Rosario Chiàrchiaro sembra essersi staccato d‘improvviso dalla realtà, per ritrovarsi sul proscenio della sua coscienza, assolutamente solo e segnato da un marchio indelebile.
(collegamento inconscio-es, io-conscio-ego, super Io)

1920 – A Roma ci fu la prima rappresentazione di Tutto per bene al Teatro Quirino;
La signora Morli uno e due al Teatro Argentina con Emma Gramatica;
Come prima meglio di prima al Teatro Goldoni con la compagnia Ferrero, Celli, Paoli.
Lasciò la casa Treves e passò alla Bemporad.
Uscì il primo film, tratto da una sua opera: Ma non è una cosa seria di Mario Camerini.
1921- Il 9 maggio I Sei personaggi in cerca d’autore al Teatro Valle di Roma con la compagnia di Dario Niccodemi, furono fischiati perché considerati scandalosi.
Il 27 dicembre dello stesso anno, però, a Milano al Teatro Manzoni ricevettero grandi sostegni.
A Parigi due anni dopo furono presentati da George Pitoeff.
Poi passarono a Londra e a New York.

6 personaggi in cerca d’autore
E’ un dramma privo di atti e scene. Si svolge in un teatro dove si stanno allestendo le prove della commedia” Il gioco delle parti”.
Dalla platea fuoriescono 6 personaggi: padre, madre, figliastra, figlio, giovinetta, bambina.
Il padre spiega che tutti sono scaturiti dalla fantasia di un autore che però non ha dato loro vita in un’opera. Cercano, perciò, un autore che metta in scena il loro dramma.
Il capocomico accetta: dalla storia che ognuno di essi racconta – contraddicendosi a vicenda – vorrebbe ricavare un canovaccio da rappresentare.
Egli invita i personaggi a mettere in scena la vicenda così che gli attori possano ripeterne le battute.
Il padre aveva indotto la moglie a vivere con l’amante dal quale erano nati: la figliastra, il giovinetto, la bambina.
Il figlio invece era nato da loro due.
Alla morte del compagno la madre lavora come sarta per Madonna Pace che gestisce una casa di malaffare dove si prostituisce la figliastra che, un giorno, tra i clienti incontra il padre che, però, non la riconosce.
L’arrivo della madre aveva evitato una sorta di incesto.
Il padre poi aveva accolto madre e figli nella propria casa anche se il figlio era contrario.
Nella scena finale sul palcoscenico appare una vasca nella quale la bambina annega e il giovinetto che non ha impedito la tragedia si uccide con un colpo di pistola.
Gli attori ritengono che quella sia una finzione ma il padre grida “Realtà, signori, realtà”.

La storia trae loro origine da un motivo che era già comparso in due novelle: quello del personaggio che l’autore non ha realizzato dopo averlo concepito ed avergli dato una vita.
Ma i 6, mentre credono di rappresentare davanti al capocomico quella vicenda che vorrebbero vedere realizzata, esprimono invece un dramma più sottile, che l’autore così espresse:
“ L’inferno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità di ognuno secondo tutte le possibilità di essere che si trovano in ciascuno di noi e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e l’arte che la fissa,immutabile”
Era la più appassionata testimonianza del relativismo pirandelliano che non si limita ad asserire l’isolamento e le fratture interne della personalità ma intacca la possibilità stessa che l’arte può avere di esprimere questo mondo spezzato e mutevole; fa anzi di questo contrasto tra fissità dell’arte e mutevolezza perenne della vita il soggetto stesso di un’arte sospesa sull’orlo dell’impossibile.

1921 – Nell’autunno compose Enrico IV che fu rappresentato a Milano il 24 febbraio del ’22, con interprete Ruggero Ruggeri.
Il filosofo Adriano Tilgher nel ‘22 pubblicò pagine memorabili sul “pirandellismo” dell’autore e sul suo spessore filosofeggiante.

Enrico IV, dramma in tre atti, è considerato uno tra i capolavori dello scrittore siciliano.
Il protagonista è un aristocratico, Goslar, che, durante una festa in costume, a cui partecipa travestito da Enrico IV, cade da cavallo e impazzisce; continua così a vivere in un dolce limbo incarnando nella realtà l’imperatore tedesco. Dopo dodici anni improvvisamente rinsavisce ma per vari motivi preferisce continuare nella finzione.
Ha modo successivamente di ospitare i compagni di un tempo che, ignari della sua attuale reale condizione, fanno trapelare una triste verità: Matilde Spina, la donna che lui amava, è divenuta l’amante di Belcredi, che per gelosia aveva provocato intenzionalmente la fatale impennata del cavallo di Enrico.
Quando questi, rivede la donna amata, soffocato dalla rabbia per la vita non vissuta, si vendica uccidendo il rivale; per evitare, però, le tragiche conseguenze del suo gesto continuerà a fingersi pazzo non volendo contaminarsi con una vita considerata impura.

Il brano è quello finale (che si apre con la contrapposizione tra la vita trascorsa da Belcredi e Matilde e quella non vissuta di Goslar-Enrico IV) in cui la pazzia è vista come dimensione alternativa a quella della vita normale e come rifugio rispetto alla sofferenza dell’esistere.

Enrico IV: La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchia¬ti, io non l’ho vissuta! (A Donna Matilde)
Mi volevate dir questo, dimostrar questo, con vostro sacrificio, parata così per con¬siglio del dottore? Oh, fatto benissimo, ve l’ho detto, dottore: “Quelli che eravamo al¬lora, eh? e come siamo adesso?” Ma io non sono un pazzo a modo vostro, dottore! Io so bene che quello (indica il Di Nolli) non può esser me, perché Enrico IV sono io: io, qua, da venti anni, capite? Fisso in questa eternità di maschera! Li ha vissuti lei (indi¬ca la Marchesa) se li è goduti lei, questi venti anni, per diventare – eccola là – come io non posso riconoscerla più: perché io la conosco così (indica Frida e le si accosta) – per me, è questa sempre … Mi sembrate tanti bambini, che io possa spaventare. (A Frida)
E ti sei spaventata davvero tu, bambina, dello scherzo che ti avevano persuaso a fa¬re, senza intendere che per me non poteva essere lo scherzo che loro credevano; ma questo terribile prodigio: il sogno che si fa vivo in tè, più che mai! Eri lì un’immagine; ti hanno fatta persona viva – sei mia! sei mia! mia! di diritto mia!
(La cinge con le braccia, ridendo come un pazzo, mentre tutti gridano atterriti; ma come accorrono per strappargli Frida dalle braccia, si fa terribile, e grida ai suoi quattro giovani) Tratteneteli! Tratteneteli! Vi ordino di trattenerli!
(I quattro giovani, nello stordimento, quasi affascinati, si provano a trattenere automaticamente il Di Nolli, il dottore, Belcredi.)
Belcredi (si libera subito e si avventa su Enrico IV): Lasciala! Lasciala! Tu non sei pazzo!
Enrico IV (fulmineamente, cavando la spada dal fìanco di Landolo che gli sta presso): Non so¬no pazzo? Eccoti! (E lo ferisce al ventre.)
(É un urlo d’orrore. Tutti accorrono a sorreggere Belcredi, esclamando in tumulto.)
Di Nolli: T’ha ferito?
Bertoldo: L’ha ferito! L’ha ferito!
Dottore: Lo dicevo io!
Frida: Oh Dio!
Di Nolli: Frida, qua!
Donna Matilde: È pazzo! È pazzo!
Di Nolli: Tenetelo!
Belcredi (mentre lo trasportano di là, per l’uscio a sinistra protesta ferocemente) No! Non sei pazzo! Non è pazzo! Non e pazzo!
Escono per l’uscio a sinistra, gridando, e seguitano di là a gridare finché sugli altri gridi se ne sente uno più acuto di Donna Matilde, a cui segue un silenzio.
Enrico IV (rimasto sulla scena tra Landolfo, Analdo e Ordulfo, con gli occhi sbarrati, esterrefat¬to dalla sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto): Ora sì… for¬za … (li chiama attorno a sé, come a ripararsi) qua insieme, qua insieme … e per sempre.

1922 – Vestire gli ignudi andò in scena al Quirino di Roma con Maria Melato. Uscirono i primi volumi della raccolta generale delle novelle sotto il titolo
“Novelle per un anno” e il mistero profano All’uscita.
1923 – L’uomo dal fiore in bocca, La vita che ti diedi, L’altro figlio, furono rappresentati a Roma.
In aprile a Parigi assistette alla trionfale rappresentazione dei 6 personaggi.
Si trasferì a New York dove rimase dall’ottobre al gennaio del ’24 al Fulton Theatre, ribattezzato Pirandello’s Theatre.
1924 – In Ciascuno a suo modo che andò in scena al Teatro Filodrammatico di Milano, insistette sui complessi problemi che la diffusione del pirandellismo determinava a livello di pubblico, di critica, di rapporti autore- attori- spettatori.
Scrisse il romanzo Uno, nessuno, centomila pubblicato nel biennio seguente a puntate e poi in volume.
Il titolo allude al tema della crisi dell’identità personale tipico della concezione dell’autore: ciascuno di noi è uno per sé stesso, centomila nel variare delle forme in cui gli altri ci confinano e, pertanto, non è nessuno.

Vitangelo Moscara, ( Gegè), protagonista-narratore, è preoccupato perché la moglie gli ha fatto notare come il suo naso pende verso destra.
Gegè, guardandosi allo specchio, scopre che il difetto lo fa apparire diverso da come egli pensava di essere sino a quel momento.
Tale scoperta lo fa entrare in crisi, così si propone di distruggere “l’io” che è per gli altri, per diventare uno per tutti.
Decide perciò, di dare nuove svolte alla propria vita (cerca di cancellare la fama di usuraio, sfratta un inquilino dopo avergli, nascostamente regalato una casa, si allontana dalla moglie). Ritenuto pazzo, trova comprensione presso un’amica della moglie, Anna Rosa, che, dopo un po’, con gesto inspiegabile, tra lo sgomento generale, lo ferisce sparandogli. Si rifugia allora in un ospizio per mendicati da lui stesso costruito utilizzando i soldi della liquidazione della banca del padre. Gli sembra di vivere contento nell’anonimato identificandosi di volta in volta con i vari oggetti della natura.

Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, così?

Vivendo, io no rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dunque dovevo vedermi in quel corpo lì come in un’immagine di me necessaria?… Eppure, io ero per tutti , sommariamente , quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori…Chi era colui? Nessuno.

Il 9 settembre chiese l’iscrizione al partito fascista con una lettera pubblicata su L’Impero: era un gesto provocatorio in un momento in cui l’assassinio di Matteotti aveva alienato molte simpatie al partito.
1925 – Ristampò i Sei personaggi tenendo conto dei suggerimenti forniti dallo spettacolo di Pitoeff.
Col figlio Stefano, Massimo Bontempelli e Orio Vergani fondò a Roma una compagnia teatrale che diresse fino al ’28 allestendo opere sue e di altri autori.
Il 4 aprile rappresentò l’atto unico La sagra del Signore della Neve.
Faceva parte della compagnia l’attrice talentuosa Maria Abba, “la donna fulva”, amore tardivo, forte, ma causa di interiori tormenti, che gli ispirò: Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, La nuova colonia, ecc.
In giugno con la Abba, Ruggeri, Lamberto Picasso fece tournee a Londra, Parigi, Germania.
1926 – Fece tournee a Budapest, Vienna, Praga.
1927- Con L’amica delle mogli e Bellavista fece tournee in Argentina e Brasile. In sud America rivide la figlia Lietta, sposatasi in Cile con Manuel Aguirre.
1928- La nuova colonia fu rappresentata a Roma al Teatro Argentina con Marta Abba e Lamberto Picasso.
D’estate per mancanza di fondi la compagnia si sciolse.
In autunno si recò in Germania per studiare un progetto cinematografico tratto da I 6 personaggi.
Continuò la pubblicazione dei volumi delle Novelle per un anno.
1929 – Lazzaro e O di uno o di nessuno.
Nel marzo fu chiamato a far parte della Regia Accademia d’Italia da Mussolini
Lasciò Bemporad per Mondadori.
1930 – Questa sera si recita a soggetto fu allestita il 25 gennaio in tedesco a Koenigsberg e poi al Teatro di Torino.
Grande successo ebbe con Come tu mi vuoi con Marta Abba.
Con questo lavoro chiuse la trilogia del “teatro nel teatro” da cui fu tratto un film a Hollywood nel ’32 con Greta Garbo ed Erch von Stroheim.
1931- Sogno (ma forse no) fu rappresentato per la prima volta a Lisbona in portoghese per il V congresso Internazionale di critica.
1933- Il 20 settembre andò in scena a Buenos Aires Quando si è qualcuno, in spagnolo, e a San Remo al teatro del casino con la compagnia di Marta Abba.
Il 19 dicembre a Praga Non si sa come.
1934 – La favola del figlio cambiato con libretto di Pirandello e musica di Gian Francesco Malipiero.
In ottobre per un convegno dell’Accademia d’Italia sul “Teatro drammatico” porta sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma “La figlia di Iorio” di D’Annunzio con Marta Abba e Ruggeri.
Ricevette il Nobel per la letteratura ma contemporaneamente la Germania nazista gli vietò di rappresentare le sue opere in Germania.
Anche i rapporti con i fascisti si raffreddarono.
1935 – Venne fatta la riduzione cinematografica de Il fu Mattia Pascal, negli
stabilimenti di Cinecittà.
Si ammalò di polmonite nelle ultime riprese e morì a Roma il 10 dicembre 1936, nella sua casa in via Antonio Bosio, 15.
Queste le sue ultime volontà: “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte…Morto non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro di infima classe, quelle dei poveri. Nudo, e nessuno mi accompagni…Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente , neppure la cenere vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.”

L’ultima commedia, I giganti della montagna rimase incompiuta.
Verrà messa in scena l’anno successivo al Giardino dei Boboli a Firenze, diretta
da Renato Simoni.
25 anni dopo la morte le sue ceneri verranno tumulate nella villa del Caos.

Nella sua formazione culturale incontrò l’opera di grandi veristi: Capuana, Verga, De Roberto
Si interessò degli studi di psicologia del francese Alfred Binet (Le alterazioni della personalità) e a quelli del relativismo Di George Simmel, che affermava che non esiste una verità assoluta ma solo una verità soggettiva.
Per lui la vita è un continuo fluire che crea “forme” che poi deve distruggere.
I termini Vita e forma sono utilizzati nell’Umorismo.
Pirandello vede la realtà come un magma caotico, dal quale però si stacca per affermare la propria identità attraverso una maschera che non gli permette di vivere.
Tutta la sua poetica si può riassumere in un solo concetto: il relativismo.
Si ispirò alle teorie di Freud anche se non l’aveva letto.
Il Relativismo corrisponde alla frantumazione dell’io: l’uomo non è solo una persona ma si suddivide in tante persone.
Da ciò deriva che non esistono delle verità e dei valori assoluti: ognuno percepisce la realtà non per quello che è ma per come la vede in un determinato momento, a seconda anche della propria educazione (famiglia, religione…)
Il relativismo corrisponde al dualismo tra vita e forma: la vita è un libero fluire degli istinti umani, la forma è una maschera che la società ci impone.
Di maschere ce ne sono 2: una attribuita da noi stessi, l’altra imposta dalla società che ci imprigiona nella trappola delle convenzioni sociali.
La prima trappola è la famiglia.
Si diventa così forestieri della vita e spettatori della vita altrui.
La realtà è multiforme poiché ognuno la guarda con occhi propri.
Secondo Freud nell’uomo ci sono 3 personalità: Es – io inconscio
Io- io cosciente, tramite tra Es e Superio
Superio – corrisponde alla maschera pirandelliana
Per fuggire da questa realtà esistono 3 possibilità: suicidio, pazzia (qui emerge l’elemento autobiografico che si ricollega alla pazzia della moglie) e il vedersi vivere (la vita non la vivo ma la vedo dal di fuori)
Pirandello insieme a Svevo rappresenta la crisi dell’uomo che ha visto crollare
tutti i valori della società borghese.
Originale prodotto della sua riflessione è la Lanterninosofia, che corrisponde al rapporto tra uomo e mondo.
Gli uomini rispetto alle altre specie hanno il privilegio di “sentirsi vivere”.
Essi lo usano come strumento di conoscenza del mondo esterno, illudendosi di averne una conoscenza oggettiva.
In realtà ognuno di noi ha un’idea soggettiva del mondo esterno. Questo sentimento della vita è paragonabile ad un lanternino (sapienza) colorato, che ci portiamo appresso e che diffonde un chiarore debole che fa apparire minaccioso il buio.
Con questi lanternini noi alimentiamo i grandi lanternini delle ideologie, che in determinati periodi della vita cadono e ci lasciano vagare nel buio.
Noi abbiamo così inadeguati strumenti di conoscenza da cui ricaviamo un senso di smarrimento per il buio che ci circonda.
Tale teoria è presente nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
A questa situazione pessimistica Pirandello cerca una soluzione attraverso “il teatro dei miti”, un teatro che tenta di fondare valori, di trovare soluzioni al problema del vivere umano attraverso la religione e l’arte.
Egli volle definirlo una trilogia – La nuova colonia, Lazzaro, I giganti della montagna – nella quale si chiedeva se i valori potessero risolvere i problemi dell’uomo.