Augusto

La storia

Nel 44 a. c., dopo l’uccisione di Cesare (ormai dittatore a vita) ad opera di Bruto e Cassio e le lotte civili scatenatesi dapprima contro Pompeo e poi contro Antonio, Augusto si  ritrovò ad essere l’unico padrone di tutte le terre conquistate da Roma.

Nel suo testamento Cesare adottava e nominava come erede dei 3 quarti del suo ricchissimo patrimonio il pronipote Caio Ottavio che, non ancora ventenne stava ultimando i suoi studi in Grecia.

 Saputo del testamento, il giovane tornò a Roma e, dando prova di forte determinazione, ottenne l’appoggio dei veterani di Cesare e di Cicerone. Quest’ultimo, considerando il giovane uno strumento facile da controllare e di cui poteva servirsi per ripristinare gli antichi ordinamenti, cominciò ad attaccare Antonio con una serie di discorsi infuocati, le cosiddette “Filippiche”.

Presso Modena nel 43 a. c. Ottaviano e Antonio si scontrarono con i loro eserciti. Antonio, sconfitto, si rifugiò in Gallia per raggiungere le forze di Lepido.

Nel 43 a.c., Ottaviano, eletto console dal senato, in tale veste fece abrogare l’amnistia decretata a favore dei cesaricidi e fece riabilitare Antonio, che in precedenza era stato dichiarato hostis publicus.

Con Antonio e Lepido, poi, si riunì presso Bologna e diede vita al secondo triumvirato che divenne una magistratura pubblica con durata quinquennale (il primo triumvirato, nel 60 a.c., invece era stato un accordo privato tra Cesare, Pompeo e Crasso).

I triumviri si divisero le province: Lepido ebbe la Spagna e la Gallia Narbonese, Antonio il resto della Gallia, Ottaviano la Sicilia, la Sardegna e l’Africa.

Furono compilate liste di proscrizione e tra i primi a cadere, per volere di Antonio, fu proprio Cicerone.

Fu ripristinato il tributo che tassava i ricchi, sia uomini che donne.

Poi Antonio e Ottaviano a Filippi nel 42 a.c. affrontarono l’esercito dei cesaricidi: Cassio fu sconfitto, Bruto si uccise.

Intanto Antonio, approfittando di una malattia di Ottaviano, rimase in Asia minore dove si arricchì riscuotendo pesanti tributi.

Nel 41 Ottaviano, tornato in Italia, affrontò la moglie e il fratello di Antonio e, dopo averli chiusi a Perugia, li costrinse alla resa. 

Antonio a Tarso, in Cilicia, nel 41 a.c. conobbe Cleopatra, la bellissima regina d’Egitto, e con lei trascorse l’inverno.

Per lei ripudiò la moglie romana, Ottavia, figlia di Ottaviano, che aveva sposato dopo l’accordo di Brindisi del 40 a.c.

Ottaviano intanto sconfisse i pirati di Sesto Pompeo che era riuscito ad impossessarsi della Sicilia. Pompeo nel 36 fu sconfitto e morì profugo in Asia minore.

Nel 37 Antonio si trasferì ad Alessandria da Cleopatra che nel frattempo gli aveva dato 2 gemelli, atteggiandosi a sovrano orientale.

Da quel momento fu considerato nemico di Roma; perciò, ottenuto il consenso popolare, Ottaviano affrontò Antonio e lo sconfisse ad Azio nel 31.

 Tornato ad Alessandria, Antonio si uccise e Cleopatra lo seguì facendosi mordere da un aspide, per non essere costretta, lei regina, ad essere trascinata in catene a Roma dietro il carro del vincitore.

Ottaviano non rese l’Egitto una provincia romana ma nel 30 a.c.   la mantenne come proprietà privata.

A Roma non abolì le cariche repubblicane ma le svuotò di peso e potere.

Assunse il titolo di Princeps senatus e di Imperator.

Per volere del senato, poi, prese l’appellativo di Augustus, attributo di Giove, per sottolineare il carattere divino del suo potere. 

De Augusti vita (tratta da Svetonio)

Egli ebbe il merito di attuare una riconciliazione tra vincitori e vinti, per cui il periodo in cui visse fu, dagli scrittori suoi coevi e anche dai successivi, considerato il secolo d’oro.

Gaio Giulio Cesare Ottaviano era nato sotto il consolato di Cicerone e C. Antonio, il 23 settembre del 63 a.c. nel quartiere Palatino, chiamato “alle teste di bue”

Apparteneva alla Gens Ottavia, tra le più importanti di Velletri (anche se fu tra quelle minori ammesse da Tarquinio il Superbo in senato).

In seguito la gens fu elevata tra le casate patrizie da Servio Tullio. Tornata plebea, ridiventò patrizia con Giulio Cesare.

Era figlio di Atia, figlia di Marco Azio Balbo (appartenente ad una famiglia senatoria di Ariccia, imparentato con Pompeo, che aveva sposato Giulia, sorella di Cesare).

Da piccolo fu soprannominato Turino (da Taurio, forse per ricordare l’origine dei suoi antenati o forse perché il padre Ottavio, dopo la nascita del figlio, aveva attaccato i fuggitivi delle bande di Spartaco e di Catilina che occupavano i campi di Turio. In seguito, quando M. Antonio nelle sue lettere per scherzo lo chiamava Turio, Augusto si offendeva.

Per disposizione testamentaria dello zio materno, prese il nome di Caio Cesare e successivamente, su proposta del console Munazio Planco, nel 42 a.C., quello di Augusto.

Perdette il padre a 4 anni.

A 12 anni recitò l’elogio funebre della nonna Giulia alla presenza dell’assemblea.

A 16 anni, come era d’uso tra i patrizi romani, indossò la toga virile.

Nel trionfo africano Cesare gli concesse ricompense militari anche se, data la giovane età, non aveva partecipato alla guerra. Quando Cesare si recò in Spagna per combattere i figli di Pompeo, Augusto, pur convalescente da una grave malattia, fu pronto a seguire lo zio, accattivandosene la simpatia.

Da giovane fu attaccato da Sesto Pompeo che lo definì effeminato.

Anche M. Antonio lo attaccò affermando che il giovane aveva ottenuto l’adozione dallo zio attraverso turpi prestazioni.

Lucio Antonio, fratello di M. Antonio, sosteneva che era stato violentato da Cesare e per 300mila sesterzi, si era sottoposto in Spagna alle voglie di Aulo Irzio; aggiungeva che era solito depilarsi le gambe col guscio di una noce infuocata per far sì che i peli spuntassero   più teneri.

Anche il popolo durante alcuni giochi approvò il verso pronunciato sulla scena da un Gallo che suonava il timpano in onore di Cibele, la madre degli dei: “Vedi come quello svergognato governa il mondo con un dito?” collegando sesso e religione col termine orbis, il disco manovrato dall’istrione.

Perdette la madre durante il primo consolato.

Perdette anche la sorella Ottavia (che aveva sposato prima Marcello e poi il triumviro Marco Antonio) quando aveva 54 anni.

 A loro tributò grandi onori.

A 19 anni a sue spese formò un esercito col quale consegnò la libertà alla repubblica oppressa dal dominio di una fazione.

Per questo il senato con decreti onorifici lo scrisse nel suo ordine, mentre erano consoli Gaio Pansa e Aulo Irzio, attribuendogli il diritto di esprimere sentenze tra i consolari e assegnandogli il comando dell’esercito.

Da giovane aveva avuto come fidanzata la figlia di P. Servilio Isaurico.

Riconciliatosi con Antonio, per obbedire ai soldati che volevano un qualche legame di parentela fra loro due, sposò Claudia, che Fulvia aveva avuto da Publio Clodio, il famoso tribuno, agitatore di sinistra, suo primo marito.

Morto assassinato Publio, in seconde nozze Fulvia aveva sposato Gaio Scribonio Curione. Nel 49, morto anche Gaio, Fulvia sposò in terze nozze Antonio di cui Claudia divenne la figliastra.

(ll padre era Clodio ma la figlia, adottata dal triumviro e vissuta in un ambiente distinto, era tornata alla forma primigenia, Claudia).

Augusto era appena in età da marito.

Successivamente, sorti contrasti con la suocera Fulvia, Augusto rimandò a casa la fidanzata ancora vergine.

Poi nel 40 a.c. sposò Scribonia che in precedenza aveva avuto come mariti 2 ex consoli (Cornelio Lentulo Marcellino e Publio Cornelio Scipione; da quest’ultimo aveva avuto anche due figli). Da lei ebbe Giulia.

(Fece sposare Giulia con Marcello, figlio di sua sorella Ottaviana, quando era appena uscito dalla fanciullezza.

Quando Marcello morì nel 23 a.c., le fece sposare Marco Vipsanio Agrippa, avendo impetrato dalla sorella che gli cedesse suo genero; infatti Agrippa aveva allora in moglie una delle Marcelle e da questa aveva avuto dei figli. Di origini modeste, Agrippa diede appoggio al successo di Ottaviano di cui era coetaneo e amico. Pretore e governatore della Gallia, sconfisse Sesto Pompeo a Milazzo e Nauloco nel 36 e poi Antonio nel 31 ad Azio. Ebbe il potere proconsolare e la potestà tribunicia dal 18 al 13, e fu attento amministratore delle province orientali, tra cui la Giudea.

Curò il rinnovamento urbanistico e edilizio di Roma che arricchì di vari monumenti tra cui il Pantheon che da lui prende il nome.

Quando anche Agrippa morì nel 12 a.C., scelse Tiberio, suo figliastro, e lo costrinse a ripudiare la moglie che era incinta e lo aveva già reso padre.

Nel 39, sconcertato dai costumi della moglie, divorziò e sposò Livia Drusilla, benché fosse incinta, togliendola al marito Claudio Nerone e quindi imparentata con la vecchia aristocrazia senatoria..

Le volle sempre bene e la apprezzò.

 Da Livia non ebbe figli; un figlio che era stato concepito, nacque immaturo.

 Da Agrippa e Giulia ebbe 3 nipoti: Caio, Lucio, Agrippa; e 2 nipotine: Giulia ed Agrippina.

Giulia si sposò con L. Paolo, figlio di un censore;

 Agrippina sposò Germanico, nipote di sua sorella.

Adottò ancora molto giovani, Caio e Lucio, comperandoli (in casa in contanti e con la bilancia) dal padre Agrippa con la cerimonia della mancipatio: questaprevedeva una finta compravendita, pregiudiziale dell’adozione dato che gli adottandi erano minorenni. L’asse era la moneta di più tenue valore per cui si prestava bene alle esigenze di questa cerimonia simbolica).

Li introdusse agli affari di stato e in qualità di consoli designati, li mandò a visitare le province e gli eserciti.

Educò severamente la figlia e le nipoti.

Le fece abituare al lavoro della lana, le costrinse a parlare e a fare ogni cosa apertamente.

Le loro parole venivano annotate su un diario giornaliero.

Proibì loro di frequentare estranei. Una volta rimproverò L. Vinicio, giovane illustre e perbene, che si era permesso di andare a salutare sua figlia a Baia.

 Insegnò ai suoi nipoti la lettura, la scrittura, le conoscenze base e li pregò che imitassero la sua scrittura.

Quando cenava con loro voleva che sedessero ai piedi del suo letto.

Quando viaggiava li voleva davanti a lui in carrozza o di fianco a lui a cavallo.

La figlia Giulia e la nipote omonima, che si erano macchiate di molte vergogne furono relegate nell’isola di Pandataria.

Nel 2 a.c. Scribonia accompagnò la figlia nell’isola assegnatale.

Ottaviano alla figlia proibì il vino e gli abbigliamenti eleganti e non permise che alcuno andasse a trovarla senza il suo permesso (del visitatore doveva conoscere ogni particolare riguardo ad età, statura, carnagione, segni particolari, cicatrici).

Dopo 5 anni trasferì la figlia da Pandataria, oggi Ventotene (Latina), a Reggio Calabria con un trattamento meno pesante ma non volle mai riammetterla alla sua presenza.

Quando il popolo e il senato lo pregavano di richiamare la figlia, egli rispondeva che augurava loro figlie e mogli uguali alla sua.

Poiché la nipote Giulia aveva avuto un figlio dopo la condanna, le proibì di riconoscerlo e di allevarlo.

Soffrì molto per i cattivi comportamenti della figlia e ne informò il senato per mezzo di una lettera che fece leggere in sua presenza da un questore.

Per la vergogna si astenne dal frequentare gente e meditò di far uccidere la figlia.

Quando si seppe che si era impiccata una certa Febe, complice della figlia, dichiarò che avrebbe preferito essere il padre di Febe.

In 18 mesi Caio morì in Licia, una regione dell’Asia minore, e Lucio a Marsiglia.

 La loro morte però non lo scosse molto.

In base alla legge curiata adottò nel Foro il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio, figlio di primo letto di Livia. A Tiberio conferì i suoi stessi poteri (5 d.c.): la scelta di un parente. Membro di una vecchia famiglia senatoria, la Claudia, fu accettata dal senato, favorendo contemporaneamente l’esigenza di una soluzione dinastica del problema della successione. Poi revocò il beneficio ad Agrippa perché era rozzo e brutale e lo confinò a Sorrento.

Poiché Agrippa usciva sempre più di senno, lo fece trasportare nell’isola di Pianosa (Livorno), facendolo circondare da un corpo di guardia di soldati, ed emanò un decreto senatoriale affinché rimanesse sempre confinato lì.

Ogni volta che qualcuno menzionava Agrippa e le Giulie si lamentava citando un verso dell’Iliade: “Meglio sarebbe stato rimanere senza moglie e morire senza figli”

 Li chiamava i suoi 3 ascessi e i suoi 3 cancri.

Non faceva amicizie con facilità ma le conservava con costanza.

Infatti ricompensò degnamente i meriti di ciascuno e ne tollerò vizi e colpe, purché non gravi.

Tali amici dominarono per potenza e ricchezza fino alla morte, ciascuno alla testa del proprio ordine, anche se qualche volta lo offendevano.

Gli unici amici a cadere in disgrazia furono Salvidieno Rufo e Cornelio Gallo che da un ceto basso egli aveva elevato al consolato il primo e alla prefettura d’Egitto il secondo. Per l’ingratitudine e il malanimo proibì a Gallo di frequentare la sua casa e le sue province. Quando Gallo per le denunce degli accusatori e i provvedimenti del senato fu spinto al suicidio nel 26 a.c. (l’episodio fece epoca) lodò la devozione di coloro che lo difendevano davanti a lui indignati.

Poi lo pianse e si lamentò dicendo che solo a lui non era concessa la collera verso gli amici fino al punto che voleva.

Pretendeva dagli amici pari devozione sia da vivi che da morti.

Esaminò minuziosamente le volontà testamentarie degli amici e si dispiaceva se lo trattavano con freddezza, mentre gioiva se testimoniavano affetto e gratitudine.

Non volle accettare alcun lascito testamentario.

Quando ciò accadeva, dava il lascito ai figli o, se questi erano giovani, glielo consegnava al momento dell’assunzione della toga virile o quando si sposavano, aggiungendo anche qualcosa di suo.

Come protettore di clienti e propri schiavi affrancati, trattò familiarmente molti liberti, tra cui Licino e Celado.

Poiché lo schiavo Cosmo lo criticava astiosamente, lo fece solo legare in ceppi.

Un giorno mentre camminava col suo dispensiere Diomede, questi lo lasciò per paura di un cinghiale che li aveva assaliti.

 Augusto volse il fatto in riso, considerò Diomede un pauroso e non lo punì perché mancava il dolo.

Invece condannò il liberto Polo che pure aveva caro, perché con prove fu dimostrato che aveva sedotto delle matrone.

Al suo segretario Tallo che aveva rivelato il contenuto di una sua lettera per 500 denari, fece rompere le gambe.

Quando il precettore e i domestici del figlio Caio alla sua morte avevano infierito sulla provincia con arroganza e cupidigia, li fece gettare in un fiume con un peso al collo.

Fu adultero ma gli amici lo scusavano dicendo che lo faceva per motivi politici, cioè per conoscere più facilmente i disegni degli avversari attraverso le loro mogli.

M. Antonio gli rimproverava l’affrettato matrimonio con Livia, e anche il fatto di aver condotto alla presenza del marito, ex console, dal triclinio alla sua camera da letto una matrona che era ritornata a tavola con gli orecchi rossi e scarmigliata.

  Gli rimproverava inoltre di aver ripudiato Scribonia perché aveva criticato aspramente l’eccessivo potere di una rivale; e di essersi procurato delle occasioni tramite amici che denudavano ed esaminavano minuziosamente donne sposate e vergini (come se fosse a venderle Toranio, il mercante di schiavi).

M. Antonio, quando i rapporti tra i due erano ancora buoni, gli scrisse: “Che cosa ti ha cambiato nei miei confronti? Perché mi congiungo con una regina? E’ mia moglie. Ce l’ho da adesso o da 9 anni? E tu, vai solo con Drusilla? Che Dio ti conservi la salute se quando leggerai ciò, non sarai già andato con Tertulla, con Terentilla, con Rufilla, con Salvia Titisenia o con tutte. Che importa dove o con chi fai l’amore?”

Circolò la voce circa una cena di Augusto, definita da tutti “il festino dei 12 dei”

In essa i convitati erano sdraiati sui triclini vestiti da dei mentre Augusto era travestito da Apollo.

Antonio in una lettera cita i nomi di tutti i presenti.

Circolarono anche versi di autore sconosciuto: “Da quando la compagnia di costoro prese a servizio un anfitrione e Mallia vide 6 dei e 6 dee; quando Cesare osò prendere in giro ampiamente Febo, quando cenando commise adulteri nuovi e divini, allora tutti i numi si allontanarono dalla terra e Giove in persona abbandonò il trono d’oro”. 

In quel tempo c’era penuria di viveri e il giorno dopo per la città circolava questa voce: “Gli dei avevano mangiato tutto il grano e Cesare era sì, certamente Apollo, ma Apollo Scorticatore” (nome con cui era venerato il dio Apollo in un rione della città).

Fu accusato di essere eccessivamente desideroso di suppellettili preziose e di vasi di Corinto e di essere troppo dedito al gioco.

Nel periodo delle proscrizioni scrissero sulla sua statua: “Mio padre fu argentario, io corinziario” dato che, pare, avesse fatto proscrivere alcuni cittadini per impadronirsi dei loro vasi di Corinto.

Durante la guerra in Sicilia circolò un epigramma: “Dopo aver perduto le sue navi, aver vinto 2 volte per mare, per vincere una buona volta gioca assiduamente ai dadi”

Egli respinse sia le accuse di sodomia (con la correttezza della sua vita) che quella di amare il lusso; infatti, presa Alessandria, di tutto il tesoro reale tenne per sé solo un vaso di fluorite. Successivamente fece fondere tutti i vasi d’oro di uso più comune

Senza preoccuparsi delle chiacchiere, giocò sempre per divertimento, anche da vecchio.

Dapprima abitò presso il foro romano sopra le scale Anularie (laboratori di orefici), nella casa che era appartenuta all’oratore Calvo; poi sul Palatino nella modesta casa dell’oratore Ortensio, che aveva il porticato breve e colonne di Pietra di Albano, le stanze senza marmi e i pavimenti in mosaico.

 Per 40 anni usò la stessa stanza; anche se il clima invernale di Roma non gli giovava, rimase in città.

Se voleva far qualcosa senza essere disturbato, saliva al piano superiore in una stanzetta detta Siracusa e tecnofio oppure andava in periferia nella casa di qualche suo liberto.

Quando si ammalava stava da Mecenate.

Per villeggiare andava sulle coste e le isole della Campania o a Lanuvio, Preneste, Tivoli, dove amministrava la giustizia sotto i portici del tempio di Ercole.

Poiché era oppresso dai palazzi sontuosi, ne fece abbatterne uno della nipote Giulia, che riteneva troppo fastoso.

Abbellì le proprie dimore con portici, boschetti, oggetti antichi e rari (resti enormi di animali mostruosi scoperti a Capri, detti ossa dei giganti), ed armi di eroi.

I letti e i tavoli della sua casa erano modesti: il letto era basso e con coperte modeste.

Indossava abiti confezionati in casa dalla moglie, dalla sorella, dalla figlia e dalle nipoti. Le toghe avevano una lunghezza giusta mentre i calzari erano spessi per

farlo sembrare più alto.

Dava frequenti pranzi, scegliendo persone e precedenze. Infatti non faceva intervenire mai alcun liberto eccetto Mena, solo dopo averlo reso libero cittadino quando gli consegnò la flotta di Sesto Pompeo.

Andava a pranzo più tardi degli altri ma si allontanava per primo.

Il pranzo consisteva in 3 portate, al massimo 6.

Durante il pranzo era molto cordiale: favoriva la conversazione generale, invitava artisti, istrioni, pantomimi del circo, buffoni.

Celebrava i giorni festivi e le solennità con grande magnificenza o solo con gli scherzi.

Per i Saturnali dava in dono vesti, oggetti d’oro e argento, monete preziose.Talvolta, invece, solo coperte, spugne, palette, pinze e arnesi vari con scritte equivoche.

Durante i conviti metteva in vendita lotti di oggetti di valore assai diverso, o quadri volti verso la parete: ad ogni triclinio si faceva una vendita all’asta e dovevano essere comunicati perdite e guadagni.

Era sobrio e di gusti parchi. Preferiva pane di seconda qualità, pesci piccoli, formaggio vaccino tagliato a mano, fichi freschi. Mangiava spesso, quando ne aveva voglia.

Nelle lettere dice: “In carrozza gustammo pane e datteri” e ancora “Mentre in lettiga torno a casa dalla basilica di Pompeo, ho mangiato un’oncia di pane con qualche acino di uva duracina”

“Neppure un ebreo, mio caro Tiberio, osserva con tanto scrupolo il digiuno del sabato come ho fatto io oggi: solo al bagno, dopo la prima ora di notte, ho mangiato 2 boccate prima di farmi ungere”.

Alla presenza dei convitati, poi, non mangiava nulla e nel bere era sobrio.

Beveva non più di 3 volte. Se durante il banchetto eccedeva, non superava il mezzo litro. Se ciò accadeva, andava a vomitare per evitare disturbi ed ubriachezza.

Amava il vino di Rezia ma non beveva mai fuori pasto.

 Invece di bere prendeva un pezzo di pane bagnato con acqua fresca o una fetta di cocomero o un gambo di lattuga o un frutto fresco o conservato, di polpa succulenta.

Dopo il pranzo di mezzogiorno si coricava con vesti e calzari senza coprirsi i piedi

(dato che mostrare i piedi sembrava disdicevole) e dormiva un po’ tenendo la mano davanti agli occhi.

Dopo cena si ritirava su un divano destinato al lavoro serale, poi restava sino a notte inoltrata finché non portava a termine tutte le pratiche giornaliere.

Dormiva non più di 7 ore, ma spesso si svegliava 3 o 4 volte.

Se non si riaddormentava, faceva venire lettori o raccontatori per riaddormentarsi e dormire oltre la prima luce del giorno.

 Gli dava fastidio alzarsi presto; se ciò accadeva per doveri sociali o per sacrifici, per non scomodare alcuno, si fermava lì vicino, nel piano superiore della casa di un domestico.

Anche così il sonno non gli bastava e si riaddormentava mentre veniva portato attraverso la città o quando la lettiga si fermava per qualche impedimento.

Aveva una bella figura e fine da giovane e da vecchio (anche se trascurava gli ornamenti) e un suo aspetto era tranquillo e sereno, sia quando parlava che quando stava zitto. Gli occhi erano chiari e brillanti. Il volto era tra il bruno e il bianco.

Per mettere in ordine i capelli faceva lavorare in fretta più barbieri insieme, nel frattempo leggeva o scriveva.

 Voleva far credere che ci fosse qualche potere divino ed era contento se qualcuno, quando lui lo fissava, abbassava lo sguardo

Da vecchio gli diminuì la vista dell’occhio sinistro.

Aveva denti rari, piccoli, irregolari, capelli ondulati e biondicci, sopracciglia unite, occhi di media grandezza, naso un po’ sporgente nella parte superiore, ricurvo in quella inferiore.

Anche se piccolo di statura (Giulio Marato, liberto e segretario privato dice che era di 5 piedi e 3 quarti), aveva membra proporzionate, macchie e nei sul petto e sul ventre.

Aveva anca, coscia, gamba sinistra deboli: rimediava con fasce e stecche perché qualche volta zoppicava.

Talvolta sentiva l’indice della destra debole per il freddo e scriveva a stento proteggendolo con un ditale di corno.

Soffrì di disturbi alla vescica che gli passavano quando eliminava i calcoli con l’urina.

Ebbe parecchie e gravi malattie.

Dopo aver assoggettato la Cantabria, zona della Spagna settentrionale, nel 25 a.c., ebbe una malattia epatica con travasi di bile.

Poiché gli impacchi caldi non giovavano, fece uso di quelli freddi su consiglio di Antonio Musa, suo medico di fiducia.

Si sentiva poco bene verso il periodo del compleanno.

All’inizio della primavera il 22 settembre era colto da infiammazione intestinale.

Se spirava il vento del sud, aveva raffreddori.

 Poiché non sopportava facilmente il caldo e il freddo, d’inverno sotto una spessa toga, usava 4 tuniche, una camicia, un corpetto di lana, fasce per gambe e cosce.

Poiché non tollerava il sole, anche in casa, nei tratti non coperti, usava un cappello a larghe tese.

D’estate riposava con le porte aperte, spesso nel peristilio dove zampillava l’acqua o dove qualcuno gli faceva fresco.

Viaggiava in lettiga, di notte, lentamente e a piccoli tratti e impiegava 2 giorni per andare a Preneste o a Tivoli. Preferiva, però, viaggiare per mare.

Raramente faceva il bagno, si faceva massaggiare o faceva belle sudate davanti al fuoco, poi faceva la doccia con acqua tiepida o riscaldata al sole.

Per il sistema nervoso usava acqua di mare o quella termale di Albuma (bagni di Tivoli, ruscello solforoso che si getta nell’Aniene) stando seduto su uno sgabello di legno detto in spagnolo dureta, e tuffava alternativamente mani e piedi.

Dopo le guerre civili smise le esercitazioni militari a cavallo con le armi.

Giocò a palla e al pallone, poi andava in carrozza o passeggiava e percorreva l’ultimo tratto a corse e a salti, coperto da una lunga veste o una piccola coltre.

Si rilassava con la pesca, il gioco dei dadi o, con pietruzze colorate, alle noci con ragazzini, specialmente africani e siriaci, carini e con parola pronta che faceva cercare da ogni parte.

Odiava i nani, i deformi, considerandoli scherzi di natura e di cattivo augurio.

Sin da giovane coltivò l’eloquenza e gli studi liberali. Scrisse opere di vario genere, di cui alcune lesse ai familiari.

Durante la guerra di Modena, leggeva, scriveva, declamava.

Preparava i suoi discorsi anche se sapeva improvvisare e li leggeva. Teneva un testo scritto che seguiva per non essere né lungo né corto.

Aveva una pronuncia dolce, di timbro particolare; studiava con un insegnante di declamazione ma quando era ammalato di gola, teneva i discorsi al popolo per mezzo di un banditore.

Aveva uno stile elegante, semplice, chiaro e mostrava per i maniaci dello stile, per i vocaboli antiquati.

Criticava sia Mecenate per i suoi” capelli stillanti mirra” che Tiberio che usava parole disusate ed oscure che M. Antonio che cercava di stupire col cattivo gusto e l’incostanza nello scegliere uno stile oratorio comprensibile.

Aveva studiato la cultura greca, avendo avuto come maestro Apollodoro di Pergamo che aveva portato con sé da Roma ad Apollonia.

Frequentò il filosofo Areo e i suoi figli Dioniso e Nicanore.

Fece rappresentare la vecchia commedia greca. Visitò Troia nel 20 a.c. e ne restaurò il tempio di Atena.

Poiché temeva tuoni e lampi, portava con sé una pelle di vitello marino e quando si avvicinava un temporale si nascondeva.

Non trascurava i sogni né i prodigi: frequentava il tempio di Giove Tonante sul Campidoglio.

Modificò alcune leggi, stabilì nuove norme circa gli adulteri, sulla sodomia, sui brogli elettorali, sul matrimonio degli ordini, ridusse il tempo del fidanzamento e pose un freno ai divorzi, impose anche regole sessuali.

Portò miglioramenti al calendario voluto da Cesare che nel 46 a.c. aveva fatto venire dall’Egitto l’astronomo greco Sosigene: questi abolì l’anno lunare e introdusse l’anno solare.

Augusto sostituì il mese Sextilis col termine Augustus, cioè agosto.

Paladino della tradizione, cercò di riportare in vigore l’abito e la maniera di vestire dei tempi antichi. poté vantarsi a buon diritto di lasciare Roma di marmo mentre l’aveva ricevuta di mattoni.

Nel 18 a.c. fece approvare una legge suntuaria con cui si vietava l’uso di lettighe, vestiti di porpora, perle. Alle donne non concesse di vedere i gladiatori se non da sole dalle file più alte mentre prima si potevano mescolare alla folla.

Assegnò alle Vestali una loggia separata nel teatro di fronte al palco del pretore.

Permise che i figli dei senatori, affinché si affacciassero al più presto alla vita pubblica, indossassero il laticlavio subito dopo la toga virile e assistessero alle sedute del senato.

Non permise a figli e nipoti che lo chiamassero “signore” e volle che nemmeno tra di loro usassero epiteti del genere.

Non osò raccomandare i suoi figli (i nipoti Caio e Lucio, diventati suoi figli adottivi), al popolo senza aggiungere: “Se se lo meritano”.

Incoraggiò l’impegno civile degli uomini di cultura servendosi dell’abile aiuto di Mecenate, promuovendo la visione della missione civilizzatrice ed ecumenica di Roma (quale si manifestò nelle opere di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio)

Eresse moltissimi edifici pubblici: il Foro col tempio di Marte vendicatore, il tempio di Apollo sul Palatino e vi aggiunse un portico con una biblioteca greca e latina dove, ormai vecchio, convocò spesso il sensato e passò in rassegna le decurie dei giudici.

Il tempio di Giove tonante sul Campidoglio fu eretto in ricordo di uno scampato pericolo: una notte mentre viaggiava, un fulmine aveva sfiorato la sua lettiga e ucciso un servo che precedeva con una torcia.

Fece costruire il portico e la basilica di Gaio e Lucio, il portico di Livia e Ottavia, il teatro di Marcello, in onore dei parenti.

Ebbe 2 volte l’onore dell’ovazione e 3 volte il trionfo curule, fu chiamato imperatore 21 volte; il senato gli attribuì molti trionfi a cui rinunciò.

Quando il senato con un decreto lo definì Augusto, la porta della sua casa venne adornata di alloro e sull’entrata venne posta una corona civica.

Si permise un solo titolo onorifico, quello di figlio del divino Cesare

Augusto nel suo testamento designò come principali Tiberio per la metà più un sesto, Livia per un terzo, ad essi ordinò di portare il suo nome, come secondi Druso, figlio di Tiberio per un terzo, poi Germanico e ai suoi 3 figli maschi, come terzi parenti ed amici.

Volle morire in piedi a Nola il 14 d.c.

Augusto fu molto attento all’uso propagandistico delle immagini. Sul denario c’è il suo profilo incoronato d’alloro che ricorda le raffigurazioni di Apollo nelle statue greche e romane. Il denario d’oro, fatto coniare con la dicitura “A Cesare Augusto” fu emesso dopo il 31 a.c. e da quel momento Cesare e Augusto furono gli epiteti di tutti gli imperatori.