Letteratura del ‘200

Aspetti della letteratura italiana dalla Scuola poetica siciliana allo Stilnovo

Il più importante movimento della letteratura italiana che noi, con termine mutuato da Dante, definiamo Scuola poetica siciliana, sorse e si sviluppò a Palermo, nell’Italia meridionale alla corte di Federico II, cioè in seno ad un organismo statale fortemente centralizzato e su un terreno in cui confluivano le esperienze più diverse e più ricche: la cultura araba, bizantina, latina.

Federico II, divenuto imperatore sia del Sacro romano impero che dell’Italia meridionale, si dimostrò incline ad ogni sollecitazione culturale, proveniente da qualsiasi parte.

 Tra le altre cose creò una scuola medica a Salerno, fondò a Napoli una Università, promulgò nel 1231 Le Costituzioni melfitane per ricondurre ordine e pace nel suo regno. Inoltre egli stesso scrisse anche un trattato di falconeria: De Arte venandi cum avibus.

Dante ci parla della scuola siciliana nel De vulgari eloquentia “…e poiché regale sede era la Sicilia, avvenne che quanto i predecessori nostri produssero in volgare si chiamasse siciliano…”

I poeti che fecero parte della scuola, siciliani o provenienti da altre parti d’Italia, come Iacopo da Lentini, Pier delle Vigne, Odo e Guido delle Colonne ecc., erano per lo più funzionari, magistrati, giuristi che intendevano la letteratura non come espressione degli impegni quotidiani ma come evasione dalla realtà quotidiana, piacevole intrattenimento, gioco raffinato di una società aristocratica.

I loro immediati precedenti erano costituiti dai poeti della Provenza (regione situata nella parte meridionale del territorio francese), dove nel corso del sec. XII si era sviluppata una lirica d’argomento per lo più amoroso (anche se non mancavano trattazioni di temi politici) che trovava la sua base in un ordinamento politico tipicamente feudale; la società, aristocratica e raffinata, aveva elaborato una cavalleresca concezione dell’amore, inteso come omaggio devoto che il cavaliere faceva alla sua donna, considerata alta ed inaccessibile signora, che al più poteva degnarsi di gradire l’offerta dell’innamorato con un lieve cenno del capo.

A tale poesia, pervenuta in Sicilia, non si sa se per influsso diretto o per la mediazione di trovatori settentrionali, i poeti locali, pur riecheggiando i tradizionali motivi feudali dell’amore e della lealtà, diedero un’impronta personale che scaturiva dal diverso ambiente politico-sociale in cui essi operavano.

Innanzitutto ci fu una selezione di temi: fu evitato ogni argomento che non fosse amoroso ma anche l’amore venne trattato in modo uniforme ed astratto, al di fuori di ogni occasione concreta e contingente; i vocaboli erano ridotti ed essenziali tanto che gli scrittori successivamente furono tacciaci di essere privi di originalità, monotoni ed astratti.

Ma fino a che punto può valere un’affermazione del genere?

La concezione feudale dell’amore infatti è spesso più varia di quanto comunemente si creda perché ogni poeta ha saputo conferire ai propri brani accenti nuovi e personali.

In Iacopo da Lentini, infatti, (che Dante nella Divina Commedia ricorda come l’antesignano della scuola e a cui attribuisce la paternità del sonetto), tale concezione appare assai interiorizzata: l’interesse dello scrittore è rivolto soprattutto alla fenomenologia dell’amore sulla quale egli disserterà in una tenzone con Iacopo Mostacci e Pier delle Vigne.

 Iacopo, infatti, rispondendo alla domanda rivoltagli dal Mostacci in che cosa consista l’amore, insiste in modo assai realistico, sul momento della visio corporalis e sulla immagine della donna come fonte di piacere; la risposta del Delle Vigne, invece, è più su un piano psicologico.

Tale aspetto non è secondario in quanto ci dimostra come all’interno di tale società si fosse infiltrato un elemento intellettualistico, filosofico, che però non è caratterizzante di tutta l’esperienza poetica siciliana.

Non mancano poi in Iacopo venature morali e religiose; in altri poeti della Scuola, poi, come ad esempio Giacomino Pugliese (i cui componimenti, assai semplici, si basano sulla nostalgia e sul ricordo), riscontriamo accenti realistici piuttosto accentuati mentre in Guido delle Colonne il sentimento amoroso deborda spesso in tristezza, lamento.

Per tali motivi è quindi precario ridurre a forma univoca le diverse esperienze di queste personalità poetiche.

Oltre ad aver posto l’accento sul linguaggio convenzionale e sulla tematica fissa e monocorde di questi poeti, la critica si è posto anche il problema se tale poesia sia più o meno originale; da questo  è poi scaturito il secondo interrogativo, cioè quello del ritardo di tutta la letteratura italiana delle origini rispetto alla letterature sorelle di Francia e di Provenza (zone in cui si era elaborato un tipo di cultura che aveva trovato il suo acme nei rispettivi filoni del ciclo carolingio e brettone, e della lirica amorosa)

Il primo nel tempo a porre tale problema è stato Paolo Emiliani Giudici ma recentemente Luigi Russo ha tentato di dimostrarne l’inutilità sottolineando il fatto che nei secoli delle origini le varie letterature, in quanto germinate tutte dallo sfaldamento della lingua e della civiltà latina, erano sentite dagli scrittori medievali come espressioni di un’unica civiltà, di quella civiltà che con termine moderno è stata denominata romanza.

Infatti sempre secondo Russo, per gli scrittori medievali come Brunetto Latini o Marco Polo, non costituiva un fatto strano servirsi della lingua francese o provenzale, il cui uso si era talmente diffuso da provocare la reazione, nel corso del ‘300, di uomini come Cecco Angiolieri o Benvenuto da Imola che lamentavano l’abuso e l’eccessiva simpatia di alcuni scrittori per il francese.

 Posta in tal modo la questione, cadrebbe anche l’altro problema che la letteratura italiana sia sorta come letteratura di imitazione, sia per l’afflato universalistico che pervadeva la letteratura Medievale, sia per il fatto che, anche considerando l’esperienza poetica dei siciliani come un fatto di imitazione, in Italia esisteva anche il filone religioso che è oltretutto originalissimo.

A questo punto però è sorta spontanea la domanda a chi spetti il primato in campo letterario.

I critici romantici e positivistici hanno cercato con tutti gli argomenti possibili di allontanare nel tempo la nascita della lirica siciliana, adducendo come prova un passo del De vulgari eloquentia, per cui l’attività dei poeti della Magna Curia sarebbe da circoscriversi nel ventennio anteriore alla metà del secolo.

Ernesto Monaci nella sua famosa dissertazione “Da Palermo a Bologna” si è però scagliato contro la tesi romantica tentando di dimostrare come la culla della letteratura italiana non debba essere reperita alla corte federiciana bensì a Bologna, città di partenza di alcuni fra i maggiori poeti siciliani.

A loro volta poi, altri studiosi, con alla mano documenti più o meno attendibili, come la fantastica carta d’Arborea, hanno cercato di ascrivere ad altri centri – l’Umbria per la poesia religiosa e l’Italia settentrionale per la poesia didattico allegorica – la priorità delle prime composizioni a livello d’arte.

Tutte queste tesi, basate spesso su congetture personali, hanno però portato all’esaurimento del problema.

Con la morte di Federico II ed il successivo tracollo di Manfredi a Benevento nel 1266, la casa Sveva cessò di essere un centro di attrazione politica e con essa ebbe termine anche l’esperienza poetica che da quella corte era stata promossa.

La “gloria della lingua” passò così all’Italia centrale, che iniziò un processo di elaborazione letteraria del dialetto toscano in sostituzione di quello siciliano appena iniziato e tosto interrotto.

Alcune tematiche della Scuola siciliana, trapiantatesi in area toscana, si trovano a contatto con una realtà basata su un’economia di mercato e passioni politiche e comunali spesso assai accese e veementi.

Così al tema dell’amore si accompagnano argomenti civili, politici, morali e religiosi espressi in una lingua toscana depurata sia nel lessico che nello stile.

I poeti più rappresentativi di questa nuova scuola furono Bonaggiunta Orbicciani e Guittone d’Arezzo che tentò di superare l’eredità siciliana allargando la cerchia dei temi poetici ed arricchendo il suo vocabolario di immagini nuove.

Avendo egli partecipato attivamente alla vita politica del suo tempo, Guittone innanzitutto portò nella sua poesia tutte le esigenze del vivere sociale e non disdegnò la trattazione di argomenti religiosi, filosofici, morali e politici.

 Anche la poesia amorosa venne allontanata dalla precedente condizione cortese per essere inserita nella realtà quotidiana.

Alla base di tale trattazione è un sentimento di fragilità da parte dell’uomo di fronte alla donna, sentimento che ben presto deborda in amore-follia espresso in un linguaggio arduo, pieno di effetti inconsueti, compiaciuti che sono la ripercussione in campo letterario di un temperamento energico e veemente, pieno di passione e di slanci improvvisi.

Guittone grida “ex abundantia cordis” per cui il suo discorso, soprattutto quando affronta temi di carattere religioso, è paragonabile a quello frenetico, mosso ed incontrollato di Iacopone da Todi.

Al contrario di Guittone l’esperienza poetica di Bonaggiunta Orbicciani è monocorde in quanto espressione di “dolci detti d’amore”. Egli si ispira alla poesia siciliana e provenzale e tratta della fortuna e della varietà della natura umana.

Per tale motivo Dante lo sceglie come suo interlocutore nel 24 canto del Purgatorio quando espone, non le caratteristiche del nuovo stile che ha trovato in lui la personalità di maggior rilievo, bensì la sua posizione in seno ad esso.

Infatti l’accento di Dante nella famosa terzina batte sulla nuova concezione dell’amore inteso come un fatto di pura interiorità, moto di elevazione spirituale.

Altri autori sono Chiaro Davanzati la cui produzione presenta echi della poesia di Guittone, anche se talvolta preannuncia alcuni caratteri dello Stil novo quando descrive la donna come una creatura simile alla stella mattutina dotata di spiritualità.

Compiuta Donzella, le cui poesie possono rientrare nei canoni convenzionali del genere lirico-amoroso.

Il dolce stil novo, a sua volta nasce come scuola poetica a Firenze e si sviluppa tra il XIII e XIV sec. anche nelle zone limitrofe; dopo la siciliana e la toscana fu la terza scuola poetica del ‘200 e anche la più nota.

La denominazione è tratta dal 24 canto del Purgatorio: Dante immagina di aver incontrato tra i golosi Bonaggiunta Orbicciani e di esporgli, su richiesta di lui, la propria poetica” io mi son un che, quando amor mi spira, noto, ed a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando”.

A queste parole Bonaggiunta risponde di capire, ora, che cosa avesse distinto la lirica dei siciliani e dei guittoniani da questo stil novo dantesco.

 La denominazione, infatti, ha significati assai precisi: l’aggettivo dolce sta ad indicare un tipo di poesia in cui l’amore, interiorizzato e spiritualizzato al massimo, viene espresso con uno stile alto ed elegiaco; novo significa che la scuola guarda ai temi amorosi in maniera differente da come erano stati visti dagli scrittori precedenti.

Gli appartenenti allo stilnovo sono degli intellettuali colti e raffinati che vogliono elevarsi rispetto al volgo.

 Tale atteggiamento rispecchia il tentativo della borghesia comunale di raffinarsi e di separarsi dal popolo, chiudendosi nella cerchia della propria cultura e del proprio ideale raffinato di arte.

Quindi, all’apparente ristrettezza di temi, gli stilnovisti contrappongono tutta una serie di accezioni, che rendono ogni poeta diverso dall’altro.

Gli stilnovisti vedono la donna sulla scia dei poeti provenzali come posta su di un piedistallo ma mentre i francesi concepivano l’amore come un rituale di tipo feudale, i nuovi poeti considerano le loro amate come esseri angelicati.

Mentre per i provenzali, siciliani e toscani l’amore era concepito come desiderio di appagamento, i poeti dello stil nuovo cercano nella poesia soprattutto la squisitezza formale e cantano l’amore come manifestazione di gentilezza, di nobiltà, concetto che in loro assume un valore pregnante: non si tratta più della nobiltà del blasone, della razza, bensì della nobiltà del cuore, della capacità cioè di sentire ed operare nobilmente.

Poiché le soluzioni date a tale problema sono differenti da poeta a poeta, non si può raccogliere l’esperienza stilnovistica – come genericamente si fa – sotto l’unico denominatore dell’amore inteso come mezzo di purificazione e di sublimazione spirituale.

Cronologicamente, primo fra coloro che appartengono a questa scuola, è Guido Guinizelli, che Dante proclama iniziatore della nuova poetica.

Nato a Bologna tra il 1230 e il 1240, esercitò la professione di giudice, fu esiliato e morì nel 1276 a Monselice, presso Padova.

Egli cerca di dare consistenza fantastica al proprio ideale d’amore con un entusiasmo ed un fervore di giovinezza che è costante caratteristica soprattutto della famosa canzone “Al cor gentile rempaira sempre Amore” diventata poi il manifesto dello Stil nuovo.

Egli parte dall’affermazione della nobiltà vista come fatto interiore e non come retaggio di casta. Non si è nobili perché nati all’interno di una famiglia illustre ma perché il nostro comportamento è corretto e gentile – e il vero amore alberga solo nei cuori predisposti a contenerlo.

 Dalla contemplazione dell’amata scaturisce infatti una poesia delicata, fresca, schietta, e soprattutto aliena da pedanteria.

Questo però non toglie che alcuni elementi intellettualistici vengano a complicare la sua contemplazione d’amore tanto che Bonaggiunta in un famoso sonetto lo accusava di aver arzigogolato troppo per cui la sua poesia diventava qualcosa di tecnico.

Il gusto delle analisi sottili e delle descrizioni degli effetti provocati dall’amore si fa più evidente in Guido Cavalcanti che Dante nella Divina Commedia dice che aveva tolto a Guinizzelli “la gloria della lingua”.

Egli è la figura più interessante nell’ambito del nuovo movimento e dai più è ritenuto come l’intellettuale della scuola, dato che celebra nei suoi componimenti l’amore come estasi incantata ma anche come sgomento.

Mentre il primo dei 2 temi è riscontrabile anche in altri stilnovisti, il secondo è peculiare del Cavalcanti e lo si riscontra particolarmente nel brano “Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core”, dove l’uomo, colpito dalla forza passionale e sconvolgente dell’amore, perde le forze e viene abbandonato da “deboiletti spiriti” senza alcuna possibilità di muoversi o di reagire.

Nella stessa canzone viene inoltre ribadita l’importanza degli occhi della donna angelicata che rappresentano sia un tramite tra Dio e gli uomini che tra la donna e l’uomo dal cor gentile.

Il poeta più che sentire l’amore come ascesi confortante dell’anima verso il creatore, lo avverte come sbigottimento e tormento.

C’è nella sua opera un sottile vena di intellettualismo, derivante dal fatto che egli postula l’esistenza di vari spiriti e spiritelli, sicché le sue composizioni si sollevano a un livello artistico solo quando riesce a dimenticare questi schemi raziocinanti per abbandonarsi completamente all’empito d’amore.

Comunque anche nei migliori componimenti si può notare un che di torbido, di appassionato, soprattutto quando Cavalcanti cerca di manifestare tutta l’irrequietezza della sua anima, le sue inquietudini e la sua malinconia; tale instabilità emotiva è magistralmente messa in evidenza probabilmente dall’essere egli seguace delle concezioni averroistiche.

Cino da Pistoia, che conclude l’esperienza stilnovistica, usa invece analisi psicologiche tanto che è sentito dal Petrarca come più vicino a sé.

Riesce particolarmente convincente, infatti, quando descrive le sue speranze, i suoi desideri, i suoi dolori, nell’espressione dei quali ha spesso trovato immagini, colori e toni di un’infinita varietà.

Si può quindi concludere con la celebre frase del Flora che definisce il dolce stil nuovo “Scuola inventata dai posteri”, proprio per l’impossibilità di dare a questi poeti un’etichetta che li accomuni.