La questione meridionale

Secondo alcuni l’origine del fenomeno va collocata negli anni immediatamente successivi all’unificazione d’Italia dato che  in quel periodo  si manifestò il problema di fronteggiare le reazioni che l’applicazione degli ordinamenti unitari aveva sollevato dappertutto.

 Infatti all’indomani dell’Unità, spinto dalla necessità di racimolare il denaro necessario per le grandi opere pubbliche necessarie – strade, ferrovie, ecc. – il governo italiano estese la tassazione alla totalità dei cittadini, ivi compresi quelli del Sud che al tempo dei Borboni , non avendo dovuto pagare  balzelli, erano riusciti a vivere dei frutti del loro lavoro.

Invece la necessità di pagare le tasse imposte dal nuovo stato indusse i contadini a vendere i prodotti della terra e ad indebitarsi per sopravvivere: i campi divennero ben presto proprietà dei ricchi latifondisti che non avevano risentito troppo del cambiamento del regime.

Si formò così un cospicuo capitale di origine agraria che fu poi usato dai vari governi per finanziare il decollo della nascente industria del Nord, dove si rendevano necessari investimenti militari e spese di pubblica utilità.

A questo punto l’adozione del protezionismo dette il colpo di grazia alla vacillante economia agricola del Sud.

Infatti, visto che non potevano esportare in Italia i prodotti della loro industria, i vari paesi europei bloccarono l’importazione dei prodotti agricoli italiani che provenivano prevalentemente dal Meridione.

Perciò già intorno al 1870 si cominciò a parlare di questione meridionale e di meridionalismo.   

Pasquale Villari ( Napoli 1826- Firenze 1917) ne “ Lettere meridionali”, pubblicate nel 1875, sancì il riconoscimento ufficiale del problema come politico –  sociale tra i più rilevanti della vita italiana.

Leopoldo Franchetti (Firenze 1847 – Roma 1917), pubblicista e uomo politico, propugnò, insieme con S. Sonnino, lo studio dei concreti problemi economici, sociali e politici della nuova Italia nelle sue opere :  Condizioni economiche e amministrative della provincia napoletana, 1975; La Sicilia del 1876; Condizione politico – amministrativa del 1877, scritti  fondamentali per l’impostazione del problema del Mezzogiorno.

Sidney Sonnino ( Pisa 1847- Roma 1922) autore con Franchetti di un’inchiesta governativa sulle condizioni dei contadini della Sicilia ( 1876), affermò che  per sanare il divario presente nello sviluppo del paese si doveva por mano a un ampio programma di riforme.Scrisse Contadini di Sicilia, 1876.

Le opere di tali scrittori   misero in evidenza lo stato di oppressione e di miseria delle masse rurali, la corruzione nella vita politica ed amministrativa, la grettezza che asserviva l’amministrazione e la politica agli interessi delle classi dominanti.

 Giustino Fortunato ( Rionero in Vulture, Potenza 1848 – Napoli 1932) conservatore illuminato, scrisse  La  questione demaniale nelle province meridionali (1882), Il Mezzogiorno e lo stato italiano (1911),  Questione meridionale e riforma tributaria (1920) ; egli affermava l’esistenza di una “ inferiorità congenita” del Meridione, causata da caratteristiche fisiche, geografiche e climatiche, da cattivo regime delle piogge, da penuria di materie prime: tutto ciò aveva reso il Sud una terra avara e minata dalle alluvioni e dalle malattie.  Inoltre le dominazioni succedutesi nei secoli e il malgoverno dei vari regimi avevano determinato “ il secolare processo di auto dissoluzione di un paese che la corruttela e la miseria di oltre un millennio avevano reso incapace di propria redenzione” 

Egli, credendo fortemente nella politica unitaria e nell’assetto economico del nuovo stato,  auspicava  la diminuzione della pressione tributaria, la formazione di capitali e di una borghesia agraria che potesse impegnarli, le bonifiche, la lotta alla malaria, le ferrovie, ecc.: il tutto per ridare nuova linfa al Mezzogiorno. Pertanto  durante la sua attività parlamentare, si impegnò nel miglioramento delle infrastrutture, dell’alfabetizzazione e della sanità nel Mezzogiorno, sostenendo politiche di bonifica e profilassi farmacologica. Nella sua attività fu penalizzato dal suo notorio pessimismo, che lo rendeva sconfortato verso le istituzioni e lo spingeva spesso ad isolarsi dagli schieramenti politici, ricevendo da parte dei suoi detrattori il malevolo nomignolo di “apostolo del nulla”. Tuttavia Fortunato considerò il suo pessimismo “una filosofia del costume”.

  Sergi Giuseppe ( Messina 1841 – Roma1936),antropologo.

 Cesare  Lombroso( Verona 1835-Torino 1909), psichiatra eantropologo.

 Alfredo  Niceforo( Castiglione di Sicilia 1876- Roma 1960), giurista ecriminalista,  facendosi portavoci  di pregiudizi antimeridionali largamente diffusi e destinati a durare nel tempo, vedevano la ragione dell’inferiorità meridionale in una costituzionale e irreparabile inferiorità di razza.

Niceforo, esponente della scuola sociologica positiva e prese parte attiva fra il 1898 e il 1900 con Sergi, Lombroso, Orano,  tentò di ridurne i complessi problemi della questione meridionale nei rigidi schemi dell’ osservazione scientifica,  e di dimostrare ( sulla base a minuziosi esami statistici, osservazioni e misurazioni psicosomatiche) la netta inferiorità della “razza meridionale”  nei volumi “ L’Italia barbara contemporanea ( 1898) e “ Gli italiani del Nord e gli Italiani del Sud ( 1898)

 Napoleone Colayanni  (Enna 1847- ivi 1921), politico, statistico, sociologo,  contro le tesi razziali degli antropologi positivisti, sosteneva che bisognasse ricercare le ragioni dell’arretratezza meridionale nella società che influisce,  positivamente o negativamente, in misura decisiva sulla vita dei singoli e della collettività.

Scrisse “ La sociologia criminale” (1889) e “ Settentrionali e meridionali (1898). Egli sosteneva che solo il mutamento della dinamica sociale nel Mezzogiorno sarebbe stato in grado di operare la trasformazione economica del Sud. Egli vide nel  federalismo repubblicano del Cattaneo, di cui era allievo, il tipo di soluzione istituzionale più conforme alle esigenze del Mezzogiorno. Ebbe  simpatia per il movimento socialista e aderì ad una linea politica di protezionismo economico.

 Ettore Ciccotti ( Potenza 1863- Roma 1939), storico e politico, non credeva alla possibilità di un’azione classista come quella del socialismo moderno, in un paese a struttura ancora capitalistica.  Riteneva invece  opportuna un’azione di assistenza sociale e legale e di educazione delle coscienze; sottolineava l’importanza di un’istruzione tecnica e professionale ed un liberismo per  contrastare gli interessi dei grandi gruppi capitalistici che nel protezionismo avevano trovato “ un patto tra proprietari del Meridione e industriali del Settentrione per una politica reazionaria, militaristica a tutto danno del paese”

 Luigi Einaudi ( Carrù 1874- Roma 1961), propugnatore delle teorie liberistiche,come ministro del bilancio fu fautore di una rigida politica monetaria.

Antonio DeViti De Marco ( Lecce 1858- Roma 1943) economista e politico, si battè sempre per il libero scambio.

Entrambi  nel liberismo vedevano la possibilità di equilibrare le deviazioni del capitalismo italiano per cui il Mezzogiorno avrebbe potuto rappresentare un’occasione.

Arcangelo Ghisleri ( Persico, Cremona 1855 – Bergamo 1938), geografo e politico repubblicano, legato alla democrazia risorgimentale di Cattaneo, Ferrari, Mazzini, auspicava la maturazione di una forte volontà autonomistica in seno alla popolazione meridionale  per  scalzare l’influenza negativa dell’accentramento statale, in cui si riassumevano politicamente le condizioni sfavorevoli del Mezzogiorno.

Nel frattempo  ci fu  un certo miglioramento agrario in Campania, Puglia,  e piana di Catania, una maggiore  commercializzazione dei prodotti agrari,  un incremento della rete ferroviaria, un innalzamento del livello d’istruzione e il tentativo di contrastare i grandi proprietari fondiari  da parte dei  nuovi ceti di agricoltori, professionisti, commercianti;  tutto ciò, però,  non portò a sostanziali  mutamenti nella situazione ante quo anzi fece emergere la diversità esistente tra le due Italie perché  incapace di alleviare l’asprezza e le contraddizioni dei rapporti sociali.

Intanto la grande crisi economica della fine degli anni ‘80 e il principio del ’90 che inflisse un duro colpo all’agricoltura meridionale, produsse  una massiccia emigrazione nelle lontane Americhe di gran numero di meridionali.

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Nitti Francesco Saverio ( Melfi, Potenza 1868- Roma 1953 ), uno dei più impegnati esponenti del liberismo italiano, elaborò proposte politiche caratterizzate da una acuta diagnosi del rapporto Nord Sud.

Nitti partiva dalla convinzione che l’Unità d’Italia aveva finito per soffocare sul nascere lo sviluppo del Mezzogiorno e che, invece, le riserve finanziarie accumulate dall’amministrazione borbonica avrebbero reso possibile tale sviluppo.

Affrontò perciò diversi temi per risolvere l’emergenza economica del Sud, come lo sviluppo industriale di Napoli e la valorizzazione delle risorse naturali presenti nel territorio meridionale, con particolare riferimento alla  Basilicata, sua terra di origine. Propose molte leggi speciali per il progresso del Mezzogiorno ed  elaborò un programma innovativo di solidarietà sociale e di interventi per l’espansione delle forze produttive. Nei suoi saggi Nord e Sud (1900) e  L’Italia all’alba del secolo XX (1901), Nitti criticò il procedimento in cui avvenne l’unità nazionale, che per lui non produsse benefici in maniera equa in tutto il paese; infatti  lo sviluppo dell’Italia settentrionale fu dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno;  riscontrò poi  una grande disparità a livello fiscale tra Nord e Sud. Infatti  notò che città meridionali come PotenzaBariCampobasso, avevano una pressione tributaria superiore a città settentrionali. Tuttavia, non lesinò critiche anche alla classe politica del meridione stesso, accusandola di mediocrità e disonestà. Non si opponeva all’unitarismo ma trovava nell’azione dello stato italiano la chiave per un efficace risollevamento delle condizioni del Mezzogiorno. Come Fortunato era favorevole all’emigrazione perché essa significava la “ decompressione di una congestione demografica insostenibile, migliorava il mercato del lavoro, provocava la formazione di un risparmio contadino e portava ad una più rapida educazione intellettuale e morale delle masse”

Nitti sosteneva inoltre  che le cause sociali avevano determinato il secolare fenomeno del brigantaggio e la tendenza tradizionale della protesta contadina.

Nell’ambito della questione meridionale egli individuò una questione napoletana relativa alla conversione della ex capitale borbonica da città burocratica e parassitaria  a moderna metropoli industriale.

Faceva appello all’azione consapevole dello stato italiano sia sul piano generale della politica economica e finanziaria sia sul piano specifico di interventi circostanziati per una ripresa del Meridione.

La sua ottica non era quella della lotta politico – sociale di emancipazione del Sud dalle forze oppressive del Nord, ma vedeva  lo sviluppo politico-sociale come un problema di educazione “ di principi da imparare, di abitudini da introdurre, di attività da sviluppare”

Tra gli strumenti d’azione meridionalista additati c’erano:

sgravi fiscali, incentivi finanziari e legislativi, ordinamenti amministrativi particolari, lotte sindacali e emigrazione, potenziamento degli elementi tecnici e professionali,

largo ricorso all’elettricità (carbone bianco) come risorsa naturale di base nell’elaborazione di decisioni imprenditoriali.

 Gaetano Salvemini ( Molfetta 1873-Sorrento 1957) negli “ Scritti sulla questione meridionale” ( 1896-1955) ebbe un preciso fondamento democratico e socialista . Attraverso le colonne del settimanale l’Unità, fondato con DeViti De Marco,  dibattè i complessi problemi della vita italiana, non ultimo quello della scuola. Storico di grande valore, uno dei fondatori e dei maggiori rappresentanti del meridionalismo, pur apprezzandol’analisi di Nitti riguardanti l’inferiorità economica e sociale del Sud, sostenne  che solo una politicizzazione generale delle masse e dei contadini meridionali poteva  risolvere il problema che era essenzialmente  un  problema di potere.

Delle molteplici, profonde malattie, che affliggono la società meridionale – disboscamento, malaria, mancanza di capitali, ignoranza e immoralità della classe dominante, analfabetismo della classe lavoratrice, concorso attivo e sistematico dei funzionari dello stato alla corruzione della classe dominante e alla oppressione della classe dominata – la emigrazione è un effetto, non è il rimedio: è il mezzo che hanno trovato i contadini meridionali per sottrarsi al male, non è la fine del male. Senza dubbio la emigrazione corregge alcuni di questi malanni, dal cui intreccio nasce la cosiddetta questione meridionale: spinge, per esempio, i contadini verso la scuola;li sveltisce intellettualmente al contatto con civiltà superiori; produce nel Mezzogiorno un’accumulazione notevole di capitali. Ma non rimboschisce i terreni rovinati; non elimina la malaria; non corregge i nostri soffocanti sistemi tributari e doganali; non rende migliori le classi dirigenti, che anzi le immiserisce e ne intensifica il pervertimento. E d’altra parte è accompagnata da qualche fenomeno tutt’altro che benefico, come il rallentarsi dei vincoli familiari.

Egli, partendo  da un’analisi sociale, vedeva come influssi negativi l’accentramento statale, lo sfruttamento del capitalismo settentrionale e una struttura di classe particolarmente oppressiva. Sosteneva che la grande proprietà latifondista deteneva nel Sud potere e ricchezza e, strettamente legata al capitalismo settentrionale, garantiva ad esso l’appoggio della rappresentanza parlamentare meridionale e ne sosteneva la politica in materia finanziaria e doganale. In cambio i latifondisti meridionali ricevevano la garanzia assoluta nella loro azione oppressiva per cui si avvalevano di una folta e misera borghesia. Di conseguenza tutto il peso  del predominio latifondista e della sua alleanza col capitalismo settentrionale  e della politica classistica e militaristica del nuovo stato si scaricava inevitabilmente sulle miserabili masse contadine. Egli intendeva fare del proletariato rurale una classe emancipata, voleva trovare nella sua alleanza col proletariato del Nord l’efficace strumento di contrapposizione all’alleanza tra latifondisti e capitalisti, dar  vita ad un decentramento amministrativo, attuare il suffragio universale e la riforma doganale.

In particolare il suffragio universale avrebbe reso le masse del Sud elettoralmente dominanti e ne avrebbe accelerato la politicizzazione .

 Benedetto Croce ( Pescasseroli, l’Aquila 1866-Napoli 1952) con la sua opera supera il naturalismo, il determinismo e il fatalismo di Fortunato, il pragmatismo di Nitti, il rivoluzionarismo di Salvemini; per lui  la storia del Meridione coincide con quella italiana ed europea. Agli intellettuali viene riconosciuto il merito di aver conferito “decoro e nobiltà” all’Italia. Ad essi dà il ruolo politico supremo e ciò non sarebbe sfuggito al meridionalismo posteriore.

Don Luigi Sturzo ( Caltagirone, Catania 1871- Roma 1959) postulava un programma di riforme basato sul decentramento amministrativo e sulle autonomie regionali. Fu il  fondatore del partito popolare, prima grande organizzazione attiva dei cattolici italiani, e polemizzò contro il liberismo moderno e lo stato unitario.  Indirizzò il suo meridionalismo in senso democratico e agrario. Rifiutò il trasformismo tradizionale della classe politica meridionale, affermando il partito come strumento della lotta politica e sostenendo il sistema elettorale a scrutinio proporzionale di lista per rompere il legame personale e talora clientelistico, determinato dal sistema elettorale a collegio uninominale.

Le masse, organizzate in partiti moderni, sarebbero state consapevoli della loro emancipazione ed  avrebbero sconvolto in maniera radicale il gioco politico dell’Italia liberale che aveva condizionato negativamente la politica del Mezzogiorno.

Propugnava  un’autonomia regionale federalistica: tra tutte le cause della differenza tra Nord e sud, riteneva che le principali fossero l’accentramento statale e l’uniformità tributaria e finanziaria e che la questione meridionale fosse un problema non politico ma amministrativo e finanziario.

Difendeva ad oltranza degli interessi dei piccoli produttori e della borghesia agraria in funzione sia antisocialista che antiliberale.

Da ciò l’attacco al latifondismo, la richiesta di una riforma agraria, la difesa della proprietà privata, anche organizzata in cooperative, contro ogni forma di collettivismo, di sindacalismo, di promozione sociale delle masse.

Guido Dorso ( Avellino 1892 – ivi 1947), scrittore politico in “ La rivoluzione meridionale”  (1925), attribuiva ad un movimento autonomo meridionale il compito di sciogliere i legami tra il grande ceto proprietario e la media e piccola borghesia urbana, indirizzando quest’ultima verso le masse contadine, estranee allo Stato, nato dalla “ conquista regia” nel Risorgimento. Il fine era portarle a maturità politica, facendone i protagonisti  della lotta contro lo sfruttamento instaurato ai danni del Mezzogiorno dalle classi dirigenti settentrionali, con l’eliminazione dell’industria meridionale, con l’eccessivo fiscalismo e con una politica di protezione doganale che diedero il colpo di grazia all’agricoltura specializzata.

Sulle orme di Salvemini, riteneva che la soluzione del problema meridionale non potesse essere che rivoluzionario. Nella politica giolittiana vedeva l’esempio evidente della strumentalizzazione politica del Mezzogiorno ed il suo giudizio negativo si estendeva al Risorgimento e alle successive fasi della storia unitaria che aveva consentito ai ceti conservatori e reazionari del sud di salvarsi ed emergere comunque. L’individuazione e la demolizione di questa tecnica di salvataggio avrebbe consentito, ad una classe “ poco numerosa e con idee chiare” di condurre una rivoluzione meridionale.

Il maturare di questa elite, attraverso un processo  etico – politico, ricollega Dorso a Croce anche se quella appare una classe rivoluzionaria che avrebbe dovuto rivendicare il più completo autonomismo sostanzialmente diverso dal federalismo, particolarismo già teorizzati.

L’autonomismo di Dorso era un modulo politico di valore nazionale attraverso cui si sarebbero potute superare le contraddizioni instaurate  con la soluzione monarchica e liberale e si sarebbe potuto realizzare una convivenza moderatamente funzionale fondata sul decentramento ed il self – governament.

Autonomismo ed elite rivoluzionaria avrebbero potuto spezzare il blocco agrario del Sud e la sua alleanza con gli interessi industriali del Nord.

Era, perciò, indispensabile puntare sulla  borghesia  “ umanistica” ( il ceto intellettuale contro cui si era scagliato Salvemini) che poteva “ nelle ore di punta della storia” sollevarsi come forza autonoma contro la classe dominante e farsi guida delle masse contadine.

Antonio Gramsci ( Ales, Cagliari 1891- Roma 1937) riprende temi e suggestioni di Salvemini. I suoi scritti costituiscono una svolta fondamentale e  segnano  il passaggio da un’ottica populista e borghese al più maturo meridionalismo di indirizzo scientifico. Per la prima volta quello del mezzogiorno è visto come un problema personale, nel senso che la soluzione di esso non è più un fatto di coscienza ma l’unico modo per realizzare lo sviluppo equilibrato dell’intera economia e della stessa società italiana. Egli in particolare individua nell’alleanza tra operai del nord e contadini poveri del sud, la condizione per superare la secolare arretratezza del Mezzogiorno,che era stata  aggravata dal Risorgimento e dalla politica di Giolitti.

L’influenza crociana sulla cultura meridionale che paralizzava ogni sviluppo rivoluzionario e gli intellettuali al servizio del blocco storico dominante, erano tutti fattori  che, schiacciando le masse contadine del sud, costituivano gli elementi indirettamente frenati degli sviluppi rivoluzionari in tutto il paese

La mobilitazione delle classi contadine costituiva perciò, il problema politico  che le forze rivoluzionarie avrebbero dovuto risolvere in Italia.

A differenza di Salvemini però Gramsci riteneva che la formula del movimento rivoluzionario non doveva  soltanto fondare una democrazia rurale di piccoli proprietari del Sud e svincolare dal blocco di potere operaio-industriale, la classe operaia settentrionale cui avrebbe comunque giovato il ridimensionamento della struttura industriale italiana realizzato attraverso la lotta ai monopoli, al protezionismo, e una politica di libera concorrenza interna ed internazionale.

L’alleanza doveva servire al rovesciamento dell’intero sistema per una società diversa.

La stessa formula “ terra ai contadini” perdeva di significato in quest’ottica; la frammentazione del latifondo in minuscole proprietà private non avrebbe aperto ai contadini del Sud la strada della promozione sociale ed economica in un’epoca in cui macchine e capitali erano indispensabili.

L’obiettivo di Gramsci non era economico ma di potere: perciò l’ operaio rivoluzionario di Milano o di Torino diventava protagonista del problema meridionale più dei vari teorici intellettuali; la risoluzione di esso dipendeva dalla mobilitazione delle forze operaie contro il capitalismo industriale.

 Allo stesso modo il movimento contadino del Mezzogiorno doveva  realizzare  la rottura del blocco dominante sulla coalizione  tra latifondisti e borghesia  operaia da un lato  e borghesia umanistica e professionistica dall’altro.

Il proletariato avrebbe rotto il blocco agrario meridionale se fosse riuscito a trasformare attraverso il suo partito, le masse contadine in formazioni autonome ed indipendenti e se fosse riuscito a disgregare il blocco intellettuale “ armatura flessibile ma resistentissima” del blocco agrario.

La borghesia settentrionale ha soggiogato lItalia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industialismo parassitario del Settentrione.

Il regime fascista dichiarò chiusa la questione meridionale

Nel XXIII volume  dell’ Enciclopedia italiana nel 1934 si diceva che il problema era nato da una differenza sostanziale di due regioni che, a partire dal 1860, erano state associate in una unità.

Tali differenze, innegabili ma amplificate, erano state conseguenze di secoli di divisione.

Si prevedeva da parte del governo fascista una politica di fusione attraverso la riforma agraria, la colonizzazione interna, opere pubbliche, bonifiche.

  Dopo la parentesi fascista nel corso della quale il problema fu affrontato solo a scopo pubblicitario, il governo non seppe far altro che continuare sulla strada segnata dai predecessori.

L’economia del Nord si sviluppò ad un ritmo assai intenso mentre il Sud non riuscì a perdere l’aspetto di zona prevalentemente agricola. Ma l’opinione pubblica esigeva una pur magra soddisfazione. Ecco allora sorgere le ormai classiche cattedrali nel deserto: Alfa – sud, Fiat Allis, Italsider, ecc., le quali pur impegnando una certa quantità di mano d’opera locale, erano dipendenti dalle industrie del nord per la fornitura dei vari pezzi necessari per completare la costruzione di automobili e trattori.

Nello stesso tempo le poche industrie sussidiarie fallivano perché gli utili erano assorbiti dagli interessi bancari che dovevano pagare all’AlfaRomeo o alla Fiat per saldare i loro debiti.

Si pensò allora di finanziare con la “Cassa del Mezzogiorno”, il sorgere di una piccola industria  ma ciò fu fatto senza oculatezza perché buona parte degli industriali intascò il denaro e subito dopo chiuse le industrie. Certo vi sono zone dove si sono concentrate un certo numero di industrie ma è anche vero che moltissime località sono deserte a causa della miseria e della conseguente emigrazione.  I vari “ piani verdi” che si sono susseguiti non sono stati altro che un modo nuovo per sperperare il denaro.