ORAZIO

Quinto Orazio Flacco

L’età augustea chiude il periodo degli impia proelia per realizzare il connubio felice tra il principato e la libertas.

Augusto, infatti, riuscì ad operare una callida iunctura tra il vecchio e il nuovo, instaurando un periodo di tranquillità e di pace di cui fu simbolo l’Ara pacis.

La letteratura, da sempre interprete della vita e della storia, rispecchiò la felice condizione di quel periodo.

Orazio, meglio d’ogni altro, riuscì a riflettere nella sua opera la differenza tra i due periodi.

 

Orazio, nacque a Venosa, cittadina situata tra la Lucania e l’Apulia, l’8 dicembre del 65 a. C. da un liberto, possessore di un modesto campicello e praeco, cioè esattore nelle aste pubbliche.

Si trasferì ben presto a Roma per frequentare le scuole di grammatica, retorica, filosofia.

Nella satira I,6 ci parla del suo maestro, il  grammatico Orbilio che era solito far imparare a memoria ai suoi discepoli i canti di Livio Andronico a suon di nerbate.

E’ probabile che abbia frequentato insieme con Virgilio, Rufo  e Varo, la scuola dell’epicureo Sirone.

Dopo un viaggio di perfezionamento filosofico in Grecia nel 45 dove potè assistere alle lezioni dell’accademico Aristo di Ascalona, ritornò nell’urbe e  alla morte di Cesare scelse di arruolarsi nell’esercito di Bruto dove rimase fino alla battaglia di Filippi del 42 a.C.

Ritornò poi a Roma approfittando del decreto di amnistia concesso dai vincitori dove condusse vita grama  dato che gli erano stati confiscati i beni paterni;  poi trovò un posto come scriba quaestorius.

Alla fine del 39  Virgilio e  Varo  lo presentarono a  Mecenate nel cui circolo ebbe modo di entrare nelle grazie di Augusto e di migliorare la propria situazione economica grazie alla fama di poeta che si era procurato.

Pochi anni dopo gli fu donata una villa nella Sabina. Così potè dedicarsi ai libri degli antichi.

Nel 17 Augusto gli affidò il compito di comporre un inno celebrativo da cantare in occasione dei Ludi saeculares.

Morì il 27 novembre dell’8 a.C.

 

Scrisse il primo libro delle Satire nel 35 a.C.

Nel 30 scrisse il II libro delle Satire e gli Epodi in cui si avverte un torbido ribollire di passioni.

Gli Epodi (da lui definiti iambi) sono una raccolta di 17 componimenti. Orazio dichiara di aver avuto come modelli Archiloco e Ipponatte,  da cui ha preso lo spirito, il metro, ma non i temi.

Le Satire sono 18 componimenti in esametri  in 2 libri.

Egli li definì sermones per il tono discorsivo e familiare con cui attaccava i costumi del tempo. Ci presenta  una vasta tipologia umana

( avaro, seccatore, poeta vanitoso, filosofo da strapazzo, ecc) verso cui esercita una bonaria ironia.

Egli osserva e giudica dall’alto con buon senso e rifiuto di ciò che è estremo per giungere alla mediocritas, intesa come equilibrio tra gli opposti.

Le Odi in 4 libri contengono 103 carmi. Il leit motive è sempre la filosofia di vita distribuita in una varietà di tematiche: il tema dell’amore, quello conviviale, e quello civile, in un tono sempre sostenuto e in uno sperimentalismo metrico caratterizzato da quasi tutte le forme della lirica monodica e corale greca arcaica ed ellenistica.

Anche la struttura  è degna di nota: si nota la disposizione studiata delle singole odi  e il gioco di corrispondenze simmetriche all’interno della raccolta.

Suoi modelli sono: Saffo, Alceo, Anacreonte, Pindaro di cui prende il tono e le forme adeguandole allo spirito latino.

 

Epistole  in 2 libri, sono così definite perché strutturate fittiziamente come componimenti a destinatari precisi.

Nel I libro i temi  e il metro si avvicinano a quelli delle Satire anche se il tono è più razionale e pacato.

Le 3 epistole del II libro hanno un carattere letterario.

La prima è dedicata ad Augusto che voleva ripristinare il teatro di massa come strumento di propaganda politica.

Il poeta lo esorta a diffidare di ‘un’arte” che , prescindendo dalla perfezione formale basata sul labor limae, tenti di accontentare i gusti del pubblico abbassandosi al suo livello.

La II è scritta come risposta a Florio che lo aveva rimproverato di non avergli più inviato carmi.

Orazio sottolinea il fatto che la sua vena si è inaridita.

La III dedicata ai Pisoni,  nota come Ars poetica, affronta temi come l’unità dell’opera d’arte, la funzione della poesia, il rapporto tra ispirazione e tecnica.

 

 

Nelle Odi, scritte dopo la battaglia di Azio (31 d. C.) che vide la sconfitta del triunviro Antonio e della regina d’Egitto, si avverte il riflesso di un animo calmo e sereno.

Nelle Odi romane (o Rime sei del 3 libro) e nel Carmen saeculare oltre alla celebrazione di Augusto c’è anche la glorificazione di Roma e del suo impero (la stessa che porterà Virgilio a comporre l’Eneide).

In tale temperie di serenità gli scrittori si sentono portati ad inneggiare al classicismo,  al gusto della forma elegante e raffinata: l’ars e lo studium divengono importanti quanto l’ingenium.

Orazio è il propugnatore del labor limae et mora, del castigare ad unguem, dell’essere simplex et unum.

Tali caratteristiche emergono evidenti dall’analisi del brano “Carpe diem” in cui Orazio invita la donna amata a lasciare agli dei la prerogativa di distribuire le sorti del bene e del male e la invita a godere dei momenti positivi senza confidare eccessivamente nel futuro (in quanto non è possibile per i mortali sapere cosa accadrà domani).

Tale concetto è legato ad elementi religiosi ed astrologici che non aiutano l’uomo ad avere certezze.

La vita è fugace, tempus fugit: perciò cogliamo l’attimo.

Lo stesso concetto si trova espresso anche in altri componimenti: nell’ode 1,4 ad es. la visione della fugacità delle cose è altrettanto chiara ed inequivocabile.

Il sentimento della morte è vivo in tutta la lirica oraziana.

Orazio, però, pur consapevole che esistono il dubbio, il malessere, la precarietà delle cose, si riscatta con l’aspirazione ad una saggezza capace di difenderlo il più possibile dall’incombenza dell’esistente.

In questo processo si avvicina alle dottrine di Epicureo e dello stoicismo pur non essendo mai un convinto assertore delle stesse.

Anche l’idea dell’amore si riallaccia al concetto della inesorabilità delle cose e dell’invito a godere dell’attimo fuggente in una visione sostanzialmente pessimistica dell’esistenza.

 

ODI

                                                        Libro I

O Mecenate, discendente da antenati di regale condizione, protettore e mio grato onore. Vi sono alcuni ai quali giova sollevare la polvere di Olimpia con  un cocchio e che la meta schivata dalle ruote focose e il celebre premio della vittoria innalza verso gli dei padroni della terra, a questo, se la folla degli incostanti Quiriti lotta per innalzarlo ai triplici onori; a quello se ammassa nel suo granaio tutto il grano che la Libia produce. Chi ha piacere di sarchiare i poderi di famiglia mai potresti allontanare neanche a promettergli tutte le ricchezze di Attalo, cosicchè con la nave Cipria come pavido marinaio solchi il mare Mirto. Il mercante che è atterrito dall’impeto furioso dell’Africo che investe i flutti Icari, benedice l’ozio e i campi della sua città, poi rimette a nuovo le barche rotte, incapace di sopportare una vita modesta. C’è colui al quale non dispiace bere il vecchio vino Marsico né togliere una parte al complesso lavorativo del giorno, ora coricato sotto un verde corbezzolo, ora presso la blanda sorgente di un sacro ruscello. A molti giovano gli accampamenti e il suono della tromba misto al lituo e le guerre odiate  dalle madri. Il cacciatore resiste al freddo della notte, dimentico della sposa affettuosa, sia che sia stata veduta dai cuccioli fidati la cerva, sia che il cinghiale Marsio abbia stroncato le reti ritorte. Le edere, ornamento delle fronti dei dotti mi uniscano agli dei superi, un fresco boschetto e i giovanili cori delle Ninfe coi Satiri mi separano dal mondo se né Euterpe mi lascia prendere le tibie, né Polimnia recusa di gonfiare la cetra di Lesbo.

Che se mi metterai nel numero dei poeti lirici, toccherò le stelle col capo alzato.

 

2

Così la dea signora di Cipro, così i fratelli di Elena , astri splendenti e il padre dei venti ti guidi, tenendo legati gli altri tranne Iapice, o nave  che devi rispondere di Virgilio a te affidato; consegnalo al territorio della Attica sano e salvo,te ne prego, e conserva la metà dell’anima mia. Doveva avere legno di rovere e un triplice strato di bronzo intorno al cuore colui che espose per primo al feroce mare una fragile imbarcazione  e non ebbe paura dell’Africo impetuoso che cozza contro gli Aquiloni né le malinconiche Iadi né la furia di Noto, del quale non v’è dominatore più potente dell’Adriatico, sia che voglia innalzarne sia che voglia abbassarne le acque. Quale assalto di morte temette colui che guardò con gli occhi asciutti i mostri nuotanti,colui che il mare gonfio e gli Acrocerania scogli di cattiva fama? Invano un dio preveggente separò le terre dell’Oceano inospitale se nonostante ciò le barche empie trapassano le acque che non si dovrebbero toccare. Il genere umano audace a soffrire ogni cosa si precipita nel vietato sacrilegio; la stirpe audace di Giapeto introdusse il fuoco tra gli uomini mediante un inganno  funesto. Dopo il fuoco rubato dalla casa eterea la consunzione  e una sconosciuta schiera di febbri piombò sulla terra e la necessità, prima lenta, piombò sulla terra e la necessità, prima lenta, della morte lontana affrettò il passo. Dedalo tentò l’aria conosciuta con ali non permesse  all’uomo; una fatica di Ercole sforzò l’Acheronte. Nulla di difficile c’è per i mortali; da stolti muoviamo contro lo stesso cielo e per la nostra malvagità lasciamo che Giove deponga i fulmini adirati.

 

6

Tu sarai celebrato da Vario come valoroso e vincitore dei nemici, cigno del canto Meonio, qualunque impresa l’intrepido soldato avrà compiuto sulle navi o sui cavalli sotto la tua guida. Io, o Agrippa, non tento di cantare né ciò né l’ira funesta del figlio di Peleo, ignaro di cedere ad altri né le cose attraverso il mare dell’astuto Ulisse, né la famiglia crudele di Pelope, io debole d’ingegno non tento di cantare queste grandi cose, finchè il pudore e la Musa che governa la mia lira pacifica mi vieta di guastare per colpa dell’ingegno le lodi dell’esimio Cesare e le tue. Chi potrebbe descrivere degnamente Marte coperto da una tunica adamantina, o Merione, nero di polvere troiana o il figlio di Tetide, pari agli dei del cielo per l’aiuto di Pallade?

Noi cantiamo i banchetti, le battaglie di vergini accanite contro i giovani con le unghie tagliate, sia che siamo liberi da passione amorosa, sia che abbiamo qualche piccola passione.

 

8

Dì, o Lidia, ti prego per tutti gli dei, perché ti affretti a perdere Sibari con l’amore; perché egli evita il soleggiato campo Marzio, pur essendo tollerante della polvere e del sole. Perché non cavalca tra i commilitoni della sua età né vince le bocche galliche con funi a foggia di denti di lupo? Perché esita a toccare il biondo Tevere? Perché evita l’olivo più accortamente del sangue di una vipera? Né ormai porta braccia livide per le armi,  sebbene famoso sia per aver lanciato oltre il limite fissato il disco, sia  il giavellotto? Perché si nasconde, come dicono fece il figlio della marina Teti nell’imminenza della rovina lacrimosa di Troia, affinchè l’essere vestito da uomo non lo costringesse ad andare nelle strage e nelle schiere dei Lidi

 

9

Vedi come il Soratte si leva tutto bianco di alta neve e come ormai le selve oppresse non reggano il peso, e come siano gelati i fiumi per il freddo pungente? Scaccia, o Taliarche, il freddo senza risparmio mettendo legna sopra il focolare e spilla con molta generosità vino di 4 anni dall’anfora sabina. Lascia fare ogni altra cosa agli dei, poiché non appena essi hanno fatto cessare i venti che si azzuffano sul mare spumeggiante , non si agitano più i cipressi né i vecchi orni. Non cercare di sapere che cosa avverrà domani e ascrivi a guadagno ogni giorno che la sorte ti concederà e non disprezzare i dolci amori, ragazzo, né le danze finchè dalla tua verde età è lontana la vecchiaia bisbetica. Ora ti stiano a cuore il campo Marzio e i piazzali e i dolci bisbigli siano ricercati verso sera ad ora fissata, ora il riso gradito della fanciulla che tradisce lei nascosta nell’angolo più appartato e il pegno strappato dalle sue braccia o dal dito che mal resiste.

 

10

O Mercurio, facondo nipote di Atlante, che sagace, educasti con la voce e con l’istituzione di palestre che rendono belli, i costumi selvaggi degli uomini primitivi, io canterò te, messaggero del grande Giove e degli dei e inventore della curva lira, astuto nel nascondere con furto per burla qualsiasi cosa gli piaccia. Un giorno Apollo,  mentre spaventava te fanciullo con voce minacciosa se non avessi reso i buoi condotti altrove con un inganno, privato da te della faretra, scoppiò a ridere. Ma inoltre il ricco Priamo, lasciata Troia sotto la tua scorta, ingannò i superbi figli di Atreo e i fuochi tessali e gli accampamenti ostili a Troia. Tu deponi nelle liete sedi le anime pie e tieni insieme con la verga d’oro la folla impalpabile delle anime, gradito agli dei del cielo e a quelli dell’Averno.

 

11

Non chiedere, non è lecito saperlo, quale fine gli dei abbiano assegnato a me, e a te, o Leucone, e non indagare i numeri dei Babilonesi. Oh, quanto è meglio sopportare qualunque cosa accada, sia che Giove ti abbia assegnato molti inverni, sia che questo che ora fiacca il mare Tirreno sulle opposte scogliere sia l’ultimo.

Sii saggia: spilla i vini e raccorcia, essendo breve la vita, la lunga speranza. Mentre parliamo, l’invidioso tempo sarà già fuggito via: afferra il giorno, affidandoti il meno possibile al domani.

 

 

15

Mentre il perfido pastore rapiva Elena, che pure l’aveva ospitato, per il mare con le navi dell’Ida, Nereo avvolse con una spiacevole calma i rapidi venti per predire i destini atroci. “ Oh, con qual triste auspicio tu conduci alla casa dell’avo una donna che la Grecia richiederà con molti guerrieri, cospirante a rompere le tue nozze, e l’antico regno di Priamo. Ahimè, quanto sudore si appresta ai cavalli, quanto agli uomini. Quanti funerali prepari alla nazione Argiva. Già Pallade apparecchia l’elmo e l’egida e il cocchio e la lotta. Invano tu baldanzoso per l’appoggio di Venere pettinerai la chioma e canterai con l’imbelle cetra canti graditi alle donne; invano eviterai nel talamo le aste pesanti e le frecce di Cnoso e lo strepito e Aiace veloce ad inseguire; ciò nonostante troppo tardi  imbratterai di polvere i capelli adulteri. Non vedi dietro di te il figlio di Laerte, rovina del tuo popolo, non Nestore di Pilo? Impavidi a te danno la caccia Teucro di Salamina, e Stenelo, esperto del combattimento o, se bisogna comandare ai cavalli, auriga non lento. Perfino Merione conoscerai. Ecco il temibile figlio di Tideo più valoroso del padre, smania di trovarti. Che tu effeminato, fuggirai col respiro alto come il cervo che, veduto un lupo dall’altra parte della valle, fugge dimentico dell’erba, benché tu non abbia promesso ciò alla tua donna. Il ritiro di Achille, sdegnato sulle sue navi, prorogherà il giorno fatale per Ilio e per le matrone dei Frigi; ciò nonostante dopo determinati inverni il fuoco Acheo arderà le case di Ilio.

 

22

O Fusco, illibato della vita e puro da delitto, non ha bisogno di giavellotti Mauri né di arco, né di faretra piena di saette avvelenate, quando sta per fare un viaggio sia attraverso le sirti infuocate, sia attraverso il Caucaso inospitale o per luoghi  che bagna l’Idaspo favoloso. Infatti, mentre io cantavo la mia Lalage nella selva Sabina, ed erravo oltre il confine, scacciati i pensieri, un lupo fuggì me per quanto inerme, un mostro quale né la Daunia, madre di prodi soldati, nutre nei vasti querceti, né la terra di Giuba arida nutrice di leoni, genera. Ponimi nei campi sterili, dove nessun albero è ristorato dal venticello estivo, in quella parte estrema del mondo che le nebbie e Giove malefico opprime, ponimi sotto il carro del sole troppo vicino, in un paese negato alle abitazioni. Io amerò Lalage che ride dolcemente, che parla dolcemente.

 

24

Quale ritegno o misura potrebbe esserci nel piangere un uomo così caro? Intona canti lugubri, o Melpomene, a cui il padre concedette una voce limpida con la cetra. Dunque un sonno eterno opprime Quintilio? Quando mai l’orrore e la fede incorruttibile, sorella della giustizia e la verità schietta troverà qualcuno simile a lui? Egli è morto, oggetto di pianto per molti buoni ma più degno d’essere compianto da nessun altro se non da te, o Virgilio. Tu, sebbene pio, domandi invano agli dei Quintilio.  Ahimè . E che? Se tu suonassi la cetra più dolcemente del tracio Orfeo, a cui prestarono ascolto gli alberi, forse che il sangue ritornerebbe all’ombra vana, una volta che Mercurio non facile a riaprire i fati con preghiere, l’abbia spinto in mezzo al gregge nero con la verga orribile? E’ duro,  ma tutto ciò che non è lecito cambiare, diviene più sopportabile con la rassegnazione.

 

31

Che cosa domanda il poeta ad Apollo cui un tempo è stato consacrato? Non lo prega dei seminati fertili dell’ubertosa Sardegna, non dei gradevoli armenti della caldissima Calabria, non dell’oro o dell’avorio indiano, non delle campagne che il Liri, fiume silenzioso corrode con l’acqua tranquilla. Sfrondino col falcetto Caleno la vite, coloro ai quali la fortuna  lo concesse cosicchè il ricco negoziante beva coi bicchieri d’oro i vini barattati con merce di Siria, caro agli stessi dei come quegli che vede impunemente il mare Atlantico 3 o 4 volte l’anno. Mi nutrano le olive, le cicoria e le malve leggere. O figlia di Latona, possa tu concedere a me sano, te ne prego con mente sana, di  godere degli acquistati beni e di non passare una vecchiaia ingloriosa né priva della cetra.

 

37

Ora dobbiamo bere, ora dobbiamo battere la terra col piede libero, ora è tempo di bandire il letto degli dei con vivande scelte o amici. Prima era nefasto tirar fuori il Cembo dalle cantine degli avi, finchè la regina nella sua follia preparava rovina al Campidoglio e disgrazia all’impero col gregge contaminato di uomini ributtanti dal sozzo morbo, smodata nello sperare qualsiasi cosa, inebriata dal favore della fortuna. Ma diminuì la pazzia una sola nave scampata al fuoco e Cesare richiamò alla paurosa realtà la mente intontita dal vino Mareotico, incalzando lei che fuggiva dall’Italia con i remi, come il falco incalza le tenere colombe o il cacciatore più celermente la lepre nei campi nevati della Tessaglia; affinchè incatenasse il fatale mostro. Quella chiedendo di morire più nobilmente non si spaventò da donna  della spada e con la veloce flotta si rifugiò nelle regioni interne. Osando guardare la reggia che rovinava col volto impassibile e forte nel trattare i serpenti ributtevoli per assorbirne il nero veleno nel corpo, anche più fiera per la decisa morte, naturalmente non volendo concedere di essere condotta come una privata, lei donna illustre sulle spietate liburnee per un superbo trionfo.

 

                                                       Libro  II

3

O Dellio, poiché sei destinato a morire, ricordati di mantenere l’animo calmo nelle cose difficili, come pure moderato da smoderata gioia nelle prospere, sia che tu debba vivere mesto in ogni tempo, sia che tu debba rallegrare con un cartellino di Falerno della parte più interna della cantina te stesso, sdraiato sopra un prato romito nei giorni festivi.  A che pro il pino alto e il pioppo bianco amano riunire l’ombra ospitale coi loro rami? A che pro l’acqua fugace si affatica ad andare a precipizio nel ruscello tortuoso? Comanda che si riportino qui i vini e gli unguenti e i fiori della rosa gradevole che dura poco finchè le ricchezze e l’età e i fili neri delle 3 sorelle lo permettono. Tu lascerai i boschi comprati uno dopo l’altro e la casa e la villa che il biondo Tevere bagna, lascerai e l’erede s’impadronirà delle ricchezze accumulate. Tu dimori sotto la volta del cielo quale vittima dell’Orco che non ha compassione di nulla, a cui non importa niente se sei ricco  e disceso dall’antichissimo Inaco o povero e  nato da stirpe infima. Tutti siamo sospinti verso lo stesso luogo, la sorte di tutti che dovrà uscire dall’urna, più tardi o più presto, e che dovrà metterci sopra la barca per l’esilio eterno, è agitata nell’urna del destino.

 

6

O Settimio, che sei pronto ad andare con me a Cadice e fra i Cantabrici che non hanno ancora imparato a sopportare il nostro dominio, e fino alle Sirti barbare dove l’onda Maura ribolle sempre, voglia il cielo che Tivoli fondata dai coloni Argivi sia la dimora della mia vecchiaia, lì sia il limite per me stanco del mare, della terra e della vita militare. Ma se di lì le Parche nemiche mi escludono, andrò al fiume Galleso, caro alle pecore impellicciate e alle campagne su cui regnò Falanto della Laconia. Quell’angelo dove il miele non cede a quello dell’Imetto e l’ulivo gareggia col verdeggiante Venafro, dove Giove dà la primavera lunga e gli inverni tiepidi e l’Aulone amico a Bacco donatore di fertilità, non invidia per nulla le uve di Falerno, arride a me più che ogni terra. Quel luogo e quelle colline ridenti chiedono  te con me; lì tu spargerai la cenere ancora calda del poeta tuo amico con una lacrima dovuta.

 

13

 O albero, chiunque per la prima volta  ti piantò  in un giorno infausto e ti allevò con mano sacrilega a rovina dei nipoti e a disonore del villaggio, io sono propenso a credere che costui abbia rotto il collo del proprio padre e abbia sparso ripenetrandoli col notturno sangue d’un ospite; colui che pose nel mio podere te sciagurato legno, te che per poco cadevi sul capo del padrone che non lo meritava, maneggiò i veleni Colchici e qualsivoglia misfatto in qualsiasi luogo si concepisce. Né mai è antiveduto dall’uomo, ora per ora,  ciò che ciascuno debba evitare; il navigante fenicio teme il Bosforo, ma non teme che possa giungere da altra parte il destino sconosciuto, tranne che di là il soldato teme i dardi e la fuga veloce del Parto, il parto le catene e il valore italiano; ma la forza repentina della morte rapì e rapirà gli uomini. Quanto per poco mancò che vedessi i regni della fosca Proserpina ed Eaco che giudica e le sedi separate dei giusti e Saffo che si lagna delle fanciulle compaesane sulle corde Eolie e te, o Alceo, che suoni più alto con plettro d’oro i duri mali del navigare, i duri mali dell’esilio, i duri mali della guerra. Le ombre ascoltano con meraviglia entrambi  intonare carmi degni di religioso silenzio, ma la tromba che s’addentra con le spalle beve volentieri con l’orecchio le battaglie e i tiranni cacciati. Qual meraviglia se la belva dalle 100 teste, meravigliata per quei canti, abbassa le orecchie nere e i serpenti attorcigliati ai capelli delle Eumenidi si placano? Che anzi persino Prometeo e il padre di Pelope dimentica i supplizi al dolce suono, né Arione si preoccupa di cacciare il leone e le timide colombe.

 

17

Perché mi fai morire coi tuoi lamenti? O Mecenate, ornamento grande e appoggio della mia esistenza, né agli dei né a me piace che tu muoia prima di me. Ah, se una morte prematura  rapisce te, parte essenziale dell’anima mia, o che io che sono l’altro rimango senza essere né caro ugualmente né superstite intero? Quel giorno porterà la rovina di entrambi. Io non dissi un giuramento falso: compagno pronto a intraprendere nell’ultimo viaggio, verrò, andremo in qualunque tempo se tu mi precederai. Né il soffio della Chimera ignivoma né Gigante dalle 100 mani se risuscitasse strapperà giammai me: così piacque alla Giustizia potente e alle Parche. Sia che la Libbra o lo Scorpione formidabile, parte più influente dell’ora in cui si nasce o il Capricorno tiranno del mare Esperio, guardi me, l’una e l’altra nostra stella s’accorda in modo incredibile. La protezione di Giove che risplendeva incontro all’empio Saturno, sottrasse te e ritardò le ali del destino alato, quando il popolo numeroso fece riportare 3 volte un plauso lieto nel teatro, un tronco cadutomi sul capo, avrebbe ucciso me, se Fauno custode degli uomini protetti da Mercurio, non avesse stornato il colpo con la mano. Ricordati di sacrificare le vittime e il tempietto che hai votato; noi uccideremo l’umile agnella.

 

                                                            Libro III

1

Odio e tengo lontano il vogo dei profani. Tacete, io sacerdote delle Muse, intono per le vergini ed i fanciulli un canto mai udito prima. Il comando dei re è sui propri popoli, quello di Giove sugli stessi re, famoso per il gigantesco trionfo che col cenno del capo muove tutto. Si dà il caso che un uomo disponga gli alberi nei solchi in un campo più ampio che un altro, questi più loquace discenda in gara come candidato alle elezioni nel campo Marzio, questi migliore per fama e per costumi competa, quegli risulti maggiore per la turba degli amici: la necessità sorteggia con legge equa i grandi e i piccoli, l’urna capace muove il nome di ciascuno. La spada sguainata a cui cade empia sulla testa, né le vivande siciliane saranno gustate da lui, né le cetre e i canti degli uccelli concilieranno il sonno. Il dolce sonno degli agresti uomini visita volentieri le umili cose dei contadini e le ombrose rive, né la vallata è esposta al soffio dei venti. Né il mare burrascoso né l’impeto crudele di Arturo che tramonta o del Capro che si leva, non le vigne sferzate dalla grandine e il podere ingannatore mentre l’albero incolpa ora le piogge ora gli astri che riardono i campi, ora gli inverni inclementi, chi desidera ciò non lo trova. I pesci si accorgono che la superficie del mare, ristretto a cagione dei macigni gettati nel profondo; di qua l’appaltatore con molti operai e il padrone che ha a noia la terraferma, manda giù pietre da fabbrica. Ma la paura e le minacce salgono nel medesimo luogo, dove sale il padrone né l’affanno nero si parte dalla trireme rivestita di bronzo, e siede in groppa al cavaliere. Che se né il marmo frigio né l’uso delle porpore più splendido d’un astro né la vite Falerna e l’unguento Achemenio sollevano chi è addolorato, perché dovrei io fabbricare un atrio elevato con colonne che destano invidia e con stile nuovo? Perché dovrei io cambiare ricchezze più faticose con la valle Sabina?

 

13

O sorgente di Bandusia, più lucente del vetro, degna di vino dolce non senza fiori, domani avrai in regalo un capretto, a cui la fronte gonfia per le prime corna promette gli amori e le zuffe; invano poiché la prole del gregge ruzzante colorerà per te col suo sangue rosso i ruscelli freschissimi. La stagione violenta della Canicola bruciante non può toccare te, tu porgi frescura gradita ai tori stanchi per l’aratro ed al bestiame vagante. Tu pure diverrai una delle fonti famose, cantando io l’elce che sorge sulle rupi incavate, dove zampillano le tue acque chiacchieranti.

 

 

44

Ho innalzato un monumento sepolcrale più duraturo del bronzo e più alto dell’ardua mole delle piramidi, chè la corrosione della pioggia  e l’aquilone sfrenato non potrà distruggere, o la serie innumerevole di anni e la fuga del tempo. Non morirò del tutto e una gran parte di me eviterà Labitina. Crescerò nella lode dei posteri sempre rinnovellato, finchè il pontefice salirà verso il Campidoglio con la tacita Vergine. Sarò celebrato, dove rumoreggia violento l’Ofanto e dove Danzo, povero di acqua regnò sui popoli campestri, da umile divenuto potente, per primo ho introdotto fra i ritmi italici la canzone eolica. Arrogati un giusto vanto che ti sei conquistato a buon diritto, o Melpomene, e cingi a me benigna la chioma con l’alloro di Delfo.

 

                                                   Libro IV

3

O Melpomene, non la fatica istmica renderà famoso come atleta, non il cavallo focoso lo condurrà vincitore su cocchio greco, né l’arte della guerra lo mostrerà sul Campidoglio, come capitano ornato dalle foglie di Delo per aver rintuzzato le minacce superbe dei re; colui che tu avrai mirato una sola volta al suo nascere con occhio benigno; ma le acque che scorrono davanti al fertile Tivoli e le chiome folte dei boschi lo renderanno famoso con la poesia eolica. La gioventù di Roma, prima fra le città, si degna di porre me tra i cori amabili dei poeti e già son morso meno di prima dal dente dell’invidia. O Pieride, che regoli il soave suono della lira d’oro, o tu che potresti dare il canto del cigno, se ti piacesse, anche ai pesci muti,  tutto ciò è  tuo dono, il fatto che son mostrato col dito dai passanti, quale cantore di cetra romana; che son poeta e piaccio, se piaccio, è tuo dono.

 

                                                               Satire

                                                                       Libro I

I

Come mai avviene, o Mecenate, che nessuno viva contento di quella sorte che la ragione gli ha dato o il caso gli ha posto dinanzi, e al contrario lodi coloro che seguono vie diverse? “ Fortunati i mercanti” dice il soldato carico di anni, con le membra ormai spezzate dalla lunga fatica. Al contrario il mercante quando gli astri flagellano la sua nave, dice che è preferibile il servizio militare. E perché no? Si viene alle mani. Nello spazio di un’ora sopraggiunge rapida la morte o la lieta vittoria. Il giureconsulto loda l’agricoltura quando il cliente batte alla sua porta al canto del gallo. Colui che dopo aver dato garanzia, è tirato a forza dalla campagna in città, grida a gran voce “ felici solo quelli che vivono in città”.Altre considerazioni di questo genere,tanto sono numerose che riuscirebbero a stancare il ciarliero Fabio. Affinchè non ti faccia perdere del tempo, ascolta dove voglio arrivare. Se un dio dicesse “ eccomi qua, ormai farò ciò che volete, tu che poco fa eri soldato, sarai mercante; tu che poco fa eri giureconsulto, sarai contadino; voi di qua,voi di là, mutate le parti, andate via! Ehi, perché non vi muovete? Non vorrebbero. Eppure sarebbe lecito a loro di essere felici. Dunque quale motivo c’è per cui Giove, giustamente adirato contro di loro, non gonfi entrambe le gote e dica che d’ora innanzi non sarà tanto condiscendente da prestare orecchio alle loro preghiere? Del resto, per non continuare scherzando come chi rappresenta farse: sebbene cosa impedisce di dire il vero scherzando? Come spesso i maestri indulgenti danno dei biscotti ai bambini perché vogliano imparare i primi elementi, ma tuttavia lasciati da parte gli scherzi, parliamo seriamente; colui che rivolta la pesante terra col duro aratro, questo maligno oste, il soldato e i marinai che audaci corrono per tutto il mare, dicono che sopportano la fatica allo scopo di ritirarsi da vecchi in un sicuro riposo, quando si siano provveduto da vivere: così come ( infatti cade ad esempio) la piccola formica, con grande laboriosità trasporta con la bocca tutto ciò che può e lo aggiunge al mucchio che innalza, non ignara né noncurante del futuro. Questa appena l’Acquario rattrista il principio dell’anno, non si precipita in nessun luogo e si serve di quelle provviste che ha raccolto giudiziosamente prima, mentre te, né l’ardente estate, né l’inverno, il fuoco, il mare, le spade potrebbero smuovere dal guadagno, niente si opporrebbe a te perché un altro non sia più ricco di te. A che giova che tu timidamente deponga nella terra scavata di nascosto un immenso mucchio d’argento e d’oro?  “Ma se tu lo assottigliassi, si ridurrebbe ad un misero soldo”. Ma se ciò non avviene, che cosa ha di bello un mucchio accumulato? La tua aia trebbi pure 100mila moggi di frumento; tuttavia il tuo ventre non potrà contenere più del mio come se per caso tu trasportassi sulla spalla carica tra gli schiavi la reticella di pane, non potresti prenderne affatto più di colui che non ha portato niente sulle spalle. Oppure dimmi che cosa importa a colui che vive entro i confini della natura, se ara 100 o 1000 iugeri di terreno? “ Ma è bello prendere da un gran mucchio”. Finchè ci lasci prendere altrettanto da uno piccolo, perché lodi i tuoi granai più dei nostri canestri? Come se tu avessi bisogno non più di una brocca o di una bottiglia d’acqua e dicessi: “ Preferirei attingere altrettanta da un gran fiume che da questa fontanella: Per cui accade che se uno brama una quantità maggiore del giusto, l’Ofanto violento lo strappa insieme con la riva. Ma chi si contenta di quel poco che gli è necessario, non attinge acqua inquinata di fango, né perde la vita nelle onde. Invece una buona parte degli uomini, ingannata da una falsa avidità, dice: “ Niente è sufficiente perché vali tanto quanto possiedi”.  Che puoi fargli? Lasciamolo essere infelice perché fa ciò volentieri: come quel tale che si ricorda in Atene, spilorcio e ricco, solito  a disprezzare le voci del popolo così: “Il popolo mi fischia, ma io in casa mi applaudo quando contemplo i miei soldi nel forziere”. Tantalo sitibondo cerca di prendere le acque che fuggono dalle sue labbra. Perché ridi?  Cambiato il nome, la favola ti si adatta. Tu dormi stando a bocca aperta sui sacchi ammucchiati da ogni parte e sei costretto a risparmiarli come se fossero cose sacre o a goderne come quadri dipinti. Non sai a cosa serve il denaro e quale utilità offre? Si potrebbe comprare del pane, legumi, un sesterzio di vino e aggiungi tutte quelle cose di cui la natura umana si dorrebbe se le venissero negate. Forse ti piace questo, cioè vegliare mezzo morto per la paura e notte e giorno temere i ladri malvagi, gli incendi, i servi che non ti rubino e fuggano via? Io desidererei sempre essere poverissimo di questi beni. Ma se il corpo colpito dalla febbre si ammala, o qualche altra malattia ti tiene inchiodato al letto, hai tu chi ti assista, chi ti procuri le medicine e chiami il medico affinchè ti faccia alzare dal letto e ti restituisca ai figli e ai cari congiunti? Non ti vogliono salvo né la moglie né il figlio; ti odiano tutti i vicini,gli amici, i fanciulli e le fanciulle. Ti meravigli dal momento che tu posponi ogni cosa al denaro, se nessuno ti offre quell’ affetto che non meriti? Oppure se tu volessi tenere e conservare amici i parenti che la natura ti dà senza nessuna fatica, perderesti miseramente la tua opera come se uno volesse insegnare ad un asinello a correre nel campo Marzio ubbidendo ai freni. Vi sia infine un limite al guadagno e quando possiedi di più, temi di meno la povertà  e comincia a por fine alla fatica dopo aver ottenuto ciò che desideravi affinchè non faccia come un certo Numidio. L’aneddoto non è lungo:tanto ricco da misurare il denaro a staie ma così avaro da non vestirsi mai meglio di un servo, temeva sino all’ultimo momento della sua vita che la scarsezza di cibo lo facesse morire ma una liberta, la più forte delle Tindaridi, gli spaccò in 2 il cranio con una scure. “ Che mi consigli dunque? Che io viva  come Nevio? Oppure come Nomentano?”

Tu continui a paragonare cose contrastanti tra loro: io, quando non ti lascio come avaro, non ti dico di diventare un fannullone o un dissoluto. C’è una certa differenza tra Tanai e il suocero Visellio: c’è una misura nelle cose, insomma ci sono dei limiti precisi al di qua e al di là dei quali non può stare il giusto. Torno là donde mi sono allontanato, che nessuno, come l’avaro approvi sé, ma lodi piuttosto chi segue altre vie e si rode perché la capretta altrui porta la poppa più gonfia e non si paragoni alla schiera più numerosa dei più poveri e s’affatichi a superare questo e quello. Così a chi si affretta, sta sempre davanti uno più ricco, come quando i cavalli trascinano i cocchi lanciati fuori dagli steccati, l’auriga incalza i cavalli che stanno davanti ai suoi, noncurante di quello superato che va tra gli ultimi. Così accade che raramente possiamo trovare chi dica di essere vissuto felice e giunto il suo tempo esca dalla vita contento come un convitato sazio. Ora basta. Non aggiungerò più parole perché tu non creda che io abbia saccheggiato lo scrigno del cisposo Crispino.

 

 

 

 

 

IX

Me ne andavo per caso per la via Sacra com’è mia abitudine, meditando non so quali fantasie, tutto assorto in esse: mi viene incontro un tale, noto a me solo di nome e, strettami la mano: “Come stai, o carissimo amico?”

“ Bene, almeno per ora – dico – e ti auguro tutto ciò che vuoi”

Siccome quello mi seguiva: “ Vuoi forse qualcosa?” lo prevengo.

Ma quello: “ Mi dovresti conoscere – dice – sono un letterato”.

A questo punto dico: “Per questo tu sarai stimato più di me”.

Siccome io desideravo ardentemente di allontanarmi, ora procedevo un po’ rapidamente, talora mi fermavo e sussurravo non so che cosa all’orecchio del servo, mentre un sudore mi grondava sino in fondo alle calcagna.

” Felice te, Bolano, per la tua testa calda” dicevo tra me e me, mentre quello garriva qualsiasi cosa e lodava i villaggi e le città.

Poiché io non gli rispondevo nulla, dice:  “Tu desideri ardentemente allontanarti da me; lo vedo già da lungo tempo ma non ce la fai, ti verrò dietro sino alla fine, ti perseguiterò. Da qui fin dove sei diretto”

“ Non c’è bisogno che tu faccia un lungo giro, io voglio far visita ad un tale a te sconosciuto, egli giace ammalato lontano, al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare”

“ Non ho nulla da fare e non sono pigro, ti seguirò sempre”.

Abbasso le orecchie come un asinello di carattere indocile quando gli vien posto sul dorso un carico troppo pesante.

Egli riprende: “ Se mi conosco bene, non avrai più stima dell’amico Visco, né Vario; infatti chi potrebbe scrivere più versi di me o più presto? Chi muove le membra con più eleganza? Io canto  poesie che anche Ermogene invidierebbe”

Questo era il momento d’interpellarlo: “ Hai  tu una madre, dei parenti a cui interessi la tua salute?”

“Non ho nessuno, li ho tutti sotterra”

“Felici, ora resto io. Finiscimi, poiché mi sovrasta il triste destino che una vecchia sabina predisse a me fanciullo, muovendo l’urna profetica – costui non lo porterà via il terribile veleno o la spada nemica né la polmonite o la tosse né la tarda podagra; costui lo farà morire un giorno un cialtrone: schivi, se ha giudizio, i ciarloni, appena cresciuto in età”

Si era giunti al tempio di Vesta, passata ormai la quarta parte del giorno; e per caso allora doveva rispondere per aver dato malleveria se non avesse fatto ciò, perdeva la lite.

“ Se mi vuoi bene,dice, assistimi qui un poco”

“ Che io muoia se posso star tanto tempo in piedi o se conosco il diritto civile, e mi affretto dove sai”

“ Sono incerto che fare – risponde – se lasciare te o la causa”

“ Me, di grazia”

E lui: “ Non lo farò” e cominciò ad avviarsi avanti: io, poiché è difficile contendere col vincitore, lo seguo.

“ Mecenate com’è con te?”

Poi riprende : “ Ha pochi amici ed è veramente saggio. Nessuno si è servito più abilmente di te della fortuna. Avresti un grande aiuto che potrebbe sostenere la seconda parte, se volessi presentargli quest’uomo:che io muoia se non li avresti soppiantati tutti”

“Lì non viviamo a codesto modo che tu credi: nessuna casa è più nobile di questa né più contraria a questi intrighi; non mi dispiace, dissi, perché costui è più ricco o più dotto: per ciascuno c’è il suo posto”

“ Mi racconti una cosa meravigliosa, appena credibile”

“Eppure è così”

“Mi invogli di più, perciò desidererei essere molto più vicino a lui”

“Basta che tu lo voglia; il tuo valore è tale che lo espugnerai ed è tale che possa essere vinto e perciò rende difficili i primi approcci”

“ Non verrò meno a me stesso, corromperò i servi con regali; se oggi sarò respinto, non smetterò; cercherò il momento favorevole, gli andrò incontro nei trivi, lo accompagnerò. Nulla la vita concede ai mortali senza grande fatica”

Mentre così si affanna, ecco venirci incontro Fusco Aristio, mio amico, che conosceva benissimo costui. Ci fermiamo.

“ Da dove vieni? e dove vai” domanda e risponde.

Comincio a tirarlo e a stringere con la mano le insensibili braccia, facendo segno, strizzando gli occhi, perché mi liberasse. Ridendo l’atroce burlone fingeva; la bile struggeva il mio fegato.

“ Certamente dicevi di volermi parlare in segreto di non so che cosa”

”Lo ricordo bene, ma lo farò in un momento migliore; oggi è il trentesimo sabato: vuoi tu insultare i circoncisi Giudei?”

Dissi: “Non ho alcuna religione”.

“Ma io ce l’ho: sono un po’ più scrupoloso di te, uno dei molti. Perdonami, parlerò un’altra volta.”

Questo tanto nero sole era sorto per me. Il briccone fugge e mi lascia sotto il coltello. Per fortuna si fece incontro a lui l’avversario e: “ Dove vai, scellerato? – grida a gran voce – posso citarti come testimonio?”

Io invero porgo l’orecchio. Mi trascina in giudizio: si grida di qua e di là da ogni parte accorre gente. Così mi salvò Apollo.

 

                              Libro II

I

Vi sono alcuni ai quali io sembro troppo mordace nella satira e che tengo il lavoro oltre la norma; un’altra parte ritiene che tutto ciò che io ho composto sia senza nervi e che mille versi simili ai miei possono essere scritti in un sol giorno.

“ O Trebazio, prescrivimi che  cosa devo fare”

“Devi tacere”

“ Tu dici che io non faccia del tutto versi?”

“Lo dico”

“ Che io muoia malamente se non sarebbe la cosa migliore: invero non posso dormire”

Passino a nuoto 3 volte il Tevere, essendosi unti, coloro ai quali è necessario un sonno profondo e tengano verso notte il corpo bagnato di vino. O se un sì grande desiderio di scrivere ti prende, osa celebrare le gesta dell’invitto Cesare e riporterai premi delle tue fatiche”

“ Le forze, ottimo padre, mancano a me desideroso; infatti chiunque non può descrivere le schiere irte di giavellotti né i Galli che muoiono, essendo stata rotta la punta, o le ferite del Parto che cade da cavallo. Tuttavia potresti esaltarlo come giusto e forte, come il saggio Lucilio celebrò il figlio di Scipione. Non verrò meno a me stesso proprio quando si presenterà l’occasione; le parole di un Flacco non giungeranno se non in tempo opportuno attraverso l’orecchio attento di Cesare che se tu lo palpeggi malamente, recalcitra sicuro da ogni parte. Quanto sarebbe più giusto questo, che offendere con versi mordaci il buffone Pantolato e il dissoluto Nomentano poiché ciascuno teme per sé sebbene sia non toccato e odia. Cosa potrei fare? Milonio balla appena i fumi del vino salgono al capo e il numero si aggiunge alle lampade ( cioè vede doppio); Castore piace ai cavalli, colui che è nato dallo stesso uovo gode del pugilato; quante teste vivono, altrettante migliaia di inclinazioni; mi piace combinare le parole in piedi alla maniera di Lucilio; superiore all’uno e all’altro di noi. Quello una volta affidava i suoi segreti ai libri come a dei fidati amici, non ricorrendo a qualche altro rifugio né se gli era capitato male né bene; del che avviene che la vite del vecchio sia manifesta tutta come se fosse dipinta in un  quadro votivo. Segno, costui , incerto se lucano o apulo, infatti il contadino venosino ara vicino all’uno e all’altro confine, mandato per questo, com’è antica fama, affinchè il nemico, scacciati i Sabini, non facesse impeto per un vuoto paese contro il Romano, sia che la gente apula, sia che la violenza lucana, suscitasse qualche guerra. Ma questo stilo non assalirà senza ragione alcun vivente e custodirà me come una spada coperta dal fodero; perché io tenterei di impugnare questa, sicuro dai ladroni infesti? O Giove, padre e re, che l’arma riposta possa perire per la ruggine né alcuno possa nuocere a me desideroso di pace! Ma colui che mi avrà provocato ( meglio non toccarmi, lo grido) piangerà e come famoso sarà schernito per tutta la città. Cervio irato minaccia le leggi e l’urna; Canidia minaccia a coloro ai quali è nemica, il veleno di Albuzio; Turio minaccia un grande male; se tu litighi per qualche cosa, essendo egli giudice. Apprendi con me così come ciascuno spaventi gli avversari, in cui è forte e come la natura potente comandi ciò; il lupo assale col dente, il toro col corno; donde fu mostrato se non dall’interno? Affida al dissipatore Sceva la madre longeva; la sua pia destra non farà nessun delitto ( cosa meravigliosa come né il lupo assale alcuno col calcio né il bue col dente) ma la cicuta cattiva, il miele essendo stato alterato ucciderà la vecchia. Per non farla lunga; sia che una tranquilla vecchiaia mi aspetti, sia che la morte mi voli intorno con le nere ali, ricco o povero, a Roma se la sorte avrà voluto così, esule, qualunque sarà il tenore della vita, scriverò: “ O figliolo, io temo che tu non abbia lunga vita e che qualche amico dei potenti ti  ferisca con un’accoglienza glaciale. E Che? Quando Lucilio osò per primo comporre versi per questo genere di lavoro e strappare la pelle con la quale ciascuno si aggirava in pubblico bellissimo, sebbene brutto di dentro; forse che Lelio, o colui che trasse da Cartagine sconfitta un soprannome meritato, furono offesi dall’indole o si dolsero essendo stato offeso Metello ed essendo stato bollato Lupo da versi famosi? Eppure attaccò i primi del popolo e il popolo tutto quanto, evidentemente favorevole alla sola virtù e agli amici di lui. Che anzi quando il merito di Scipione e la mite sapienza di Lelio si erano ritirati nella solitudine lontano  dalla scena del mondo erano soliti scherzare e giocare con lui liberi finchè i legumi si cuocessero. Qualunque cosa io sia, sebbene al di sotto degli averi e dell’ingegno di Lucilio, tuttavia l’invidia confesserà malvolentieri che io ho vissuto sempre coi grandi e mentre cerca di piantare il dente in una cosa fragile, urterà in una solida; a meno che tu, o dotto Trebazio, non dissenta in qualche cosa”

“ Eppure non posso cambiare nulla da qui. Ma tuttavia perché tu, ammonito, ti guardi affinchè l’ignoranza delle sacre leggi non ti arrechi per caso qualche molestia: se qualcuno avrà fatto contro qualcuno cattivi versi, vi è il diritto e il processo”

“Sia se qualcuno avrà fatto cattivi versi ma se qualcuno avrà fatto buoni versi, essendo giudice Cesare con lode? Se qualcuno avrà offeso uno degno di offese egli stesso puro? Le leggi si scioglieranno in una risata e tu andrai assolto.”

 

                                          Epistole

Libro I

4

O Albio, sincero giudice delle mie satire, ora che cosa dirò che tu fai nella regione padana? Devo credere che tu scrivi qualcosa che superi le operette di Cassio Parmense, oppure ti aggiri pensieroso tra le salubri selve, meditando ciò che è degno di un uomo virtuoso?  Tu non eri un corpo senza anima: gli dei ti concessero bellezza, gli dei ti diedero ricchezze e l’arte di usarle. Che cosa di più una nutrice potrebbe augurare al suo tenero figlioccio? Che possa essere saggio ed esprimere ciò che pensa e al quale tocchi in abbondanza favore, fama, buona salute e una vita comoda con la borsa sempre provvista. Fra la speranza e l’affanno, fra i timori e le ire, stima che ogni giorno sia spuntato ultimo per te; l’ora che non sarà aspettata, sopraggiungerà gradita. Quando vorrai ridere, verrai a visitare me, grasso e lucido con la pelle ben curata, come un porco del gregge di Epicuro.

 

5

Se, o Torquato, ti accontenti come mio commensale di sdraiarti su letti di Archia e non disdegni di fare un pranzo tutto di verdura in un piatto modesto, ti aspetterò in casa al tramonto del sole. Tu berrai vini travasati sotto il 2 consolato di Tauro tra la paludosa Minturno e Petrino di Sinnessa. Se hai qualcosa di meglio, falla portare oppure sottomettiti al mio comando. Già da tempo per te risplende il focolare e la lucidata suppellettile. Metti da parte le speranze vane e le lotte per le ricchezze e la casa di Mosco. Domani, giorno festivo per la nascita di Cesare, consente libertà e sonno; senza danno sarà possibile protrarre la notte estiva in piacevoli conversari. A quale scopo dovrei desiderare la fortuna se non è concesso servirsene? Colui che è parco per la preoccupazione dell’erede ed è troppo tirchio, è simile ad un pazzo. Io comincerò a bere e a spargere sul triclinio fiori e sopporterò persino di essere ritenuto pazzo. Che cosa non dissuggella l’ebbrezza? schiude i segreti, fa che le speranze siano paghe, spinge il pigro alla battaglia, toglie il peso agli animi solleciti, addestra alle arti. Chi non resero facondo i calici ricolmi,chi non fu liberato dagli affanni pur in una ristretta povertà? Io capace e non contro volontà, mi incarico di provvedere a queste cose, affinchè la coperta indecorosa e il tovagliolo sporco non ti faccia arricciare il naso, affinchè la coppa e il piatto ti rispecchino, affinchè non vi sia colui che vada divulgando fuori le cose dette tra amici fedeli, affinchè il simile sia insieme e si unisca al pari. Inviterò per te Butra,Septicio e Sabino se non li trattiene un precedente pranzo ed una fanciulla preferibile, vi è posto anche per più ombre; ma le fetide ascelle opprimono i banchetti troppo stretti. Tu scrivi in che numero vuoi che siate ed avendo trascurato gli affari, inganna per la porta posteriore il cliente che aspetta nell’atrio.

 

 XI

O Bullazio, che ti è sembrato di Chio e della famosa Lesbo, della elegante Samo,  di Sardi, reggia di Creso,  di Smirne e di Colofone? Maggiori o minori di quel che si dice? forse tutte quante insieme perdono ogni attrattiva in confronto del campo Marzio e del fiume Tevere? Oppure ti viene il desiderio di una delle città di Attalo? Oppure lodi Lebedo per odio verso il mare e delle strade? Tu sai che cos’è Lebedo: un villaggio più deserto di Gabi e di Fidene, tuttavia io vorrei vivere là e dimentico dei miei e degno di essere dimenticato da loro, guardare il mare infuriato da lontano, stando sulla terraferma. Ma né colui che da Capua si dirige verso Roma e intriso di pioggia e di fango vorrà passare la vita in un’osteria né colui che è intirizzito, loda i forni e i bagni come se rendessero la vita del tutto felice, né se uno scirocco furioso ti avrà sbattuto al largo, per questo venderesti la nave appena traversato il mare Egeo. Ad uno che è sano Rodi e la bella Mitilene fa lo stesso effetto di un tabarro nel solstizio d’estate e di un grembiulino quando è aria di neve, di un bagno nel Tevere nel cuore dell’inverno e di una stufa nel mese di agosto. Finchè è possibile e la fortuna conserva benigno il suo volto a Roma, siano lodate Samo, Chio e Rodi lontane. Qualunque ora fortunata ti avrà accordato il dio, tu accoglila con mano riconoscente e non rimandare i godimenti ad un tempo indefinito, sicchè in qualunque luogo tu sia stato, possa dire che sei vissuto piacevolmente : perché se la ragione e il senno sgravano gli affanni, non li sgrava il luogo che domina un mare che si apre alla vista per vasto tratto; mutano il cielo, non l’animo, coloro che scorrono i mari. Una smaniosa neghittosità ci travaglia: con le navi e con le quadrighe ricerchiamo una vita felice. Quello che tu ricerchi, si trova qui, si trova a Ulubra, se non ti manca l’animo equilibrato.