CALVINO

Italo Calvino

Nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba), il 15 ottobre 1923.

Il padre, Mario, agronomo, uomo molto austero e burbero, appartenente ad un’antica famiglia sanremese di tradizioni massoniche, dirige una stazione sperimentale di agricoltura.

La madre, Evelina Mameli, una sassarese austera e rigida, è ricercatrice di botanica.

I genitori, che si trovano nell’America centrale per lavoro, nel 1925 tornati in Italia, si stabiliscono a Sanremo.

Italo trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Sanremo, tra la stazione sperimentale di floricultura diretta dal padre “Orazio Raimondo” e la casa di campagna “La meridiana” in cui si sperimentavano coltivazioni di frutti esotici, tra cui “il falso pepe”.

Nel 1927 nasce il fratello Floriano, futuro docente all’università di Genova e geologo di fama internazionale.

Riceve un’educazione di stampo razionalistico e laico e frequenta anche le scuole valdesi.

Tra i 16 e i 20 anni scrive poesie ispirate dalla lettura di Eugenio Montale.

Nel 1941 consegue la licenza liceale, semplificata dalla sospensione degli esami di maturità a causa della guerra.

A Torino si iscrive alla facoltà di agraria dove insegna anche il padre. Continua la solida amicizia con Eugenio Scalfari, suo ex compagno di liceo.

Dopo alcuni esami abbandona la facoltà perché privo di interessi.

Nel 1943 si trasferisce a Firenze e alla fine di luglio brinda con gli amici alla notizia delle dimissioni di Mussolini.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si dà alla macchia col fratello per non essere arruolato nella repubblica di Salò.

Dopo la morte del giovane medico comunista Felice Cascione, si unisce alla seconda divisione d’assalto Garibaldi e per 20 mesi   combatte sulle Alpi Marittime.

I genitori vengono arrestati dai tedeschi; i fascisti a più riprese simulano la fucilazione del padre davanti alla moglie che però non cede alle SS.

Aderisce al Partito comunista durante il periodo della Resistenza e nel periodo postbellico svolge attività politica.

Comincia a scrivere, legandosi a Vittorini e alla casa editrice Einaudi.

Si iscrive a Torino al terzo anno della facoltà di lettere, usufruendo delle facilitazioni concesse ai reduci; si laurea discutendo una tesi su Joseph Conrad nel 1947.

Fa amicizia con Cesare Pavese, a cui, ogni volta che terminava un racconto chiedeva un parere.

Pavese, che insieme a Natalia Ginzburg, tentava di rimettere in auge la Einaudi, per non essere continuamente consultato dal giovane, gli suggerisce di dedicarsi ad un lavoro più lungo.

Calvino allora scrive “Il sentiero dei nidi di ragno” che è pubblicato da Einaudi nel 1947 (Premio Riccione).

Della casa editrice diventerà collaboratore stabile dopo il suicidio   di Pavese nel 1950.

Lì entra in contatto con molti intellettuali (Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Felice Balbo, Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Daniele Ponchiroli, Renato Solmi, Luciano Foà) e si appassiona a documentare le lotte sindacali e il lavoro in fabbrica.

Nel 1949 scrive Ultimo viene il corvo in cui fa palese il carattere misterioso e ineluttabile degli accadimenti.

Nel 1952 soggiorna per 2 mesi in Unione Sovietica, dando vita a una corrispondenza per l’Unità che gli vale il Premio Saint-Vincent.

Raggiunto dalla notizia della morte del padre,1951, gli dedicherà il racconto autobiografico “La strada di san Giovanni

Nel 1952 è inviato a Helsinki per seguire le Olimpiadi insieme a Paolo Monelli, cronista della Stampa.

Scrive “Le fiabe italiane” che usciranno nel 1956: comprendono 200 fiabe della tradizione popolare italiana trascritte dal dialetto delle varie regioni.   

Nel 1958 scrive due raccolte di Racconti, divisi in 4 libri: Gli idilli difficili, dedicati al mondo ligure della giovinezza; Le memorie difficili,

Gli amori difficili dedicati alle avventure di personaggi diversi, La vita difficile – che contiene 3 racconti ampi (La formica argentina, La speculazione edilizia, La nuvola di smog) basati su riflessioni sulla realtà sociale contemporanea.

 Nel 1960 raccoglie ne “I nostri antenati”, 3 racconti: Il visconte dimezzato, 1951, – Il barone rampante ,1957, – Il cavaliere inesistente, 1959.

Il titolo indica con chiarezza il rapporto che le vicende narrate hanno col presente quasi a definire l’albero genealogico dell’uomo contemporaneo. 

I tre protagonisti quindi possono essere letti come la rappresentazione allegorica di altrettanti modelli di comportamento umano e intellettuale riconoscibili nel mondo contemporaneo: un mondo in continua trasformazione, che non è più in grado di offrire spunti di riferimento stabili e rassicuranti. Esso perciò appare enigmatico, multiforme, labirintico in cui ci si può facilmente smarrire.

 In essi, insieme alla scelta di una invenzione libera, si unisce un atteggiamento morale che in un certo senso fa pensare alla favola morale ed ironica della letteratura illuministica.

Nel 1959 grazie alla Ford Federation visita gli Stati Uniti e definisce New York “la città che ho sentito mia più di chiunque altra. La amo e l’amore è cieco. In fondo, non si è mai capito bene perché Stendhal amasse tanto Milano”

Nel 1964 sposa Chichita a L’Avana. Il viaggio a Cuba gli permette di incontrare Ernesto” Che” Guevara.

L’anno successivo nasce la figlia Giovanna.

Resta nel partito comunista nonostante la rottura con molti amici tra cui Vittorini che poi nella collana Gettoni gli pubblicherà Il visconte dimezzato.

Comincia a trasferirsi a Roma e porta a termine la raccolta Le fiabe italiane.

Nel 1957 esce dal partito comunista.

Nel 1959 Vittorini lo chiama come condirettore della rivista Il Menabò, che si dedicava all’approfondimento di temi legati al rapporto tra letteratura e nuova società industriale.

Nel 1960 soggiorna per 6 mesi negli Stati Uniti e prepara un libro di riflessioni, Un ottimista in America, che ritira, giudicandolo poco interessante.

Nel 1963 scrive il racconto La giornata di uno scrutatore in cui espone il proprio punto di vista sulla crisi della cultura di sinistra postbellica.

Nel 1964 si stabilisce a Parigi (dove risiede fino al 1980) con la moglie Esther Judith Singer, detta Chichita, argentina ma di origini russe, interprete e traduttrice dall’inglese.

Nel 1965 pubblica le Cosmicomiche, nel 1967 Ti con zero, nel 1972 Le città invisibili, nel1973 Il castello dei destini incrociati.

Nel 1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore gli procura grande successo di pubblico.

Nel 1980 si trasferisce a Roma e pubblica Una pietra sopra, una scelta dei propri saggi.

Nel 1983 le prose di Palomar dimostrano una visione amara e disillusa della vita.

Nel 1984 la Harward University gli chiede di tenere un ciclo di lezioni sul ruolo della letteratura alla fine del millennio.

Colpito da ictus a Castiglione della Pescaia, è ricoverato all’ospedale di Siena dove muore per emorragia cerebrale tra il 18 e il 19 settembre 1985 lasciando incompiute Le Lezioni americane per la fine del millennio.

Ciò che contraddistingue l’opera letteraria di C. è la giusta commistione di dialettica costante di realtà – allegoria e di favola – realtà.

Comincia infatti a scrivere sotto l’egida della razionalità anche se fin dal I romanzo neorealista guarda alla realtà in modo del tutto personale, preoccupato essenzialmente di istanze di natura esistenzialistica non sociali né politiche.

Spinto dal desiderio di capire il perché delle cose e il comportamento dell’uomo nel disordine esistente e di far luce nel caos, introduce nella realtà storica un sapore di fiaba che diventerà il tema di fondo degli altri libri pur avendo sempre come base la realtà.

I nostri antenati, Il visconte dimezzato (viene introdotto il tema del conflitto insanabile tra il bene e il male presente in ogni uomo), Il barone rampante (incarna l’ideale di uomo e di intellettuale cui Calvino mirava), Il cavaliere inesistente ci richiamano alla memoria le limpide fantasie dell’Ariosto, pur se sono saldamente ancorate a concreti fatti storici quali la guerra contro i Turchi, la rivoluzione francese e il feudalesimo.

Il titolo sottolinea il legame che le varie narrazioni hanno col presente, essi costituiscono cioè i modelli di comportamento umano e intellettuale che si possono riscontrare anche nel mondo contemporaneo

 L’ultima produzione coincide col 4 tempo della sua scrittura quando Calvino definisce il proprio ruolo di intellettuale e di artista in funzione di una costante ricerca di ordine e di razionalità.

 I primi 3 tempi: neorealistico, fabulistico e semiologico gli avevano consentito una graduale presa di coscienza non solo delle sue capacità letterarie ma anche della sua forte disposizione ad osservare la realtà che viene trasfigurata in forma puramente descrittiva o in forma immaginativa e favolistica o in labirintica combinazione linguistica.

Il 4 tempo è religioso ed ateo insieme perché l’odissea del vedere si conclude con la certezza dell’assenza di Dio.

E’ fecondo come il primo ma più carico di tensione emotiva e più maturo perché più vicino alla vittoria finale dello scrittore-lettore sull’uomo.

Tale inclinazione alla ricerca dell’ordine e della razionalizzazione degli elementi è stata mantenuta intatta anche nelle 2 postume “Lezioni universitarie” e “Perché leggere i classici”.

Nella I Calvino, conservando l’attitudine che fu già del cavaliere inesistente dalla vuota armatura, di dare i nomi alle cose, ha voluto stabilire 6 proposte per la letteratura del prossimo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza: ciò per dare ordine alle operazioni di scrittura.

Nella 2 ha tentato di formulare un catalogo del “leggibile” cominciando da Omero proseguendo attraverso i classici amati fino a Raymond Queneau, di cui traduce uno dei testi più nuovi e divertenti, il romanzo “I fiori blu”

“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” organizzando una mappa per vivere leggendo.

Postume escono le raccolte di racconti Sotto il sole del giaguaro, 1986, La strada di S. Giovanni, 1990, Prima che tu dica pronto, 1993, e l’importante epistolario “I libri degli altri”, 1991.

Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno” guarda alla realtà in modo assai personale.

  Affronta l’argomento della lotta partigiana, vissuta in prima persona e trasferisce sulla pagina il fervore degli anni postbellici preoccupandosi solo di istanze di natura esistenziale, non sociali o politiche.

Infatti non ci vuole offrire un quadro celebrativo della Resistenza in quanto la vicenda della lotta partigiana è trasferita in un clima fantastico, di fiaba.

L’effetto è ottenuto presentando tutti gli eventi attraverso il punto di vista del bambino – protagonista Pin, un ragazzo di strada rozzo ed innocente, ribelle e scanzonato, cresciuto nei vicoli di Sanremo, precocemente smaliziato, ma che conserva l’ingenuità e lo stupore tipici dell’infanzia: ai suoi occhi il mondo adulto, i rapporti umani, la politica, la guerra, appaiono estranei, incomprensibili.

 Tramite lui Calvino vuole capire non la realtà sociopolitica ma il perché delle cose e del comportamento dell’uomo nel disordine esistente.

Vuole cioè ridurre il mondo circostante al livello di comprensione umana per far luce nel caos.

Non vuole una celebrazione agiografica del periodo o una grossolana mimesi linguistica né l’abuso del grezzo dato dialettale perché il suo è un approccio lirico e fantastico.

 Perciò si immerge nell’intrico delle foreste, che ritroviamo in quasi tutti i suoi racconti, servendosi solo della parola, e si muove da una simbologia a lui cara, quella del bosco, visto come metafora costante di ogni iniziale cammino letterario (vedesi l’esperienza dantesca e il suo smarrimento nella selva oscura) 

La chiave di tutto il romanzo è il ritrovamento di una pistola che il ragazzo considera quasi un oggetto dai poteri magici: nelle peripezie che egli affronta per nascondere l’oggetto, riposto dopo vari tentativi in un viottolo di montagna che Pin chiama “ sentiero dei nidi di ragno”, incontra e conosce una banda di partigiani alla quale si unisce e con la quale vive diverse avventure, pur non rinunciando alla sua fantasia ed innocenza di fanciullo.

Pin deve però prima confrontarsi con la Storia, col mondo degli adulti.

E’ triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre “un bambino trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e non poter usare quelle loro cose misteriose ed eccitanti, armi e donne, non potere mai far parte dei loro giochi”

In queste parole sono sintetizzati tutti i temi affrontati nel romanzo: Pin dentro una realtà che non riesce a comprendere fino in fondo, ma che tenta di avvicinare in modo spavaldo, cercando amici e compiendo azioni rischiose.

Il furto della pistola al tedesco che si intrattiene con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, è una sfida incosciente, compiuta per farsi accettare fra i grandi che lo deludono, costringendolo a rifugiarsi fra i suoi nidi di ragno. La pistola sarà in qualche modo il filo conduttore della narrazione come le donne, l’altra faccia dei grandi.

Pin conosce bene le donne anche se non riesce a comprenderle, tanto che le utilizza come griglia per giudicare gli amici.

Alla fine del romanzo c’è il dialogo fra Pin e Cugino, un partigiano che si rivela essere il grande amico.

Chieste notizie a Pin della Nera di Carrugio Lungo, Cugino si dirige dalla donna, ma non si ferma da lei, anzi, schifato, ritorna dal bambino.

Pin ormai si fida di lui e lo tiene per mano, in quella gran mano di pane e insieme parlano della sola donna che è stata capace di infondere loro amore, la madre di Cugino, la mamma per Pin.

La Resistenza per Pin è qualcosa di misterioso che si identifica per lui con persone dai nomi strani: Lupo Rosso, Cugino, Dritto, Mancino, Giglia, Pelle.

Tali personaggi vengono descritti puntando su qualche particolare caratterizzante, tratto comune a tutta la letteratura sulla Resistenza.

Il paesaggio descritto è quello della Riviera di Ponente, quello dei vicoli della Città vecchia, quello dei vigneti e degli uliveti sulle terrazze coi muri a secco, quello delle mulattiere che portano ai boschi, quello che va dal mare alle valli tortuose delle Prealpi liguri, non descritto in sé ma con e attraverso gli uomini che vi sono immersi, in modo antropizzato.

La lingua è una lingua – dialetto, scrittura ineguale, repertorio documentaristico – modi di dire popolari, canzoni- che arriva quasi al folklore.

Interessante il dibattito ideologico presente nel cap. IX tra il comandante Ferreira, un operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido, e il commissario Kim, uno studente che ha un desiderio e norme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s’affolla a ogni istante di interrogativi irrisolti.

 Le due figure incarnano l’uno l’immagine dell’operaio concreto, del rivoluzionario motivato da ragioni e classe e tutto d’un pezzo, l’altro, la lucidità intellettuale, l’esigenza di chiarezza, la necessità di una spiegazione della realtà in cui tout se tien anche se nella realtà restano poi degli spazi, delle zone, che richiedono una spiegazione più complessa.

Tramite i due personaggi Calvino cerca di spiegare la frattura tra la chiarezza con cui si presentano gli obiettivi di lotta agli operai e ai contadini e la necessità, invece, per gli intellettuali di educarsi alla realtà, di dare un senso e un significato preciso alle loro idee.

L’anello debole è rappresentato dal sottoproletariato, animato da furore di riscatto che, se esasperato, potrebbe far perdere l’obiettivo principe della lotta.  

 Pin è l’aiutante ciabattino di Pietromagro che passa metà dell’anno in prigione perché è nato disgraziato e quando c’è un furto nei dintorni viene sempre messo in carcere.

Una volta scarcerato, ritorna nella sua bottega e la trova aperta mentre una grande quantità di scarpe è sul pavimento.

Pietromagno allora picchia il ragazzino. Pin invece non è mai stato in carcere salvo per qualche scorribanda.

La sorella di Pin, Carolina, fa la prostituta e ogni 2 giorni si incontra con   un marinaio tedesco al quale Pin riesce a spillare una o più sigarette.

Il ragazzo poi nell’osteria incontra gli uomini del luogo da cui impara canzoni che trattano fatti di sangue. Egli non ha amici ai quali raccontare il posto dove i ragni fanno il nido o con cui fare battaglie con le canne perché è considerato amico dei grandi.

Una sera nell’osteria insieme alla sorella è accusato di far parte del fascio dato che Caterina frequenta il tedesco. Pin si giustifica dicendo che la sorella è come la Crocerossa e va con tutti mentre a lui interessano solo le sigarette.

A questo punto gli viene chiesto di rubare la pistola al tedesco.

Caterina vive in una camera sciatta; il padre dopo la morte della moglie è scomparso. Il tedesco gira in maglietta nella stanza mentre la pistola è appesa ad una sedia. Pin se ne appropria e ci gioca un po’.

Poi si reca all’ osteria per consegnarla ma gli uomini, vedendo che era un modello antiquato, ritengono che non valga la pena mettersi contro il tedesco.

Allora Pin, dopo aver sparato, nasconde la pistola nella tana di un ragno.

 I tedeschi durante il coprifuoco, vedendogli il cinturone, lo arrestano.

Al comando si incontra col marinaio e la sorella.

Alla domanda su come si sia procurato il cinturone, risponde vagamente e, prima viene frustato e poi imprigionato in una grande villa, dove incontra un prigioniero, Lupo Rosso, autore di vari attentati contro i tedeschi.

 Un altro prigioniero, Pietromagno, soffoca una sentinella e permette a Pin e Lupo rosso di scappare.

 Dopo la scomparsa di Lupo rosso, Pin incontra un uomo a cui, capendo di potersi fidare, racconta tutta la vicenda.

I due incontrano Mancino: egli informa il suo compagno, Cugino, che gli altri membri del distaccamento stanno per effettuare un’azione contro alcuni carri armati tedeschi.

 Arrivato all’accampamento Pin incontra Lupo rosso. Inseritosi nel gruppo canta insieme ai compagni canzoni di galera, di delitti, e quelle oscene apprese nell’osteria.

All’interno del gruppo c’è Pelle, un giovane introverso che narra storie con ragazze rapite e condotte nei campi.

Un giorno Duca torna all’accampamento e racconta che i fascisti hanno ammazzato suo cognato Marchese.

Allora i partigiani vanno a seppellire il compagno recando con sé 2 fascisti presi prigionieri alcuni giorni prima.

Da qualche tempo alcuni si accorgono che c’è qualcosa tra il comandante e Gilda, la moglie di Mancino. Dritto, dopo aver creato un fuoco che terrorizza i presenti, minaccia con la pistola chi cerca di fuggire ma poi si rende conto di aver commesso un errore.

Il nuovo accampamento è in un fienile dove Mancino si occupa di cucina e riprende spesso Pin che si imbambola a guardare le farfalle.

I partigiani discutono sui motivi della guerra.

Il comandante Ferreira, un operaio montanaro, e il commissario Kim giungono al decentramento di cui Dritto è responsabile.

Ferreira ha in mente la tattica di attacco contro i tedeschi mentre Kim cerca di dare una spiegazione razionale a tutto.

Saputo che i tedeschi stanno risalendo la valle, gli animi si galvanizzano per poi abbattersi saputo che Pelle li aveva traditi.

Il giorno dello scontro, Dritto decide di rimanere al casolare con Gilda.

e ordina a Pin di seppellire il falco di Mancino che era stato ucciso ritenendo che portasse sfortuna.

 Pin è spaventato dagli spari. Trovati i compagni li informa che la battaglia è iniziata.

Dopo estenuanti ore di cammino, la brigata giunge al passo della mezzaluna dove Pin Gilda e Dritto si ricongiungono con loro.

 Intanto passano altri distaccamenti: tra loro c’è Gian l’Autista, che li informa che gran parte dei giovani del Carruggio sono stati catturati e che Carolina è alle dipendenze delle SS.

Il distaccamento di Pin è assegnato ad un altro casolare. Lupo sopraggiunto, racconta dell’omicidio di Pelle. Poi giungono 2 uomini mandati da Kim che costringono Dritto a seguirli dopo averlo disarmato.

Pin, scappato dal distaccamento, incontra dei soldati tedeschi che evita fingendosi un pastore alla ricerca di una pecora smarrita.

Arrivato nel nido dei ragni, non trova la pistola: capisce che è stato Pelle.

Si reca dalla sorella Rina che gli cucina qualcosa e poi dice che le è stata regalata una pistola da un collezionista fascista.

Pin la riconosce come sua e fugge. Incontra Cugino e pensa di aver trovato un amico finché Cugino gli dice che vuole incontrare Carolina. Cugino va via ma torna poco dopo e Pin capisce che di lui si può fidare.

I due passeggiano a lungo tenendosi per mano.

Marcovaldo

Una prima serie di 10 racconti incentrati sulla figura di Marcovaldo, un uomo semplice e povero con una famiglia numerosa, appaiono ne “I racconti” del 1958.

Nel 1963 i racconti diventano 20;  in essi alla semplice opposizione città- campagna, subentra l’antitesi tra realtà tecnologico-consumistica  e forza dell’invenzione.

I racconti, apparentemente scritti per ragazzi, mettono in risalto la figura del protagonista, considerato l’ultimo esemplare di una generazione di “ingenui” che cerca con astuto candore la propria Arcadia in mezzo ad una città di “cemento e di asfalto”.

Le novelle sono ambientate in una città non precisata.

Il vero titolo del libro è: Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città” in quanto ogni novella è dedicata ad una stagione.

Marcovaldo è il protagonista strano di molteplici vicende eroicomiche e paradossali: sembra quasi che non sia nato per vivere in città perché egli cerca di trovare tra i mattoni e il cemento l’incanto della natura per convincersi che nella città ci sia ancora un po’ di vita.  

La novella “La pietanziera” è un recipiente rotondo e piatto in cui la moglie mette il pranzo che il marito deve consumare durante la pausa del lavoro.

Domitilla un giorno gli fa trovare salsiccia e rape che Marcovaldo non gusta; mentre cammina, decidendo cosa fare, un bimbo lo chiama da una finestra. E’ in castigo perché non vuole mangiare cervella fritte, mentre avrebbe preferito la salsiccia. Ha l’idea di scambiare le vivande ma la domestica fa gettare via al bimbo la salsiccia e si fa restituire il piatto da Marcovaldo che va via brontolando.

L’unica evasione da un’esistenza assai difficile per il protagonista è la sua passione per il cinema dato che il film sostituisce panorami stupendi arcobaleni colorati, paesaggi esotici alle sbiadite immagini di una grigia esistenza.

Marcovaldo al supermarket

“Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese; inquantochè il denaro, più ne circola, più chi ne è senza, spera: “Prima o poi finirà per passarne anche un po’ nelle mie tasche” Invece, a Marcovaldo, il suo stipendio, tra che era poco e che di famiglia erano in molti, e che c’erano da pagare rate e debiti, scorreva via appena percepito. Comunque era pur sempre un bel guardare, specie facendo un giro al supermarket. Il supermarket funzionava col sel-service. C’erano quei carrelli, come dei cestini di ferro con le ruote, e ogni cliente spingeva il suo carrello e lo riempiva di bendidio. Anche Marcovaldo nell’entrare prese un carrello lui, uno sua moglie e uno ciascuno i suoi quattro bambini.  E così andavano in processione coi carrelli davanti a sé, tra banchi stipati di montagne di cose mangerecce, indicandosi i salami e i formaggi e nominandoli, come riconoscessero nella folla visi di amici, o almeno conoscenti.” Papà, lo possiamo prendere questo?” chiedevano i bambini ogni minuto. “No, non si tocca, è proibito” diceva Marcovaldo ricordandosi che alla fine di quel giro li attendeva la cassiera per la somma…

Il visconte dimezzato

Siamo nel tardo ‘500. Il narratore è il nipote del protagonista, il visconte Medardo di Terralba. In seguito ad uno scontro nella guerra in Boemia contro i Turchi, il visconte viene diviso a metà da un colpo di cannone: il Buono e il Gramo.

Le 2 parti del corpo, vendono ritrovate, perfettamente conservate, in momenti diversi e restituite alla vita sociale: una parte torna a casa e si rivela cattiva: infierisce sui soldati e insidia la bella Pamela.

Dopo un po’ torna anche la seconda parte che è troppo buona e si prodiga per riparare al male compiuto dall’altra metà. Perciò chiede in sposa Pamela. Le due parti duellano per amore della donna e si feriscono sul punto di congiunzione che comincia a sanguinare; così vengono riattaccate da un medico e restituite alla vita.

 E Menardo diventerà giusto governatore delle sue terre.

Ci sono pochi personaggi; la trama, pur vertendo sul tema del bene e del male che coesistono in una persona, rappresenta la lacerazione interna dell’uomo che nel mondo contemporaneo sembra aver perso una parte di sé. Quindi è necessario ricomporre l’unità anche se lo scrittore pare divertirsi nel seguire le mille vicissitudini che incontrano le parti separate del visconte.

Il barone rampante

Il narratore, Biagio, è il fratello più giovane del protagonista, il barone Cosimo Piovasco di Rondò, vissuto nel 1767 a Ombrosa in Liguria che, all’età di 12 anni, per sfuggire all’ennesima punizione inflittagli dai suoi repressivi educatori (deve mangiare un piatto di lumache) decide di salire su un albero di elce, cercando di dimostrare che l’utopia è possibile e che si può vivere non sottostando a nessuna costrizione.

Biagio, invece, che è il trasferimento metaforico dello scrittore, rappresenta a sua volta colui che accetta le regole del vivere non tanto per viltà ma per lucida acquiescenza.

Cosimo trascorre sull’albero tutta la sua esistenza, tra lo scherno dei ragazzi, la curiosità delle donne, il disprezzo dei familiari, guardando dall’alto tutti gli accadimenti storici e culturali fino all’età della Restaurazione.

In particolare la Rivoluzione francese sta a sottolineare che i sogni di libertà del singolo devono sempre misurarsi con la storia, cioè con la violenza, che contamina anche il mondo della natura.

Il barone nel mondo aereo in cui abita, legge, si prende cura di animali e piante. Molti personaggi della cultura e della politica lo vanno a trovare e gli testimoniano la loro ammirazione per aver scelto di vivere in modo bizzarro e inusuale anche se giustificato dal desiderio di poter vedere meglio dall’alto ciò che accade nella terra.

Cosimo incontra Napoleone, diviene framassone, combatte la reazione gesuita. Ma ha anche modo di avere una storia d’amore con Viola, una donna volubile e capricciosa, che un tempo era stata sua compagna di giochi ed ora è solo attratta dalla strana vita del barone che giudica pazzo. Il rapporto infantile basato su contrasti e sfide, si trasforma in un legame amoroso complesso, fatto di passione travolgente e lotta tra due forti personalità, che talvolta sfocia anche in confronto dialettico tra i sessi.

Cosimo muore in tarda età senza mai scendere dall’albero, ma in punto di morte si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare attraversando il mare.

Il barone inventa una serie di strumenti pratici per vivere in quella sua strana condizione senza perdere il senso della realtà: infatti, pur rifiutando le regole e i costumi sociali del mondo contemporaneo, partecipa al desiderio di conoscenza e alla prospettiva di creare un mondo migliore.

Cosimo rappresenta perciò l’immagine dell’illuminista, dell’uomo di cultura che partecipa in modo ironico e distaccato agli avvenimenti storici che scorrono davanti a lui come apparizioni vane ed illusorie.

Perciò la decisione di vivere sulla cima degli alberi appare l’unica possibile forma di fedeltà di un modus vivendi libero e razionale.

A Cosimo cominciò a battere il cuore e lo prese la speranza che quell’amazzone si sarebbe avvicinata fino a poterla veder bene in viso, e che quel viso si sarebbe rivelato bellissimo. Ma oltre a quest’attesa del suo avvicinarsi e della sua bellezza c’era una terza attesa, un terzo ramo di speranza che s’intrecciava agli altri due ed era il desiderio che questa sempre più luminosa bellezza rispondesse a un bisogno di riconoscere un’impressione nota e quasi dimenticata, un ricordo di cui è rimasta solo una linea, un colore e si vorrebbe far riemergere tutto il resto o meglio ritrovarlo in qualcosa di presente.

E con quest’animo non vedeva l’ora che ella s’avvicinasse al margine del prato vicino a lui, ove torreggiavano i due pilastri dei leoni; ma quest’attesa cominciò a diventare dolorosa, perché s’era accorto che l’amazzone non tagliava il prato in linea retta verso i leoni, ma diagonalmente, cosicché sarebbe presto scomparsa di nuovo nel bosco.

Il cavaliere inesistente

Ha un taglio ironico e fiabesco calato in un ambiente medievale. E’ quasi una parodia dei romanzi cavallereschi, evidente nella descrizione dei cavalieri immobili nelle proprie armatura e soprattutto nella figura di Carlomagno rappresentato come un vecchio burbero e bonario, dal linguaggio meccanico e stereotipato.

Il racconto rivela chiaramente un intento allegorico, con allusioni al mondo contemporaneo e alla vita ripetitiva e standardizzata degli individui della società di massa.

Al tempo di Carlo Magno la monaca Teodora narra le avventure del cavaliere Agilulfo, di cui esiste solo un’armatura che si muove nel mondo animata dalla volontà e dalla fede ma che non riesce a rapportarsi con la realtà.

L’armatura agisce e combatte secondo il ruolo cavalleresco e la fede nella santa causa.

Durante l’assedio di Parigi da parte di Carlo Magno, Agilulfo, che si è fatto onore militando al servizio del re, decide di partire per trovare Sofronia, una fanciulla che circa 15 anni prima aveva salvato e nascosto in un convento.

 Lo accompagna lo scudiero Gurdulù, un sempliciotto che tende ad immedesimarsi con le cose che vede a tal punto che finisce col credere di essere una di esse.

Dopo molte peripezie inseguito da Bradamante, una guerriera che si è innamorata di lui, ritrova Sofronia ma, credendo che la donna si sia macchiata di orribili peccati, svestitosi dell’armatura, la abbandona a Rambaldo, suo compagno di armi innamorato di Bradamante che nella corazza bianca continuerà le gesta del cavaliere senza corpo.

 Bradamante alla fine si identifica con la monaca che, uscita dal convento su richiesta dell’innamorato, abbandonata la scrittura, a cavallo si avvia verso un futuro non decifrabile.

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di 3 ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo…. Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella… Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. “E chi siete voi, paladino di Francia?” “Salomon di Bretagna, sire!” rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato…

“E voi?”” Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una rughina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennacchio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra 2 lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri 2 lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. …

“Io sono – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez” …

“Aaah – fece Carlomagno…e perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso?” …

La voce uscì netta dal Barbazzale” Perché io non esisto, sire”…

 Agilulfo parve esitare ancora un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era dentro nessuno …

La giornata di uno scrutatore, 1963.

Abbandonata la tematica dell’impegno, Calvino narra in terza persona e in toni dimessi, la giornata di Amerigo Ormea, che opera come scrutatore durante le elezioni del 1953 in un seggio elettorale situato nell’Istituto Cottolengo di Torino, un ospizio per minorati.

 Il racconto, iniziato in forma di cronaca, si trasforma in riflessioni politico-filosofiche sul senso della democrazia e su quello della storia.

Turbato dall’ ambiente e dalle sofferenze che vede intorno a sé, il protagonista cerca di capire il senso dell’azione politica e sente la necessità  di un impegno che tenga conto del modus vivendi di tante persone sofferenti.

Le cosmicomiche, 1965

Si tratta di12 racconti, disposti in modo casuale. Nel rifiuto di ogni tono moralistico mira a suscitare serie riflessioni sulla condizione umana nei tempi moderni.

Le situazioni comiche scaturiscono dal confronto con ipotesi scientifiche sull’origine e il destino dell’universo.

Parte dal passato che precede la comparsa dell’uomo: i personaggi e le situazioni interpretano i vari scenari ipotizzati dalla scienza.

Sono personaggi impossibili le cui storie sono affidate al vecchissimo Qfwfq, un uomo assai qualificato in quanto ha avuto la possibilità di passare attraverso tante situazioni cosmiche che però non si sono mai realizzate.

Il “comico” scaturisce dal rapporto contrastante tra il mondo ipotizzato

 e gli oggetti più elementari e banali del nostro vivere quotidiano.

Non si tratta di veri e propri racconti di fantascienza in quanto sono incentrati sul passato raccontato a mo’ di fiaba e ogni fiaba trasforma in racconto una ipotesi scientifica.   

Ti con zero,1967

In Ti con zero si analizzano le possibilità in ambito spazio temporale che ha una persona che scaglia una freccia contro un leone che sta per avventarsi contro di lui.

 Priscilla è incentrata sulle forme di vita nel protozoo.  L’inseguimento e Il guidatore notturno evidenziano come la vita contemporanea sia un susseguirsi di presenze vuote in un mondo astratto: sono riflessioni dell’autore sulla irrazionalità dell’oggi.

 Il conte di Montecristo, traendo spunto dal romanzo di Dumas,

parla di prigionieri che cercano di studiare un piano di evasione da una fortezza, partendo dal presupposto che innanzitutto si deve capire come sia fatta la prigione – cosa spesso non realizzabile data la scarsa conoscenza della struttura della fortezza.

Nel 1969 scrive Calvino “Il destino dei destini incrociati, Il mazzo visconteo di Bergamo, New York.

Compone poi un altro testo facendo uso delle carte dei tarocchi di Marsiglia che risalgono al settecento: La taverna dei destini incrociati.

Sia il castello che la taverna vengono poi raggruppati nel 1973 ne “Il castello dei destini incrociati”.

Durante i loro viaggi alcuni viandanti giungono in un castello, nel secondo brano, invece, in una taverna.

Dato che i personaggi sono muti, per comunicare ricorrono a un mazzo di tarocchi. Seduti intorno ad un tavolo, facendo tesoro del significato di alcune carte dei tarocchi disposte in modo da formare specifiche sequenze significative, raccontano storie diverse.

Nel castello dispongono le carte sotto forma di quadrato da cui fanno scaturire molteplici storie.

Nella taverna costruiscono un quadrato di 78 carte e le storie che vengono narrate hanno apporti delle fiabe, dei romanzi, delle situazioni ariostesche.

Le narrazioni di ciascun personaggio sono inglobate in uno schema che le comprende tutte: questo è il messaggio dell’autore che gioca con i racconti allo stesso modo in cui i narratori giocano con le carte.

Il messaggio è scelto ancora una volta all’interno della letteratura cavalleresca, in particolar modo ad Ariosto, considerato un modello perché è riuscito a far convivere fantasia e ragione.

Viene così evidenziato il fatto che l’intrico palesa i segni inesorabili del destino e ogni cosa che si rovescia nel suo contrario; si dimostra come l’esistenza sia condannata a ruotare in continuazione finché non si perde in questa infinita serie di combinazioni.

…La figura del Re di Spade che tentava di rendere in un unico ritratto il suo passato bellicoso e il melanconico presente fu da lui avvicinata al margine sinistro del quadrato, all’altezza del Dieci di Spade. E subito i nostri occhi furono come accecati dal polverone delle battaglie, udimmo il suono delle trombe, già le lance volavano in pezzi, già i musi dei cavalli scontrandosi confondevano le schiume iridescenti, già le spade un po’ di taglio un po’ di piatto battevano un po’ sul taglio un po’ sul piatto d’altre spade, e dove un cerchio di nemici vivi saltava sulle selle e al ridiscendere non trovava più i cavalli ma la tomba, là al centro di questo cerchio era Orlando paladino che mulinava la sua Durlindana. L’avevamo riconosciuto, era lui che ci raccontava la sua storia tutta a strazi e a strappi, premendo il pesante dito di ferro su ciascuna carta.

Ora indicava la Regina di spade. Nella figura di questa donna bionda, che in mezzo alle lame affilate e alle piastre di ferro affaccia l’inafferrabile sorriso d’un gioco sensuale, noi riconoscemmo Angelica, la maga venuta dal Catai per la rovina delle armate franche e fummo certi che il conte Orlando ne era ancora innamorato…

Le città invisibili

Il libro, che fece la sua prima comparsa nel novembre del 1972, nasce tra una tensione tra il gioco delle combinazioni e la ricerca della realtà: segna una svolta in direzione di una maggiore cura strutturale e formale.

Sono 18 dialoghi distribuiti in 9 capitoli che riportano la descrizione di 55 città distinte in 11 tipologie differenti che ruotano in un criterio sottile

di modelli matematici, metrici, ecc.

Non è facile stabilire dove si svolgono i fatti perché le città descritte non hanno una collocazione precisa, in quanto albergano nella mente di ognuno di noi.

 L’autore immagina che tali città siano raccontate da Marco Polo, mentre si trova alla corte del Gran Kublai.

Sono descritte le città più strane con le caratteristiche più disparate: ci sono città in cui gli uomini non si conoscono, città che non si sa dove iniziano e dove finiscono, città nelle città, ecc.

Tutte queste città, quasi inserite in una cornice ben delineata, nascono purtroppo, dalle fantasie che scaturiscono dalla mente di Marco Polo dopo le sue ambascerie e sono il resoconto che lui fa all’imperatore Kublai Kan.

 Tra le varie descrizioni vengono inseriti brani in corsivo in cui vengono riportati i colloqui tra Marco e l’imperatore. essi potrebbero dare delle basi per interpretare i possibili significati della narrazione.

L’imperatore, data la vastità del suo impero non riuscirà mai a vedere ciò che Marco descrive ma anche lo stesso Marco non parla per vera conoscenza dei luoghi descritti che sono per lo più frutto della sua immaginazione e che forse scaturiscono dal modello della sua città di origine, Venezia.

 E tuttavia le sue descrizioni, pur frutto di immaginazione, contengono segni riconoscibili ed inequivocabili di ciò che ci circonda: le città industriali, il caos attuale, ecc.

La morale, scevra da ogni ottimistica illusione, è che non è possibile costruire una città perfetta.

 Ogni città ha dei particolari di altre città e sembra che queste siano tutte uguali o somiglino a Venezia, città natale di Marco.

Ogni città è un luogo di incontro e di scambio economico, morale e culturale. Il libro è molto suggestivo, ci fa sognare ma anche capire come spesso nella quotidianità non rivolgiamo la dovuta attenzione a ciò che ci circonda.

L’autore infatti, che ha costruito il libro secondo una struttura quasi matematica, in una prosa nitida e ferma, vuole soffermarsi sul fatto che le città non sono solo costruzioni di cemento ma sono depositarie di memorie, di affetti, di cultura, di tradizioni e che senza di esse, forse, non esisteremmo neppure noi.   

Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979

C’è nel testo un gioco virtuosistico, ricco di sorprese in quanto il lettore diventa protagonista: a lui l’autore si rivolge direttamente.

 Il lettore durante la lettura si accorge che il testo di cui dispone contiene solo 16 pagine più volte ripetute; cerca il resto del libro e trova 9 altri inizi di romanzi diversi.

In ciascuno sono riportati generi tipici della narrativa contemporanea: ciò costituisce dei veri e propri racconti sospesi caratterizzati da varietà stilistica ma precisa unità tematica.  

In ciascuno appare un personaggio maschile che si sente preso in trappola da irriducibili nemici.

Si incontrano vari tipi di lettori: Lotaria, sorella di Ludmilla, cerca nella lettura dei libri soltanto una conferma alle proprie convinzioni ideologiche; Irnerio, si serve dei libri per polemiche tra studiosi di lingue morte; Dottor Cavedagna, un assiduo lettore che mette il Lettore e la Lettrice sulla strada di un intrigo al cui centro c’è Ermes Manara, un misterioso traduttore.  

Durante l’iter il lettore si imbatte nella lettrice Ludmilla con la quale   alla fine si sposa.

Tra i vari romanzi il lettore incontra il vecchio scrittore Silas Flannery che in crisi di identità si è rifugiato in Svizzera.

E’ l’alter ego di Calvino e nel suo diario offre riflessioni sulla scrittura e sull’importanza data agli “inizi”.

Ma il rapporto col lettore sembra lanciare il messaggio che esistono varietà di linguaggi e libri tra i quali è difficile orientarsi; si pongono anche interrogativi sulla letteratura e sulla vita.

Calvino svela al lettore reale le tecniche e i trucchi, non privi di raffinatezza, usati nella strutturazione del libro. Tra questi la cornice in cui l’autore espone la propria idea di scrivere un romanzo costituito solo di inizi di romanzi.

La struttura geometrica è costituita da 12 capitoli seguiti, ad eccezione degli ultimi due, da un romanzo diverso: i dieci romanzi citati hanno per titolo dei segmenti di frasi che, letti in modo continuativo, formano una poesia.  

Il libraio non si scompone.” Ah, anche a lei? Già ho avuto diversi reclami. E proprio stamattina m’è arrivata una circolare della casa editrice. Vede? – Nella distribuzione delle ultime novità del nostro listino, una parte della tiratura del volume se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino risulta difettosa e deve essere ritirata dalla circolazione. Per un errore della legatoria, i fogli di stampa del suddetto volume si sono mescolati con quelli di un’altra novità, il romanzo polacco Fuori dell’abitato di Malbork di Tazio Bazakbal. Scusandosi dell’increscioso contrattempo, la casa editrice provvederà al più presto a sostituire le copie guaste, eccetera-

Mi dica un po’ se un povero libraio deve andarci di mezzo per le negligenze degli altri. E’ tutta la giornata che diventiamo matti. Abbiamo controllato i calvino a uno a uno. Un certo numero di buoni ci sono, per fortuna, e possiamo subito cambiare il Viaggiatore avariato con uno in perfetto stato e nuovo di zecca”…

In Palomar, del 1983, suo ultimo romanzo di natura autobiografica, c’è il racconto di una terza persona esterna che riporta le riflessioni di un certo signor Palomar: il personaggio scopre che l’eccesso della visione del reale porta ad un implacabile vuoto della visione stessa.

 Il mondo gli appare un vasto teatro senza regia sul quale l’io non può influire; perciò si deve convincere che dopo la morte tutto continua anche senza di noi.

Il signor Palomar, convinto che la vita è un insieme chiuso, dichiara che d’ora in poi farà finta di essere morto.

Il libro è organizzato con perfetto gioco numerico: 18 pezzi inseriti in 3 gruppi. – La vacanza di Palomar, Palomar in città, I silenzi di Palomar – che vengono inseriti in 3 sottogruppi.

Il nome dà adito a diverse allusioni anche se in primis coincide col nome di celebre osservatorio astronomico che sta ad indicare l’attitudine ad osservare il parziale e il minimo.

Palomar è il rappresentante dell’intellettuale che può capire la realtà solo ponendosi ai margini di essa. Ciò costituisce un’ultima prova di resistenza critica rispetto ad una realtà incoerente.

Calvino da cavaliere errante diventa un moderno signor Palomar che non è riuscito secondo le sue intenzioni ad assegnare un posto nella logica al “meraviglioso”.

 La morte del personaggio è una sconfitta ma solo dello sguardo che non può più esercitare la sua soggettività mentre continua invece l’odissea del linguaggio.

Infatti con Palomar lo scrittore ha esercitato fino in fondo la sua capacità classificatoria ad elencare gli oggetti anche se si è arrestato sulla sponda del pensiero, rendendosi conto di non poter intervenire nell’universo per mutarlo.

Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, 1987

Le lezioni sono dirette a un pubblico di studenti. Delle 6 lezioni programmate ne portò a termine solo 5: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità.

Calvino si interroga sulla possibilità di sopravvivenza che hanno le varie categorie testuali della letteratura sul futuro.

Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso di aver più cose da dire. …In questa conferenza cercherò di spiegare -a me stesso e a voi- perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro.

Comincerò dall’ultimo punto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo di immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle.