PAVESE

BIOGRAFIA

Nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe Cuneesi , dove la  famiglia, di origini contadine,trasferitasi a Torino per permettere al padre di lavorare come cancelliere, trascorreva le vacanze.

Era  l’ultimo di 5  figli ( di cui 3 morti in tenera età)  dopo la sorella Maria , di 6 anni più grande.

Perduto a 8 anni  il padre  per una malattia inguaribile, crebbe sotto   l’influenza della madre, che  proveniva da una ricca famiglia di commercianti vercellesi.

La donna energica, severa , autoritaria, di poche parole,  non riuscì a far superare al figlio l’indole timida ed introversa nè la sua fragilità psicologica ed egli divenne sempre più taciturno e scontroso.

Col passare degli anni i  rapporti tra i due  divennero sempre più freddi.

In ciò potrebbe ricercarsi  la causa prima della misogenia  del giovane e il suo ricercare nella natura  l’unica risposta al  desiderio di  solitudine..

Dopo le elementari presso l’istituto privato “Trombetta”, frequentò a Torino il liceo D’Azeglio sotto la guida  dello scrittore antifascista Augusto Monti,  amico di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.

Cominciò  allora   a conoscere la città ( che diventerà  uno dei  temi  ricorrenti nei suoi scritti), descritta  talvolta   con una vena di tristezza  e di malinconia  per la nostalgia della  campagna ormai perduta, ma più spesso  vista come  caotica e  movimentata.

Pian piano, però,   si accorse che la città presentava alcune analogie con la campagna:  infatti anche nelle periferie regnavano  la fatica e la miseria –  un  tempo considerate  prerogative esclusive della campagna –  e gli operai  all’uscita delle fabbriche, indossavano vestiti laceri e  rattoppati simili  a quelli dei contadini di S.Stefano.

Ma anche  se la città contribuì alla sua formazione e gli fece contrarre delle amicizie,  non riuscì   però, a comunicargli il coraggio necessario per  farlo partecipare, in seguito, da protagonista alla lotta contro il fascismo – nonostante la sua intima avversione alla stessa ideologia.

Iniziò ad interessarsi più assiduamente allo studio e ad appassionarsi  alle letture di D’Annunzio.

L’ amicizia con Mario Sturani, dal  carattere socievole ed estroverso, influirà positivamente sull’indole introversa dello scrittore.

Nonostante Sturani frequentasse un altro ordine di studi, l’ amicizia continuò e Pavese mantenne con lui uno scambio epistolare dal quale traspare  l’incupimento del suo stato d’animo, una sorta di “ pavesismo”  come è stato definito da Davide Lajolo, suo biografo.

Importante  fu anche il rapporto con il professor  Monti  a cui Pavese sottopose i suoi primi racconti.  Monti,  che al termine degli studi liceali cercava di mantenere i contatti con gli ex allievi,  rimprovererà al giovane  il dannunzianesimo e la fine suicida dei vari personaggi.

Ma Pavese, pur accettando la critica su D’Annunzio, affermò che il  suicidio  era   indispensabile alla completa riuscita della narrazione, anche se si rese conto  – e ne rimase sconcertato – di aver proiettato le proprie angosce nelle varie narrazioni.

La sua prima delusione sentimentale, risalente a questi anni,  costituirà nel tempo  per lui l’inutile attesa della donna come figura liberatrice.

Un altro choc fu  la tragica morte del compagno di scuola Baraldi che, giovane  apparentemente fortunato con le donne, si uccise per amore.

Si laureò  a pieni voti nel 1932 in Lettere con una tesi sul poeta Walt  Whitman.

Il lavoro, che risentiva fortemente dell’estetica crociana, alimentò  con Elio  Vittorini  il “ mito dell’America”, come paese  della libertà e dell’individualismo.

All’inizio la tesi fu respinta per le implicazioni politiche  che comportava  in un’Italia fascista, ma grazie all’interessamento di Leone Ginzburg,  Pavese riuscì a  conseguire la laurea.

Dopo aver insegnato per qualche tempo in scuole private e serali – non gli fu possibile partecipare ai concorsi pubblici a causa della mancata iscrizione al partito fascista – cominciò la sua attività presso la casa editrice Einaudi, di cui sarebbe diventato uno dei principali collaboratori e animatori.

Nel frattempo si era dedicato con successo alle prime traduzioni di scrittori  americani ( Sinclair Lewis, Melville,  Sherwood Anderson, Stein Faulkner ) e   inglesi (Defoe, Dickens, Joyce)  e aveva collaborato  alla rivista “ Cultura” , di cui divenne direttore responsabile  nel 1934 (dopo l’arresto di Ginzburg, uno degli esponenti  del movimento Giustizia e Libertà  che, fondato in Francia dai fratelli Carlo e Nello Rosselli, fu  poi soppresso dal governo fascista nel 1935)

Attraverso le traduzioni si sforzò di trovare un linguaggio nuovo per la prosa italiana. Nello stesso anno,  trovato in possesso di alcune lettere compromettenti, pur non appartenendo al movimento antifascista , fu condannato a 3 anni di confino a Brancaleone Calabro.

Le lettere dal confino, ritenendosi vittima  sacrificale di un’inspiegabile ingiustizia, lo mostrano passivo e accidioso.

Da questa esperienza nascerà il racconto  Il carcere, proiezione autobiografica  della permanenza al confino, e l’inizio di  un diario , “ Il mestiere di vivere”, terminato  poco prima di morire con le parole “ Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più” e  pubblicato postumo nel 1952.

In seguito ad un condono  l’anno successivo poté tornare a Torino  dove venne a sapere che la donna da lui amata “la donna dalla voce rauca”, si era sposata con un altro.

Ciò sconvolgerà la sua esistenza e nella narrazioni  successive, pur cercando rifugio nei miti,  rappresenterà le figure femminili con una punta di disprezzo  e di sofferenza.

 

L’insuccesso di Lavorare stanca, una raccolta di poesie della fine del 1936,  acuì il suo senso di frustrazione.

Decise allora  di passare  alla prosa  per poter esprimere al meglio le proprie inquietudini interiori.

Alla fine del 1943, per sfuggire ai bombardamenti su Torino,  si rifugiò  a Serralunga di Casal Monferrato dove si trovava la famiglia della sorella, guardando con un senso di smarrimento e di amarezza i tragici eventi  della Resistenza..

In tale periodo di profonda crisi cominciò a riflettere sul significato del mito, della religione, della cultura classica.

Tali riflessioni troveranno riscontro nel racconto La casa in collina scritto tra il ’47-48.

Dopo la liberazione si iscrisse al partito comunista e scrisse articoli riguardanti il rapporto intellettuale – società e nel ’46  Il compagno, un romanzo a sfondo politico.

Fu questo il periodo più fecondo della sua attività: pubblicò la maggior parte delle sue opere ed ebbe i primi consensi di critica e pubblico.

Realizzò una collana di studi etnografici, antropologici,” la collana viola” (dal colore della copertina) diretta dall’etnologo Ernesto De Martino,  e psicanalitici all’interno dell’Einaudi,  dando vita ( attraverso la pubblicazione di scritti di  Carl Gustav Jung, Vladimir Propp,  James George Frazer)  alla conoscenza delle  nuove discipline  che si stavano imponendo a carattere internazionale .

Ma un’altra delusione amorosa lo stremò: il rapporto con l’ americana Constance

“ Connie” Dowling, una giovane attrice, giunta a Roma  dal richiamo  del nuovo cinema realista di Rossellini e di De Sica, andò in fumo.

Nella lettera d’addio Pavese  scriverà “ la porta della prigione è tornata a schiudersi di schianto”; alla donna si ispirano i versi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Pur avendo ricevuto nel 1950  il Premio Strega per La bella estate, , il 27 agosto dello stesso anno  si uccise in un albergo di Torino, lasciando scritto sul frontespizio di una copia dei Dialoghi con Leucò il seguente messaggio:

Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate molti pettegolezzi”

 

Pavese nel clima teso del fascismo e del dopoguerra rappresenta in maniera emblematica l’intellettuale che si fa promotore di cultura e di coscienza civile.

Quest’impegno, tuttavia, non cancella una personale dimensione esistenziale di dolore di cui il suicidio è il drammatico epilogo.

Nella produzione in prosa si possono rintracciare i principali motivi ispiratori: il richiamo all’infanzia, l’intimismo, l’impegno, il mito,  che,  riconnettendosi alla iniziale condizione  di sradicamento dalla propria terra, provocano  una scissione interiore:   Pavese, interrogandosi  sul ruolo dell’uomo di cultura, ne denuncia i limiti pur  cercando  una tensione ad agire negli impulsi acquisiti nell’infanzia.

Nel continuo scavo interiore, però, affiorerà –  confermando la tragicità del destino umano –  la  consapevolezza  che anche ciò che era rimasto intatto nella memoria è morto.

Questi temi, oltre che nei romanzi,  trovano spazio anche nella produzione poetica che,  in un clima di trionfo dell’ermetismo, sceglie invece la dimensione realistica del racconto.

La poesia, infatti,  si distende  con ritmi lunghi e lenti  in un linguaggio parlato capace di riflettere la complessità del quotidiano, contro le raffinate analisi interiori proprie dei  contemporanei.

 

LE OPERE

Lavorare stanca, raccolta  del 1936, stampata per le edizioni di Solaria:  risente dell’influsso  dello scrittore americano  Walt Whitman.

La poesia, modulata sull’esametro omerico,  cerca di essere nel contempo realistica e simbolica;  diversamente dagli scrittori ermetici,  Pavese utilizza    un “ verso lungo”, una poesia – racconto  e   un  lessico semplice, concreto, privo di aulicità .

Sono  presenti i temi tipici della narrazione successiva: il ritorno alle origini, l’amore e l’attaccamento alla propria terra, il rapporto città – campagna ( in cui    la città assume i contorni della frustrazione e dei tormenti interiori mentre  la campagna  è il desiderio di un ritorno all’infanzia).

E’ divisa in 6 sezioni:

Antenati –  tema è la campagna con i suoi riti antichi e ripetitivi di

fatica e violenza.

Dopo –    sullo sfondo di colline, mare e città,  si innestano  figure femminili e  una

visione della vita  priva di illusioni.

Città in campagna  –  motivi cittadini e rurali ma anche  di esclusione

esistenziale,  di maternità,  di donne rabbiose e impulsive.

Legna verde –   lotte operaie e  periodo di prigionia al confino.

Paternità –   motivi della solitudine e della nostalgia.

 

Lavorare stanca

Traversare una strada per scappare di casa

lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira

tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo

e non scappa di casa

 

Ci sono d’estate

pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese

sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge

per un viale d’inutili piante, si ferma.

Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?

Solamente girarle, le piazze e le strade

son vuote. Bisogna fermare una donna

e parlarle e deciderla a vivere insieme.

Altrimenti, uno parla da solo. E’ per questo che a volte

c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi

e racconta i progetti di tutta una vita.

 

Non è certo attendendo nella piazza deserta

che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade

si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,

anche andando per strada, la casa sarebbe

dove c’è quella donna e varrebbe la pena.

Nella notte  la piazza ritorna deserta

e quest’uomo, che passa, non vede le case

tra le inutili luci, non leva più gli occhi:

sente solo il selciato, che han fatto altri uomini

dalle mani indurite, come sono le sue.

Non è giusto restare sulla piazza deserta.

 Ci sarà certamente quella donna per strada

che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

 

Paesi tuoi  – del 1941 –    risente delle traduzioni a cui lo scrittore  stava lavorando in quel periodo ( Faulkner e Melville), tanto che la campagna piemontese assolata e densa di sesso e di sangue ,  a molti è sembrata un Piemonte americanizzato.

Anche l’impronta stilistica e linguistica pare sintatticamente ispirata a modi popolareschi  e dialettali tipici di alcuni scrittori “ in gergo” nordamericani.

Il romanzo, che ebbe una certa risonanza, diventò uno dei modelli della narrazione neorealistica a sfondo sociale e documentario .

L’opera si presenta come una novità  per l’aspetto linguistico caratterizzato dall’uso del  monologo interiore e dalle  frequenti inflessioni dialettali, dalle tinte forti, violente  e crude  con cui vengono  descritte le scene di  sesso e di  sangue.

In realtà  il rude linguaggio, alla luce di tutta l’opera, ha  un’aderenza  e una necessità fantastica.

Secondo Contini, infatti,  c’è una forte carica simbolica, rappresentata dal conflitto antropologico tra due tipi di cultura ( città – campagna)  e dalla tensione drammatica tra eros e  violenza, presentati con un rituale quasi magico.

Dopo essere ritornato alcune volte a S. Stefano ed aver parlato con l’amico Scaglione, che gli aveva presentato la nuova e misera situazione del suo paese, intrisa di sofferenze e di torbidi contrasti familiari, Pavese sentì il bisogno di riprodurre il medesimo quadro in questo romanzo, il cui  motivo conduttore è sempre autobiografico.

Nel romanzo oltre al clima di aperta denuncia sociale e politica,  si nota un certo  disprezzo verso le donne, anche se attutito dalla pietà.

Berto, infatti,  incontra donna abbrutite dal lavoro dei campi che vengono continuamente maltrattate  dai loro uomini: l’unica a conservare ancora la propria femminilità è Gisella che, però,  pagherà con la vita i sentimenti incestuosi che il fratello nutre nei suoi confronti.

Berto, un meccanico torinese  – che racconta la storia attraverso il suo punto di vista -e Talino, un contadino accusato di aver incendiato una casa,  escono dal carcere ( in cui sono rinchiusi anche  operai e contadini, la cui sola colpa è unicamente quella di aver abbandonato il paese per la città).

In un primo momento Berto riesce a liberarsi del suo ex compagno di cella ma poi accetta di seguirlo  e di lavorare al servizio del padre di Talino e di  occuparsi  della trebbiatrice durante la mietitura.

Il mattino seguente i due partono per il paese. A Bra si fermano per cambiare il treno ma perdutolo, decidono di fare un giro.  Così Berto, meccanico di città,  comincia a farsi un’idea più realistica del paesaggio circostante e  del mondo patriarcale della campagna.   Talino incontra un conoscente  con cui  parla dell’incendio che lo aveva portato dietro le sbarre.  Arrivati a destinazione, Talino presenta Berto alla sua famiglia: il padre, Vinverra, la madre e le figlie: Adele, la maggiore, sposata con un figlio, Miliota e Gisella.

Dopo che Vinverra mostra a Berto una vecchia macchina agricola, ferma da un anno,   tutti cenano in uno stanzone simile ad  una buia cantina e poi vanno a dormire.

Il mattino seguente Berto,  messosi  d’accordo col vecchio sulla paga, apporta alcune riparazioni alla trebbiatrice:  si  rende così  conto che il lavoro è molto più oneroso del previsto  e che il padre – padrone lo ha ingannato.

Il giorno stesso  con Talino   va a Monticello e cerca  di far chiarezza sull’incendio della “ Grangia”.  Tornati al paese, Berto si ferma a parlare con Gisella, la più giovane delle sorelle.  Sapendo di piacersi,  i due si danno appuntamento vicino ad una vecchia cisterna, ma a causa della presenza di  Talino  l’appuntamento salta. Tra Talino ( che ha violentato nel passato la sorella) e Gisella continuano i contrasti mentre Berto, sempre più innamorato della fanciulla, riesce finalmente a passare un pomeriggio solo con lei: i due vanno in un posto  dove si divertono giocando e parlando.

Dopo cena continuano i litigi tra Talino e Gisella a causa dell’incendio della

“ Grangia”.  La domenica mattina Berto decide di andare al paese senza aspettare l’amico che si è mostrato reticente  sulle modalità dell’incendio.

Tornato alla cascina, Berto si rimette al lavoro. Gisella porta da bere a lui  e agli altri lavoranti nei campi.  Ad un certo punto  Talino, folle di gelosia,  mette  la faccia nel secchio dell’acqua da bere; rimproverato dalla sorella,   le ficca un tridente in gola e poi scappa. Nel frattempo il prete si reca a casa di Vinverra per portare l’estrema unzione alla ragazza.

Gisella muore e Berto chieste le 15 lire di paga come macchinista  decide di fuggire da  quel mondo così meschino.

 

Talino  aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo…sentiamo Gisella che gorgoglia – Madonna – e tossisce e le cade il tridente dal collo. Mi ricordo  che tutto il sudore mi si era gelato addosso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che  Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva , tutta sporca di sangue, e Talino era sparito. Vinverra diceva “ d’un cristo, d’un cristo” e corre addosso ai due e nel trambusto la lasciano andar giù come un sacco, a testa prima nel fango. “ Non è niente, – diceva Vinverra – , è una goffa, alzati su – Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe , e la portiamo contro il grano e non potevo  guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva più la ferita. Poi arrivano le sorelle…e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta…Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci dice di non guardare..cominciarono a tremarmi i denti…le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta…

 

La bella estate – pubblicato nel ‘ 49 –  rappresenta la crisi di una borghesia priva di certezze e di ideali; predomina  la città di Torino mentre la campagna, descritta come un Eden , diventa il simbolo di un’innocenza perduta.

Ginia,  giovane operaia, giunge in città col fratello. Tramite l’amica Amelia , una modella, conosce il pittore Guido. Pur consapevole che l’uomo non l’ama, gli si concede con entusiasmo giovanile. Ma il periodo dell’incanto finisce presto e la giovane si ritrova  sola e sfiduciata.

Scritto nel 1940, presenta una misogenia  sottile: la condanna che lo scrittore  aveva pronunciato verso le donne di campagna si riversa anche su quelle di città.

Sono contrapposte, tra le altre, due donne: Ginia, ingenua e sentimentale, e Amelia, che, pur corrotta moralmente e psichicamente, non prova vergogna né soffre per la propria situazione di  inferiorità e alla fine del romanzo apparirà ammalata di sifilide, trasmessale da un’altra donna. Gina, passata attraverso le fasi del disgusto e del dolore, vergognandosi  del proprio corpo e della purezza dei propri sentimenti, si sente ridicola e invidia Amelia che, invece, si impone come la più forte e detta la sua legge. Si nota, però,  un larvato senso di compassione per il personaggio di Ginia, con cui  lo scrittore si identifica.

Il capovolgimento dei valori conferisce  importanza al romanzo.

 

Assieme ai racconti cittadini  Il diavolo sulle colline del ‘48 e Tra donne sole del ‘49  farà parte di una trilogia intitolata  La bella estate: il mito del ritorno all’infanzia, al mare, alle colline –  considerati ancora di salvezza nei confronti della città –   e la descrizione della opprimente e non autentica vita cittadina  si intrecciano ottenendo risultati suggestivi.

 

Il diavolo sulle colline – Compare ancora una volta  il motivo sociale ma  la polemica contro la ricchezza e l’ozio è attenuata da una giustificazione interiore.

Infatti proprio in questo periodo Pavese, avendo contratto amicizie con attori e persone appartenenti ad un ambiente opposto al suo, si comporta in modo diverso dal suo abituale modus agendi : segue questa gente – tra cui Constance –  nel loro ozioso vagabondare, a Cortina, soggiornando in alberghi lussuosi per cercare una qualsiasi via  di salvezza.

La trama si regge sui vagabondaggi di 3 amici spensierati sino al momento in cui incontrano  Poli, uomo ricco e corrotto, che suscita in loro sentimenti opposti di disgusto e di attrazione.

Le donne sono al centro di tutte le situazioni: Rosalba,  amante di Poli ,  non sopportando  la crisi di coscienza che l’uomo  attraversa,  cerca di ucciderlo con un colpo di pistola.

Scampato miracolosamente alla morte, Poli insieme alla moglie Gabriella si rifugia presso la villa di campagna del padre e persiste nella propria crisi di coscienza sino al punto di non avere rapporti con la moglie.

Ma Oreste, suo amico, interrompe questo clima di transitoria calma, divenendo l’amante di Gabriella.

L’atmosfera diventa torbida per l’arrivo di alcuni amici di Poli, giunti da Milano con intenzioni depravate.

Alla fine troviamo Poli nuovamente in preda al suo vizio aggravato da una vecchia tubercolosi.

Il romanzo mette in evidenza la crudele condanna verso un certo ambiente sociale, condanna che sfocia  addirittura nel sangue.

Oltre al tema sociale, emerge il tema della consapevolezza della donna, capace a far sostituire l’innocenza all’abbrutimento, l’idillio alla tragedia.

 

Il motivo sociale, la donna,il sangue, il suicidio costituiranno il leit-motiv  di “ Tra donne sole” .

Tutto il romanzo si snoda in un clima di morte: inizia col tentato suicidio di Rosetta e si conclude  con la definitiva attuazione dello stesso.

All’inizio Clelia, la protagonista, torna a Torino, luogo dell’infanzia che aveva abbandonato  giovanissima per sfuggire alla miseria e compiere la scalata sociale da operaia a stilista.

Dopo aver raggiunto una solida posizione economica, il rientro nel luogo natio , oltre che per motivi di lavoro, le serve per cercare  di  ritrovare se stessa. Ma, troppo coinvolta in un mondo costituito da rapporti falsi e corrotti , non riesce a  riassaporare la bellezza dei luoghi.

In sostanza è il fallimento della vita di relazione e Clelia, scoperte le contraddizioni e la vuotezza  del mondo effimero da lei inseguito con tanti sacrifici, pur con tanta amarezza, crede ormai solo nel suolavoro.

In questo mondo inane   e crudele c’è anche Marina che reagisce alle situazioni con cinismo, mentre Rosetta, più giovane ed inesperta, accorgendosi dell’inutilità del proprio modo di vivere preferisce il suicidio, “ da compiersi senza polemica, non per un motivo preciso ma semplicemente per togliersi dal baccano”.

 

 

Dall’ occasione, offertagli  dal matrimonio dell’amico, Sturani e dalla solita rivalsa verso le donne, nel 1940-41, scaturisce La Spiaggia,  un racconto di stampo borghese che narra la storia di una coppia in crisi durante una vacanza al mare .

Il narratore, persuaso dal latente disaccordo tra i protagonisti, Clelia e Doro, li interroga per cercare di scoprire l’infedeltà della donna, convinto che  nessuna donna sia fedele  e che esista  sempre  qualcosa in grado di distruggere l’amore e il matrimonio. Non accettando  nemmeno l’evidenza dei fatti che provano l’innocenza di Clelia, giunge addirittura ad affermare che il mare costituisce l’infedeltà della moglie dell’amico.

 

Fiera d’agosto, dal titolo dannunziano, è una raccolta di testi di varia natura scritti dal 1941 al 1944.

Essi  racchiudono la visione del mondo e della letteratura tipica dello scrittore:  si riprende infatti il motivo ossessionante della donna, pur apparendo i temi dell’infanzia, visti retrospettivamente dallo scrittore.

Si divide in 3 sezioni dedicati a temi –simbolo.

Pur essendoci  nel I gruppo argomenti inerenti al mare, è sempre la campagna con tutte le sue sfumature naturalistiche a primeggiare.

Nel più vecchio racconto del libro” Primo amore” gli elementi della natura e del paesaggio si mescolano con gli affetti e col l’esacerbato rancore per Clara, alla quale non può più perdonare di essere una donna che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.

Nel II gruppo, benché sia la campagna a dominarla interiormente, si descrive  la città con le sue avventure alimentate da una febbre giovanile.

Nel racconto più lungo “La città” troviamo da una parte un rapporto di amicizia – ammirazione del protagonista verso l’amico Gallo e dall’altra la solita misogenia più legata al problema sociale che a quello sessuale dato che  la goffagine campagnola del protagonista gli impedisce di conquistare una donna della borghesia.

Il III gruppo di racconti” La vigna” si articola inizialmente con brevi narrazioni per poi giungere ad una  definizione del mito,  rappresentato attraverso immagini e simboli naturali, con lo stile magico ed  evocativo della prosa lirica.

Vi sono, secondo Pavese, i miti del popolo, i miti dell’infanzia, dell’umanità, e quelli della mitologia greca, anche se  in ognuno di noi alberga  una mitologia personale: il fondo mitico dell’infanzia, età in cui si attua  il primo rapporto con le cose per mezzo dei segni; questi ci permettono di vedere  le cose per la prima volta.

Poi l’uomo, sostituendo  l’intuizione chiara dell’età matura al mondo fantastico dell’infanzia, riesce a vedere le cose solo” la seconda volta”.

In questo senso sarebbe evidente la dimensione antropologica de I dialoghi con Leucò.

 

Dialoghi con Leucò ( dedicato  a Bianca Garufi, il cui nome è grecizzato in Leucò) viene pubblicato nel 1947.

Indagando sul rapporto tra storia e mito, tra uomo e natura, lo scrittore risale  alle fonti del mito classico per rappresentare la sorte infelice dell’individuo e cercare  di comprendere l’essenza della tragedia umana.

La presenza di simboli esistenziali oscuri e cifrati ci fa  per certi versi   ricollegare alle Operette morali del  Leopardi.

E’ costituito da  27 dialoghi filosofici  tra coppie  di  personaggi , dei ed eroi, tipici della mitologia classica aventi come tematiche amore, morte, destino, coraggio.

Organizzati con un preciso schema unitario, pur privi di  riferimenti storici e sganciati dalla quotidianità,  hanno lo  scopo di trattare  temi universali.

In tal modo Pavese può delineare  la propria visione del mondo e soprattutto parlare di se stesso.

Dalla definizione del mito arriva ad una elencazione degli stessi:

Bellerofonte o il taedium vitae

Edipo e Tiresia o il problema e il fastidio del sesso

Giacinto o la morte innocente e la cattiveria capricciosa dei forti

Saffo o il suicidio come illusione della felicità

Orfeo o la ricerca di se stessi

Licaone o la bestialità umana

Calipso o il carpe diem

Mnemosine o la realtà e il ricordo che si rinnova….

 

Lo scrittore, risalendo alle origini , al di là dell’erudizione, immette  nell’opera la propria esperienza per convincersi che un “ destino ineluttabile incombe sull’uomo  e lo schiaccia costringendolo all’angoscia e alla disperazione senza speranza

 

Anche la donna viene trasfigurata nel mito e nessuna si salva; la vendetta di Pavese non si arrende neppure dinanzi all’amore delle donne con gli dei tanto che colpisce anche la poetessa Saffo .

 

La nube

Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi- tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti -se per errore li disturbi nel loro Olimpo- ti piombano addosso, e ti danno la morte- quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.

 

La chimera

Sarpedonte –  Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela..

 

I ciechi

Tiresia – Non ci sono cose vili se non per gli dei. Ci sono fastidi, disgusti e illusioni che, toccando la roccia, dileguano. Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo a donna, e viceversa…quel che non volli consentire con lo spirito mi venne fatto per violenza o per libidine, e io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai come una donna e fui abbietto come uomo, e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che cercavo gli uomini e donna le donne.

 

Schiuma d’onda

Saffo – Non invidio nessuno. Io ho voluto morire. Essere un’altra non mi basta. Se non posso esser Saffo, preferisco esser nulla

Britomarti – Dunque accetti il destino?

Saffo – Non l’accetto. Lo sono. Nessuno l’accetta.

 

La strada 

Mendicante – Un giorno non c’eravamo, Edipo. Dunque anche le voglie del cuore, anche il sangue, anche i risvegli sono usciti dal nulla. Sto per dire che anche il tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso. Non siamo noi che abbiamo fatto il nostro sangue. Tant’è saperlo e viver franchi, secondo l’oracolo….. abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo .

 

L’isola

Calipso – Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?…

Odisseo – Quello che cerco l’ho nel cuore..

 

 

 

Ne  Il compagno  del 47 , – che  vinse il premio Viareggio – i motivi di fondo della sua ispirazione vengono   piegati  ad esprimere un forte significato politico : il  maturare di una coscienza di classe in un personaggio positivo

C’è, quindi,  il tentativo  di spezzare il cerchio della solitudine, il desiderio di trovare “ uno sbocco nella vita politica per un’attività che lo radichi agli altri”.

Il linguaggio essenziale penetra  nella psicologia dei personaggi che vengono descritti   con tratti sicuri ed incisivi.

L’ambiente si snoda tra Torino e Roma ( il che  corrisponde alle 2 esperienze di vita dello scrittore)

Nei primi 11 capitoli  si narrano  le vicende di lotta antifascista a Torino tra i giovani.

Nei successivi capitoli l’azione si sposta   a Roma (dove effettivamente Pavese si era recato per curare gli interessi editoriali della Einaudi) dove la lotta politica  in clima antifascista si snoda attraverso le alterne vicende dei vari personaggi.

 

Anche qui, torna il motivo della misogenia (… a quel tempo non sapevo gran che di ragazze…ne trovavo la sera al cinema, e prima in barca, o a ballare, e tutte quelle che venivano in negozio. Ma non è questo una ragazza. Non sapevo ancora niente…)

 

Protagonista è  Pablo (-  Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra –), un giovane piccolo borghese, scioperato e incolto, di Amelio, (che si era rotto la schiena andando in moto con una ragazza, – alta,  ben messa – e finirà sulla sedia a rotelle ), di Carletto ( … era gobbo, rideva tutto… aveva un testone e i capelli ricciuti…invece di ridere, ghignava soltanto…era storto, sembrava una molla).

 

e del suo amore con Linda, una donna  che gli offre solo l’amicizia e lo respinge ogni volta che il giovane le fa profferte amorose.

 

Linda sapeva molti posti in collina dove uomini e donne arrivavano in macchina e costava qualcosa di più ma si poteva esser certi che nessuno ci conosceva e né Lario né gli altri sarebbero venuti. Si ballava tranquilli e poi si stava al tavolino a discorrere…Poi cominciammo a darci baci, quando abbassavano la luce. Linda ballava stretta stretta e mi cercava lei la bocca. Lo sapevo da un pezzo che doveva finire così, ma con Linda era tutto diverso. Non sembrava una cosa proibita. Starle vicino e non toccarla, non potevo.

 

La  visione pavesiana  non del tutto positiva sul genere femminile traspare anche in altri passi del romanzo.

 

Gli dissi, senza dare importanza:” Cos’è che le donne non corrono dietro ai quattrini?”

“ Ah ah- fece lui soddisfatto ( Lubrani) – …Corrono dietro a tante cose. Non soltanto ai quattrini. Senti..non ci sono eccezioni. Io le donne le faccio spogliare, per sapere chi sono. Tutte quante si spogliano. Non ci stanno a pensare. Una donna che sa quel che vale, si spoglia. Ma con questo, non credere. Voglion altro, le donne. Sono tutte ambiziose. Ce n’è che vogliono l’amico del cuore. Ce n’è di matte. L’hai mai vista una donna ubriaca? Ce n’è che cambiano amico soltanto per picca. Sui quattrini ci sputano”

 

Dopo gli  anni di spensieratezza trascorsi nella natia Torino, Pablo si trasferisce a Roma.

 

Quando arrivai a Roma …ero contento di aver fatto tanta strada e che al mondo ci fossero degli altri paesi, delle città, delle montagne, tanti posti che non avevo mai visto….M’accorsi subito che l’aria era diversa, e sembrava più chiara e più asciutta… Mi piaceva di Roma proprio quel fare perditempo che si sente nell’aria.

Se mi tornava quella rabbia di Torino, stringevo i pugni, alzavo gli occhi, mi muovevo , e pensavo che Pablo era a Roma. Bastava. Ero un altro, stavolta.

 

Qui, dopo aver  incontrato alcuni uomini della Resistenza, dà una svolta impegnata alla precedente esistenza volubile e spensierata e  finisce in prigione.

 

Mi era  rimasta un paura dal mattino: non aver tempo di pensare alle risposte. Non poter regolarmi su quel che sapevano. Se hanno preso anche Pippo, dicevo, è finita. Poi dicevo: ma se mi hanno arrestato vuol dire che sanno. Non è star chiusi, la prigione, è l’incertezza.

 

Prima che il gallo canti

Con questo titolo,  che riporta una frase del Vangelo , nel ’49 Pavese fa pubblicare  insieme  La casa in collina  e Il carcere.

Il dittico  anticipa il tema della viltà dell’intellettuale borghese  che  tradisce  se stesso e i propri ideali , pur continuando a ricercare continuamente  un bisogno d’amore che risulta, però, sempre inappagato.

 

Ne Il carcere,  romanzo breve del 1938-39, viene sottolineato il contrasto tra la solitudine del protagonista e il mondo che lo circonda, estraneo e indecifrabile. Stefano è un giovane ingegnere del Nord Italia, esiliato in un aspro paese del Sud.

Egli ignora i temi politici  e sviluppa con i suoi turbamenti  la tesi della  invalicabile  incomunicabilità esistenziale di  chi , incapace  di partecipare alla guerra,  ne vede tuttavia gli orrori  .

Stefano si sente incarcerato nella noia e nella povertà morale ed intellettuale delle persone che lo circondano finisce così col chiudersi sempre di più in se stesso: solo così trova un po’ di tranquillità.

Altresì non riesce a contrarre un rapporto pieno con nessuna delle donne del romanzo, in quanto nel momento in cui la donna si affeziona, assume il ruolo da lui detestato, di donna materna , mentre desidererebbe un tipo di donna forte e volitiva, la “ bella” o “ l’alessandrina che lo domini e lo protegga.

La prosa risulta distaccata e serena in quanto il racconto è filtrato attraverso il filo della memoria di un uomo che non ha accettato appieno i motivi della pena.

Sono presenti i motivi autobiografici: Pavese non riesce a superare la solitudine , caratteristica innata alla sua natura, al di là dei motivi storico-politici, nonostante questi ultimi gliela presentino nella sua vera essenza.

 

Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano…era felice del mare: venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione, una vasta parte di colori  e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella……

 

Stefano accettò fin dall’inizio senza sforzo questa chiusura d’orizzonte che è il confino: per lui che usciva dal carcere era la libertà. Inoltre sapeva che dappertutto è paese, e le occhiaie incuriosite e caute della persone lo rassicuravano sulla loro simpatia. Estranei invece, i primi giorni, gli parvero le terre aride e le piante e il mare mutevole..

 

All’osteria nel pomeriggio si giocava alle carte e Stefano, presavi parte, a poco a poco si faceva inquieto, e sentiva il bisogno d’uscire..

Usciva allora dal paese che gli sembrava troppo piccolo. Le catapecchie, le rocce del poggio, le siepi, ridiventavano una tana di gente sordida, di occhiate guardinghe, di sorrisi ostili.

 

…quelle case sempre chiuse..parevano, a Stefano, le ville dell’infanzia, chiuse e deserte nei paesi del ricordo…

 

Stefano si era fatta l’idea che le donne di quella terra fossero bianche e grassocce come polpa di pere…

 

..nel dolce profumo caprigno che saliva dal fornello, Elena si faceva tollerabile, diventava una donna qualunque ma buona, un’amabile e rassegnata presenza come le galline, la scopa o una serva…

 

..Basta volersi bene – disse Elena nel silenzio – e io ti rispetto come avessimo lo stesso sangue. Tu sai tante più cose di me – non posso pretendere – ma vorrei essere la tua mamma..

..lo so , non mi vuoi essere obbligato…..tu non vuoi niente da me. Nemmeno che ti faccia da mamma…

 

A volte, giocando alle carte nell’osteria, fra i visi cordiali o intenti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili..

 

Stefano sapeva che la sua angoscia e tensione perenne nascevano dal provvisorio, dal suo dipendere da un foglio di carta, dalla valigia sempre aperta sul tavolo. Quanti anni sarebbe restato laggiù? Se gli avessero detto per tutta la vita, forse avrebbe vissuto i suoi giorni più in calma.

 

Sulla soglia comparve  il maresciallo, nero e rosso, faccia  inquieta da perlustrazione…- “Hanno respinto il ricorso, ma vi hanno concesso il condono. Da stamattina  siete libero, ingegnere”. –

Nei due giorni che Stefano attese il foglio di via, il crollo delle sue abitudini fondate sul vuoto monotono del tempo, lo lasciò come trasognato e scontento. La valigia che aveva temuto di non fare in tempo a preparare, la chiuse in un batter  d’occhi..

 

…Continuò a gironzolare dalla sua stanza all’ osteria, incapace di fare una corsa più lontano, di salutare a uno a uno i luoghi deserti, pallidi,della campagna e del mare, che tante volte aveva divorato con gli occhi, nel tedio esasperato, dicendosi: “Verrà l’ultima volta, e rivivrò quell’istante”

 

La casa in collina

Il  protagonista,  Corrado, un intellettuale che tenta di allontanare il dramma della guerra, costituisce  l’alter ego di Pavese :  si riconosce infatti la sua  rinuncia alla lotta partigiana e il rifugio  a Serralunga.

Qui racconta retrospettivamente  le vicende a cui ha personalmente assistito.

Corrado, professore in una scuola media di Torino, narra in prima persona  come ,  per sfuggire ai continui bombardamenti , si  sia rifugiato sulle vicine  colline.

Solo e scontroso, ama passeggiare per i boschi col cane Belbo, e dedicarsi alla lettura dei  suoi libri.

Vagabondando per i campi, si imbatte un giorno  in un gruppo di sfollati tra cui riconosce  Cate, una donna da lui amata in gioventù  che ha un figlio Dino

( diminutivo di Corrado), a cui il protagonista, sospettando di  esserne il padre,  si affeziona e lo conduce con sé.

Dopo l’8 settembre 1943  un giorno i tedeschi,  piombati nell’osteria, catturano la donna  e i suoi compagni.

Corrado fugge e si rifugia in un convento  di Chieri dove lo raggiunge Dino che però, dopo un po’   si allontana per raggiungere i partigiani.

Corrado invece, ancora una volta fugge  a piedi e con mezzi di fortuna e si rifugia nelle Langhe, palesando il suo continuo sottrarsi alle responsabilità collettive che la guerra impone.

Nell’ultimo capitolo   il narratore autodiegetico  riflette  sul significato della guerra e del senso della vita, facendo sospettare che in lui sia subentrato il  rimorso a non aver voluto partecipare agli eventi; ciò però non fa cambiare la precarietà della sua condizione esistenziale.

Insieme al tema politico torna il tema della donna e il  frustrato desiderio di generare un figlio.

E’ anche presente il tema sociale così come appare chiaramente dalla descrizione che ci presenta Torino sotto i bombardamenti: infatti mentre la classe privilegiata riesce a trovare scampo rifugiandosi nelle ville sui monti o sul mare, i servi, i portinari, in sintesi i miserabili, rimangono nel pericolo della città a guardia delle proprietà dei padroni.

Entrambi i romanzi sono la testimonianza, che rimane irrisolta, della crisi che deve affrontare in un momento drammatico della storia ogni persona  che si trova dinanzi al dilemma di come porsi nel momento dell’impegno civile.

Tali aspirazioni spesso risultano velleitarie e condannano l’uomo alla solitudine  e al dramma.

 

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava , e per me non era un luogo tra gli altri; ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo la differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo…

 

…Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti…

..Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire.

 

..Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo…

 

…Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute…

 

…Quella specie di sordo rancore in cui si era chiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte…

 

…C’era in quella gente, nei giovani, nel loro scherzare, nella stessa cordialità facile della compagnia e del vino, qualcosa che conoscevo, che mi ricordava la città d’altri tempi, altre sere, scampagnate sul Po, varietà d’osteria e di barriera, amicizie passate. E sul fresco della collina, in quel vuoto, in quell’ansia che manteneva all’erta, ritrovavo un sapore più antico, contadino, remoto..

 

…Ott’anni fa , cos’era Cate? Una figliola beffarda e disoccupata , magra e un poco goffa, violenta…

 

..Io poi combattevo tra la soddisfazione di averci la ragazza e la vergogna del suo tipo scalcinato e inesperto.

 

..Le comprai qualche volta un rossetto che la riempì di gioia, e fu qui che mi accorsi che si può mantenere una donna ,educarla, farla vivere, ma se si sa di cos’è fatta la sua eleganza, non c’è più gusto…

 

L’idea di esserle legato, di doverle qualcosa, per esempio del tempo,mi pesava ogni volta…

 

..Capii che Cate non pensava a riprendermi, capii che aveva una sua vita e le bastava. Quel che avevo temuto era che facesse la violenta e l’umiliata di un tempo e volesse gridare.

 

…Dino aveva i capelli negli occhi e una maglietta rattoppata. Con me si vantò molto della scuola e dei suoi quaderni colorati.

 

…Cate lo prendeva , gli aggiustava i capelli, gli diceva qualcosa.

Pensai che Cate era gelosa di suo figlio.

 

Dino arrivò col suo bastone, zufolando…Gli chiesi:” Cosa hai sulla faccia?” e tenendolo fermo, lo scrutai, lo toccai: gli occhi, le palpebre, il profilo. Ma si può dire che un bambino rassomigli a un adulto?Ne avevo riso tante volte. Pagavo anche questa. Dino girava gli occhi inquieto, gonfiava le gote, sbuffava. Questo, se mai, questo ostentato riluttare, somigliava a qualcosa di me.. .

 

Adesso avevo quarant’anni e c’era Cate, c’era Dino. Non contava di chi fosse davvero figlio: contava il fatto che ci fossimo trovati in quell’estate dopo le assurde villanie di una volta, e Cate sapesse per chi e perché vivere, Cate avesse uno scopo, volontà d’indignarsi, un’esistenza tutta piena e tutta sua. Non ero futile e villano anche stavolta, che le giravo intorno tra smarrito e umiliato?

 

..Cate parlava a voce bassa e sorrideva freddamente. “ La situazione è da matti – disse – E’ la giornata  più tremenda della guerra. Il governo non c’è. Siamo in mano ai tedeschi. Bisogna resistere”

 

…Oggi mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa…Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non  Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo?…

 

…L’esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto da esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta.  A volte, dopo aver ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.