TACITO

Publio Cornelio Tacito

L’avvento al potere di Nerva, e Traiano, produce a Roma sollievo e speranza di poter conciliare libertà e potere imperiale

Portavoce di tale stato d’animo è Tacito.

Ciò che sappiamo di Tacito,  lo dobbiamo a lui stesso. La sua opera è una  fonte ricca di informazioni circa la sua personalità e i suoi ideali.

Nacque nel 54/55 a Terni o Roma, da famiglia agiata.

Studiò retorica a Roma e  forse fu condiscepolo  di Plinio il Giovane, anche se questi era più giovane di 4/5 anni.

Fu tribuno militare, questore nel 81/82, tribuno della plebe 84/85,  pretore nell’88, console nel 97.

Fece parte del collegio dei quindecemviri sacris faciundis, uno dei 4 collegi sacerdotali maggiori.

Nel 78 sposò la figlia appena tredicenne del generale Giulio Agricola,  con cui ebbe buoni rapporti familiari.

Fu collaboratore di Domiziano.

Dopo la  morte sospetta del suocero il 23 agosto 93, si ritirò dalla vita  politica, che poi  riprese con Nerva e Traiano.

Nel 97 come  consul suffectus. fu il “ laudator eloquentissimus” nel funerale di Verginio Rufo, il senatore tre volte console, che aveva rifiutato l’impero.

Dopo il consolato fu proconsole d’Asia nel 112/113.

Abbondanti notizie abbiamo anche  dalle 11 lettere dirette a Tacito e dalle altre 4 che lo menzionano,  contenute nell’epistolario di Plinio il Giovane.

Si hanno soprattutto informazioni sull’ambiente, sugli interessi culturali, sulle condizioni sociali, sulle attività personali che i 2 amici ebbero in gran parte in comune. Vi sono inoltre accenni a particolari circostanze della vita di Tacito.

Morì verso il 120.

Era uomo dell’aristocrazia senatoria della quale esprimeva con voce genuina il sentimento, fatto delle aspirazioni , delle ambizioni, delle mortificazioni, degli sdegni e dei pregiudizi sociali caratteristici dell’epoca, ma anche della coscienza e dell’orgoglio dei doveri pubblici e della fedeltà agli ideali di moralità e decoro.

In tal modo si risolveva il fondamentale problema politico ch’era quello della coesistenza col principe di una libera aristocrazia.

Ma la moralità era in lui il motivo più profondo che dominava anche le esperienze politiche.

Così nei grandi delitti pubblici proprio l’aspetto politico retrocede quasi nell’ombra, di fronte all’aspetto morale.

Opere

De vita et moribus JuliiAgricolae, apparso nel 98, ha carattere monografico.

Prendeva lo spunto dal ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide domiziana per tramandare ai posteri la memoria delle virtù di un uomo egregio, il suocero Cn. Giulio Agricola, conquistatore della Britannia  e vittima del principe invidioso. Si sofferma sulle qualità del suo eroe: prontezza nell’apprendere e nell’agire, attitudine al comando e prudente accortezza nell’evitare di dare ombra ai superiori con i suoi successi, efficienza e abilità nei compiti sia civili che militari. Domina nell’opera la biografia del personaggio   ma c’è anche un’ampia digressione  geo-etnografica sui Britanni e la loro terra.

 

Germania (De origine et situ Germanorum), totalmente etnografico.  Fino al cap.27 parla della Germania in generale, successivamente tratta  dei vari popoli singolarmente. Non appare mosso da una curiosità autentica e disinteressata perché Roma è il suo punto di riferimento fisso. Ciò produce  un atteggiamento ambivalente; da un alato manifesta sincera ammirazione per i costumi semplici e austeri, per la sanità morale dei barbari, dall’altra manifesta  un polemico confronto, allusivo e indiretto, con i corrotti costumi romani contemporanei.

Annales, prefazione molto breve, che comprende uno stringato sommario di storia costituzionale romana e poi una condanna  sugli storici del principato. Per ogni imperatore narra il periodo della dinastia giulio – claudia, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Incentra la riflessione storica sulla figura degli imperatori.  In 16 libri, ne restano 6.

C’è studio attento delle fonti e ricerca delle cause dei fatti oltre ad acuta penetrazione psicologica dei personaggi. Forti le intenzioni morali.

Lo stile è scultoreo, lapidario, ma non privo di un particolare colorito poetico.

Ci sono le qualità di un grande storico e di un autentico artista. Protagonista delle vicende è l’uomo, artefice del proprio destino, capace di raggiungere le vette più alte della virtù e gli abissi paurosi del vizio anche se oscure forze impenetrabili accompagnano il suo cammino: è il mistero della vita in cui dominano i tiranni di cui vengono tracciati con incisività foschi ritratti.

 

 Historiae (14  ll., sull’impero dei Flavi). Si aprono con un’ampia prefazione in cui si condannano gli storici del periodo del principato, inaffidabili per servilismo o per ostilità preconcetta nei confronti dei potenti. Egli vuole una storiografia onesta e obiettiva.

Il principato è visto come un male necessario. Inutile proporre cambiamenti o rimpiangere i tempi della repubblica.

Compito dello storico è denunciare l’eccessiva degenerazione e le aberrazioni di taluni principi.

Adotta un distinguo tra buoni e cattivi secondo un criterio morale tratto dalla tradizione repubblicana.

E’ spesso acuto e mostra di comprendere l’importanza di forze che condizionano gli imperatori, es. esercito e corte.

Si concentra, però, solo su Roma ed esclude la vita delle province.

Il tono è cupo e pessimista. Lo stile complesso, asimmetrico, spezzato, quasi tragico poiché dà vita a figure di grande rilievo e forza drammatica.

Attribuito a Tacito è anche il  Dialogus de oratoribus (trattato  sulla decadenza dell’oratoria). Ritenuto il suo  terzo scritto è dedicato all’amico Fabio Giusto, console nel 102. Tacito intendeva trattare il problema della decadenza dell’arte oratoria, la cui causa sarebbe nel cambiamento di regime politico.

Di stile ciceroniano

In tutte le sue opere riscontriamo un  lessico  ricchissimo di aggettivi, vocaboli arcaici, rari, poetici, neologismi e frequenti figure retoriche.

La Germania

1.Tutta la Germania è divisa dai Galli, dai Rezi e dai Pannoni dai fiumi Reno e Danubio, dai Sarmati e dai Daci dalla reciproca paura e dai monti; l’Oceano circonda le altre terre, abbracciando ampie penisole e isole di grandissima estensione; essendo di recente conosciute alcune genti e re che la guerra scoprì. Il Reno, nato da una inaccessibile e scoscesa montagna delle Alpi retiche, dopo essersi volto con una lenta curva verso occidente, sbocca nel mar del Nord. Il Danubio, scendendo dal giogo dolce e lievemente innalzato,del monte Abnoba, tocca molti popoli, finchè sbocca nel mar Pontico con 6 bocche; la 7 bocca è assorbita dalle paludi.

2.Io sarei disposto a credere che i Germani sono proprio indigeni e per nulla mescolati per immigrazione di altri popoli e per vincoli di ospitalità, perché  una volta coloro che cercavano di mutare sedi si spostavano non per terra ma per mare e l’oceano immenso posto al di là e per così dire ostile, è toccato da rare navi  provenienti dal nostro mondo. Chi d’altra parte, oltre al pericolo di un mare burrascoso e ignoto, dopo aver lasciato l’Asia, l’Africa o l’Italia, si sarebbe recato in Germania, dal suolo incolto, dal clima aspro, triste ad abitarsi e a vedersi, se non ti trattasse della propria patria? Celebrano in antiche canzoni che sono l’unico genere presso di loro di tradizione orale e di documentazione scritta, il dio Tuistone, nato dalla terra e il figlio Manno come progenitori e fondatori della stirpe. A Manno poi assegnano 3 figli dal nome dei quali sarebbero chiamati Ingevoni quelli più vicini all’Oceano, Ermioni quelli dell’interno, gli altri Istevoni. Alcuni, data la libertà con cui si parla delle cose antiche, affermano che più figli nacquero dal dio e quindi più denominazioni della stirpe, Marsi, Gambrivi, Suebi, Vandali e che quelli sono i veri e antichi nomi. Del resto il vocabolo Germania è di origine recente ed imposto poco fa, perché coloro che per primi varcarono il Reno e scacciarono i Galli e che ora sono chiamati Tungri, allora si chiamarono Germani: così il nome di una tribù non di tutta la nazione prevalse a poco a poco, sicchè tutti si chiamarono Germani dapprima dal vincitore per paura, in seguito anche da sé stessi dopo aver trovato il nome.

3.Alcuni raccontano che presso di loro vi fu anche Ercole e quando stanno per andare in battaglia lo celebrano come il primo di tutti gli eroi. Hanno anche canti, con l’intonazione dei quali, che essi chiamano bardito, infiammano gli animi e dallo stesso canto predicano la sorte della prossima battaglia. Infatti atterriscono o tremano secondo il modo di suonare dell’esercito. Né tanto sembra quello un accordo di voci quanto un concerto di valore. Si ricerca soprattutto l’asprezza del suono e il rotto mormorio, accostando lo scudo alla bocca per far risuonare più piena e grave la voce ripercossa. Del resto alcuni pensano che anche Ulisse durante quel lungo e favoloso errare fosse condotto in questo oceano e toccasse le terre di Germania e che da lui fosse fondata e denominata Asburgo quella Asciburgo,  posta sulle rive del Reno e anche oggi abitata. Che anzi nello stesso luogo una volta fu trovata un’ara   che fu consacrata ad Ulisse con aggiunto il nome di suo padre Laerte. E che ancora rimangono al confine fra la Germania e la Prussia monumenti sepolcrali e certi tumuli con iscrizioni in lettere greche;  le quali cose non ho in animo di confermare con prove né di respingere, secondo l’indole sua ciascuno li neghi o vi presti fede.

  1. Aderisco al parere di coloro i quali pensano che i popoli della Germania non contaminati da alcun connubio con altre nazioni, si conservano come stirpe del tutto pura e somigliante solo a sé stessa. Donde anche l’aspetto fisico, per quanto si tratti di popolazione così numerosa, è uguale per tutti: gli occhi fieri e cerulei, i capelli di color rosso, grandi i corpi ma soltanto adatti all’assalto: ma non hanno la stessa resistenza alla fatica e ai lavori militari, e non sono affatto abituati a sopportare la sete e il caldo, mentre sono abituati a sopportare il freddo e la fame o per il clima o per la natura del suolo.
  2. Il suolo sebbene differisca alquanto per l’aspetto, in generale però si presenta orrido di boscaglie o intristito da paludi, più umido dal lato della Gallia, più ventoso da quello del Norico e della Pannonia; ferace di biade, improduttivo di piante fruttifere, abbondante di gregge ma per lo più piccolo. Neppure gli armenti hanno bellezza di fronte o prominenti corna, si compiacciono del numero e quelli sono le sole e più gradite ricchezze. Non so se gli dei abbiano loro negato l’argento e l’oro per benevolenza o per ira. Né affermerei tuttavia che nessuna vena della Germania produce oro o argento; giacché chi ha fatto ricerche? Non sono presi dalla brama di possederne o di usarne allo stesso modo di altri popoli. E’ possibile vedere che presso di loro vasi d’argento, dati in dono ai loro ambasciatori e ai principi, hanno lo stesso poco conto di quelli fatti di creta. Tuttavia quelli più vicini a noi per l’uso del commercio hanno in pregio l’oro e l’argento e riconoscono e prediligono alcuni coni della nostra moneta. Quelli dell’interno con antica semplicità praticano lo scambio delle merci. Accettano la moneta antica e da un pezzo conosciuta, cioè i serrati e i bigati. Badano più all’argento che all’oro non per capriccio ma perché di monete d’argento è più facile l’uso per chi commercia in cose comuni e di poco prezzo.
  3. Nemmeno il ferro abbonda come si deduce dal genere delle armi. Pochi usano spade o lance piuttosto grandi. Portano aste o framee col loro stesso vocabolo, dalla punta acuta e breve ma così aguzza e adatta all’uso che con la stessa arma, secondo come richiede il bisogno, combattono da vicino o da lontano. E per la verità il cavaliere  s’accontenta dello scudo e della lancia; i fanti lanciano anche  proiettili e ognuno ne scaglia parecchi e li librano ad immensa distanza, quasi nudi o con un leggero mantello. Nessuno sfoggio di ornamenti, solo abbelliscono gli scudi con i più vistosi colori. Pochi hanno corazze, appena 1 o 2 hanno un elmo di metallo o di cuoio. I cavalli non sono notevoli per bellezza né per velocità. Ma né sono addestrati  a compiere evoluzioni come facciamo noi; ma li spingono in linea retta o con un sol giro a destra, in una svolta così compatta che nessuno rimane indietro. Se si considera in generale, c’è maggior forza nella fanteria e perciò combattono mescolati, adattando assai bene alla battaglia equestre, l’agilità dei fanti che scelti fra tutta la gioventù, pongono di fronte alla schiera. Circoscritto ne è anche il numero. Sono 100 per ogni cantone e si chiamano fra loro con lo stesso nome e quello che prima era numero diventa poi nome specifico. L’esercito si dispone a cuneo. Stimano prudenza piuttosto che viltà ritirarsi, purché si ritorni all’assalto. Recuperano i corpi dei loro anche nelle battaglie incerte. Gettare lo scudo è somma vergogna né al colpevole è lecito assistere ai sacrifici, o partecipare all’assemblea e molti superstiti delle guerre si sottrassero all’infamia col cappio.
  4. Scelgono i re in base alla nobiltà, i capitani in base al valore. Né i re hanno potere illimitato o assoluto e i duci comandano più con l’esempio che con gli ordini destando ammirazione se si mostrano animosi, se si mettono in vista,se si spingono innanzi negli scontri. Del resto non è permesso né punire con la morte né imprigionare e neppure fustigare se non ai sacerdoti, non per così dire come pena né per ordine del duce, ma come se lo comandasse una divinità che essi pensano assista i combattenti. E immagini e certe insegne, tratte fuori dai boschi, portano in battaglia, e quello costituisce il principale stimolo al valore e non il caso né l’accozzo fortuito costituisce lo squadrone della cavalleria o il cuneo ma le famiglie e le parentele. E presso la battaglia vi sono le persone più care onde si può udire l’alto grido delle donne, e il vagito dei bambini. Questi sono per ciascuno i più santi testimoni e i più grandi esaltatori; alle madri, alle mogli mostrano le ferite, né quelle si spaventano di enumerare o esaminare le ferite e forniscono cibi e incitamento ai combattenti.
  5. Si narra che alcune schiere già volte in fuga e vacillanti, furono rincuorate dalle donne con la costanza delle preghiere ed opponendo i petti e mostrando l’imminente schiavitù, che essi temono molto di più in considerazione delle loro donne, a tal punto che si legano più fortemente gli animi delle tribù alle quali fra gli ostaggi sono richieste anche nobili fanciulle. Anzi credono che abbiano alcunché di sacro e di profetico né disprezzano i loro consigli o ne trascurano le previsioni. Vedemmo sotto il divo Vespasiano che Veleda a lungo fu dai più tenuta in luogo d’un dio; ma una volta venerarono anche Albruna e moltissime altre non per adulazione né come se le ritenessero dee.
  6. Tra gli dei onorano specialmente Mercurio, a cui in determinati giorni stimano lecito sacrificare anche vittime umane. Placano con offerte d’animali Ercole e Marte. Una parte degli Svevi sacrifica anche ad Iside. Donde abbia avuto origine questo culto straniero non so, salvo che il simbolo stesso, forgiato in forma di liburna, dimostra che la religione fu importata. Del resto né chiudere gli dei fra le pareti di un tempio né rappresentarli sotto forma di aspetto umano, credono sia conforme alla grandezza dei celesti. Consacrano i boschi e le selve e chiamano coi nomi degli dei quell’entità misteriosa che vedono solo con l’animo riverente.
  7. Osservano con la massima cura auspici e sortilegi. La forma del sortilegio è semplice. Recisa la verga di un albero da frutto, la tagliano a pezzetti e distintili con alcuni segni, li spargono a caso su un candido panno. Poi, se si fa la sorte nell’interesse della comunità, il sacerdote delle città, se per affari privati, lo stesso padre di famiglia, pregati gli dei, e alzando gli occhi al cielo, ne prende 3, togliendoli uno alla volta, e li interpreta secondo il segno prima impresso, dopo averli sollevati. Se i responsi sono sfavorevoli, per quel giorno non si tratta più la faccenda; se sono favorevoli, si esige ancora una prova degli auspici. E anche qui è pure in uso interpretare le voci e il volo degli uccelli; è proprio di quel popolo anche investigare i presagi e i moniti dei cavalli. Sono nutriti a pubbliche spese negli stessi boschi e selve, cavalli candidi e non contaminati da nessun lavoro mortale; e aggiogati al carro sacro il sacerdote, il re o il principe della città li accompagnano e ne osservano i nitriti e i fremiti. Né alcun auspicio ha maggior credito non solo presso la plebe ma presso i grandi, presso i sacerdoti: giacché ritengono se stessi ministri degli dei, quelli consapevoli del volere degli dei. C’è anche un altro modo di eseguire gli auspici, con il quale si indaga l’esito di gravi guerre. Un prigioniero, fatto in qualunque modo di quel popolo con cui c’è guerra, pongono a combattere, ciascuno con le proprie armi, con un altro scelto tra i suoi connazionali. La vittoria di questo o di quello si prende per buon presagio.
  8. Sugli affari minori deliberano i capi, sui maggiori tutti, però in modo che anche quelle cose di cui la decisione spetta alla plebe sono esaminate dai principi. Si radunano,se non accade alcunché di fortuito e improvviso, in giorni determinati, quando c’è il novilunio o il plenilunio. Infatti credono questo il più auspicato principio per cominciare qualche cosa. Non contano il numero dei giorni come noi, ma quello delle notti, così fissano e notificano gli affari. Sembra loro che la notte porti il giorno. Dalla libertà nasce l’inconveniente che non si adunano nello stesso tempo come comandato ma si perdona 2 o 3 giorni per il ritardo dei convenuti. Quando pare tempo al pubblico, siedono armati. E’ imposto il silenzio dai sacerdoti i quali hanno anche allora il diritto di punire. Poi sono ascoltati il re o il principe a seconda dell’età di ciascuno della nobiltà, della gloria guerresca, della facondia più per l’autorità persuasiva che per la forza del comando. Se il parere dispiace, con un mormorio disprezzano. Se invece piace, battono le aste. Modo notevolissimo d’approvazione è lodare con le armi.
  9. E’ lecito davanti all’assemblea anche muovere accuse e intentare un processo capitale. La distinzione delle pene si ha a seconda dei delitti. Impiccano agli alberi i traditori e i disertori, i vili, i colpevoli di atti contro natura sono immersi in una palude fangosa, dopo aver gettato sopra di essi un graticcio. La diversità del supplizio mira a mettere in evidenza i delitti mentre sono puniti, le azioni infamanti siano celate. Ma anche per le colpe più lievi la pena è in proporzione: ai rei tocca l’ammenda di un numero di cavalli e di capi di bestiame. Una parte dell’ammenda si assegna al re, o alla città, una parte all’offeso o ai parenti di lui. Nelle medesime assemblee sono eletti anche quei capi che amministrano la giustizia per i borghi e i cantoni, a ciascuno di loro sono assegnati 100 assistenti fra il popolo che gli portano consigli e autorevole appoggio.
  10. Poi non fanno nessuna azione né pubblica né privata se non armati. Ma non è costume prendere le armi a ciascuno prima che lo stato l’abbia riconosciuto atto ad adoperarle. Allora nello stesso concilio qualche principe , il padre o i parenti ornano il giovane con lo scudo e con la lancia: questa è la toga presso di loro, qui per i giovani è il primo onore; prima di ciò sembra far parte della casa, dopo dello stato. Una insigne nobiltà o grandi premi dei padri assegnano la dignità di capo anche ai giovani: gli altri di età più provetta si pongono al seguito di quelli più forti o che già da tempo hanno dato prova del loro valore e non è vergogna essere visti tra i compagni. Che anche lo stesso seguito ha i gradi, secondo la decisione del loro capo; e grande è l’emulazione anche dei comiti a chi abbia il primo posto presso il principe e tra i principi chi abbia comiti in maggior numero e assai numerosi. Questa potenza, queste forze, cioè l’essere circondato da un gran gruppo di giovani elettori, in pace l’onore, in guerra il presidio. E questo non solo nella propria gente a ciascun principe, ma anche presso gli stati confinanti quella rinomanza, vi è quella gloria, se il principe spicca per numero e virtù di comiti; sono ricercati,infatti con ambasciatori e sono ornati e determinano per lo più l’esito delle guerre con la loro stessa fama.
  11. Allorché si giunge in combattimento, è vergognoso per il principe essere superato in valore, è vergognoso per il seguito non eguagliare il valore del principe. Ma inoltre è infame e disonorante per tutta la vita, essersi ritirato dalla battaglia sopravvivendo al proprio capo, difendere, proteggerlo, attribuire altresì le proprie azioni coraggiose e a gloria di lui è il principale obbligo: i capi combattono per la vittoria, i compagni per il capo. Se il popolo in cui sono nati, intorpidisce in una lunga pace e quiete, la maggior parte dei giovani nobili vanno spontaneamente a quei popoli, che allora fanno qualche guerra perché il riposo è sgradito alla nazione e divengono illustri più facilmente tra i pericoli né potresti conservare un gran seguito se non con la forza e con la guerra: esigono infatti dalla liberalità del loro capo quel cavallo da guerra, quella lancia insanguinata e vincitrice, poiché il banchetto e le imbandigioni sebbene rozzi, tuttavia abbondanti, contano come paga. La fonte di tale munificenza si ha mediante le guerre e le rapine. Né persuaderesti ad arare la terra o ad aspettare l’anno raccolto tanto facilmente, quanto a provocare il nemico e a riportare ferite. Che anzi sembra cosa pigra e inerte acquistare col sudore ciò che può procurarti col sangue.
  12. Quante volte non vanno il guerra, passano non molto tempo nelle cacce, più nell’ozio, dediti al sonno e al mangiare, ognuno più valoroso e più bellicoso senza far nulla, la cura della casa e dei penati e dei campi restando affidata alle donne e ai vecchi e ad ognuno più debole della famiglia; essi stessi stanno oziosi, per strana contraddizione di natura, poiché i medesimi uomini amano così l’inerzia e odiano il riposo. Per le tribù è costume portare ai capi spontaneamente da parte di ciascuno un poco di armenti o di biade, il che, accettato a titolo di onore, serve anche ai bisogni della vita. Si compiacciono specialmente dei doni dei popoli vicini, i quali si mandano non solo da singole persone ma anche in nome dello stato, cavalli scelti, grandi armi, pettorali e collane; insegnammo loro ormai ad accettare anche il denaro.
  13. E’abbastanza noto che nessuna città è abitata dalle popolazioni dei Germani; e che essi non soffrono nemmeno di essere unite tra di loro. Abitano separati e dispersi, secondo che una sorgente, secondo che una pianura, secondo che un bosco è piaciuto loro. Costruiscono i villaggi non al nostro modo, con gli edifici congiunti ed aderenti fra loro; ciascuno circonda d’uno spazio libero la propria casa, sia per precauzione contro le disgrazie del fuoco, sia per ignoranza del fabbricare. Nemmeno presso di loro c’è l’uso delle pietre tagliate o delle tegole: adoperano per ogni specie di costruzioni legname informe e senza decoro o bellezza. Dipingono in modo assai accurato parti della casa d’una terra sì pura e brillante che è simile alla nostra tinta e alle nostre linee a colori. Sogliono anche scavare caverne sotterranee che coprono al di sopra di molto letame, rifugio all’inverno e deposito per le messi, poiché i luoghi di questa fatta mitigano il rigore dei freddi e se talvolta il nemico sopraggiunge, saccheggia i luoghi aperti ma le cose nascoste e sotterranee o sono ignorate o sfuggono per ciò stesso per cui devono essere cercate.
  14. Tutti vestono il saio, appuntato con una fibbia o con una spina se la fibbia manca; nudi nel resto del corpo passano i giorni interi presso il focolare acceso. I più doviziosi si distinguono per una veste non larga come i Sarmati e i Parti ma attillata e che riproduce tutte le membra. Portano anche pelli di fiere, i più vicini alla riva trascuratamente, i più lontani più ricercatamente come gente a cui nessuna civiltà perviene mediante gli scambi commerciali. Scelgono le fiere da cacciare e disseminano le pelli tolte di macchie e di strisce di pelli delle belva, che l’Oceano esterno e un mare sconosciuto produce. Né aspetto diverso è alle donne che agli uomini, se non che le donne si coprono più spesso di vesti di lino e le colorano di porpora, e non prolungano in maniche la parte dell’abito superiore, rimanendo ignude nell’avambraccio e nel braccio; ma anche la parte del petto più vicina al braccio è scoperta.
  15. Sebbenei matrimoni siano colà rigorosamente osservati, né tu loderesti di più alcuna altra parte dei loro costumi. Poiché quasi soli dei barbari, sono contenti di una sola moglie, eccettuati molto pochi, che non per lussuria ma cagione della nobiltà sono ricercati da molte nozze. La moglie non offre la dote al marito ma il marito alla moglie. I genitori e i congiunti sono presenti ed approvano i doni, doni non cercati per le raffinatezze domestiche né dei quali la novella sposa si adorni, ma buoi, un cavallo col freno, uno scudo con framea, ed una lancia. In base a questi doni la moglie è accettata e a sua volta essa stessa porta alcune armi allo sposo. Stimano questi doni il legame più grande, questi le misteriose sacre cerimonie, questi i numi dei matrimoni. Affinché la donna non si creda estranea ai pensieri di virtù ed estranea agli accidenti delle guerre, è ammonita dagli auguri stessi del matrimonio che incomincia, che essa viene compagna delle fatiche e dei pericoli, destinata a soffrire e ad osare il medesimo in pace e in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo preparato, questo le armi donate. Bisogna vivere così e così morire; essa riceve cose che dovrà trasmettere ai figli incontaminate e degne, che le nuore dovranno ricevere e che di nuovo  si dovranno consegnare ai nipoti.
  16. Dunque vivono la vita con stretta castità, non corrotte da nessuno spettacolo allettante, né da stimoli di conviti. Gli uomini come le donne ignorano le lettere segrete. Gli adulteri sono rarissimi in un popolo così numeroso, la pena dei quali è immediata e affidata ai mariti. Tagliati i capelli, il marito caccia dalla casa la moglie denudata alla presenza dei parenti e la spinge con una sferza per tutto il villaggio. Nessun perdono c’è per la pudicizia violata, non troverebbe marito con la bellezza, non con la gioventù, non con la ricchezza. Infatti colà nessuno ride dei vizi, e il corrompere e l’essere corrotto non si chiama andar col tempo. Quei popoli invero operano meglio ancora, presso i quali le vergini soltanto si sposano e si porta a compimento una sola volta la speranza e i voti di moglie. Così ricevono un solo marito in quel modo in cui un solo corpo ed una sola vita, affinché nessun pensiero vi sia di là, affinché non vi sia alcun desiderio più lungo, affinché non lo amino come marito ma come matrimonio. Limitare il numero dei figli e uccider alcuno dei figli si ha in conto di azione vergognosa e qui i buoni costumi hanno forza più che altrove le buone leggi.
  17. In ogni casa crescono nudi e trascurati fino a raggiungere queste membra in questi corpi che noi ammiriamo. La propria madre allatta ciascuno col proprio seno e non sono affidati a fantesche o a nutrici. Non si potrebbe distinguere per mollezze di educazione il padrone dallo schiavo: vivono in mezzo agli stessi bestiami, sullo stesso terreno, finché l’età separi i liberi, il valore li faccia riconoscere. L’amore per i giovani giunge tardi e perciò la gioventù è inesauribile. Le fanciulle non si maritano presto, hanno una medesima gioventù, una stessa alta statura:si uniscono a mariti di altrettanta valida età e i figli riproducono le forze dei genitori. Il medesimo trattamento è ai figli delle sorelle presso lo zio che presso il padre. Alcuni stimano questo vincolo di sangue più sacro e più stretto, domandano di preferenza negli ostaggi che si devono ricevere come se i nipoti conservassero più saldamente l’animo e più ampiamente i sentimenti della famiglia. Eredi tuttavia  e successori sono a ciascuno i propri figli e non si fa alcun testamento. Se non ci sono figli, il più vicino grado nel pigliare possesso degli averi sono i fratelli, gli zii paterni, gli zii materni. Quanto più di congiunti, tanto maggiore è il numero degli affini, tanto la vecchiezza  è più influente. Né vi sono alcuni vantaggi dall’essere senza figli.
  18. E’ dovere addossarsi così le inimicizie del padre o di un parente quanto le amicizie: né durano implacabilmente. Si sconta infatti anche un omicidio con un determinato numero di capi di bestiame e ne riceve soddisfazione tutta la famiglia, con vantaggio di tutti giacché le inimicizie sono assai più pericolose in regime di libertà. Nessuna altra nazione si abbandona con più passione ai banchetti e all’ospitalità: si considera delitto non accogliere in casa qualsivoglia persona. Ognuno lo riceve a tavola imbandita secondo le sue possibilità. Quando vengono meno, chi prima arriva era ospite di uno, lo porta da un altro e gli fa da compagno; entrano senza essere invitati nella casa più vicina. Non importa: sono accolti con pari cortesia. Conosciuto e sconosciuto, quanto a diritto d’ospitalità nessuno fa distinzione. Quando l’ospite se ne va, se chiede alcuna cosa è d’uso dargliela e d’altra parte si ha la stessa libertà di chiedere. Si compiacciono dei doni, ma né esigono riconoscenza né si tengono obbligati per i doni ricevuti. I rapporti tra gli ospiti sono cordiali.
  19. Appena svegliati dal sonno che spesso protraggono fino a giorno avanzato, il più delle volte si lavano con acqua calda perché l’inverno presso di quelli occupa gran parte del tempo. Dopo essersi lavati, mangiano: ad ognuno sedi separate e mensa personale. Poi armati vanno alle loro occupazioni e non meno spesso ai conviti. Per nessuno è obbrobrioso passare il giorno e la notte a bere. Le frequenti risse, come tra ubriachi, raramente finiscono con ingiurie, più spesso con uccisioni e ferite. Ma anche intorno alle riconciliazioni tra gli avversari, agli accordi matrimoniali e alla scelta dei capi, infine intorno alla pace e alla guerra trattano per lo più nei banchetti come se in nessun altro momento come in quello l’animo possa aprirsi a pensieri sinceri o riscaldarsi per questioni di grande importanza. Questa gente non astuta né accorta apre anche i segreti del cuore nella licenza dei sollazzi, dunque la mente di tutti è chiara e sincera. Il giorno dopo l’affare è ripreso e si ottengono i vantaggi dell’uno e dell’altro momento: deliberano quando non possono fingere, decidono, quando non possono errare.
  20. Serve da bevanda un liquido fatto di orzo o frumento manipolato a mo’ di vino. I più vicini al Reno comprano anche del vino. Cibi semplici, frutti selvatici, cacciagione fresca o latte cagliato: cacciano la fame senza banchetti sontuosi, senza leccornie. Riguardo al bere non hanno la stessa temperanza. Se si asseconderà la loro tendenza all’ubriachezza, somministrando quando desiderano, saranno vinti da questo vizio non meno facilmente che dalle armi.
  21. Uno è il genere degli spettacoli e lo stesso in ogni riunione. Giovani nudi, per i quali ciò costituisce divertimento, spiccano salti tra le spade e le lance puntate. L’esercizio procura l’abilità, l’arte la grazia. Tuttavia non per vantaggio o mercede: il piacere degli spettatori costituisce il prezzo al loro gioco alquanto audace. Dei dadi, ciò che fa meraviglia, si servono quando sono sobri tra occupazioni serie, con tanta temerarietà nel vincere o nel perdere che, quando tutto viene a mancare, proprio con l’ultimo colpo, giocano la loro libertà personale. Il vinto accetta una volontaria servitù: per quanto giovane e forte, accetta di essere legato e venduto. Così grande in questo vizio è la tenacia; essi la chiamano lealtà. Vendono i servi di tal genere per liberarsi anche della vergogna della vittoria.
  22. Non si servono degli altri schiavi secondo il nostro uso, assegnando a ciascuno un ufficio particolare: ciascuno governa la sua casa, i suoi penati. Il padrone impone un moggio di frumento o di bestiame o di tessuto, come a un colono, e il servo obbedisce fino a questo punto; tutti gli altri compiti della casa sono eseguiti dalla moglie o dai figli. E’ raro che un servo sia percosso o gettato in carcere o costretto a lavori: sogliono ucciderli non per disciplina o severità ma per un impeto d’ira, come contro un avversario; se non che il delitto rimane impunito. I liberti non sono molto al di sopra dei servi, raramente hanno qualche influenza nella casa, mai nella città, eccettuate soltanto le popolazioni governate da un re. Qui infatti sono al di sopra dei liberi e dei nobili; l’inferiorità dei liberti presso gli altri popoli è prova di libertà.
  23. Prestar denaro ed aumentare gli interessi fino all’usura, è ignoto; perciò se ne astengono più che se fosse vietato. I campi sono occupati a turno da tutti secondo il numero dei coltivatori, sono poi divisi fra loro secondo il grado; la vastità dei campi rende facile la divisione. Ogni anno mutano i campi coltivati e il terreno abbonda. Né infatti per fatica gareggiano con la fertilità e l’ampiezza del suolo per piantare frutteti, per dividere il terreno in prati e per irrigare gli orti: il solo grano è richiesto alla terra. Perciò non dividono l’anno in altrettante stagioni ( come noi): l’inverno, la primavera, l’estate sono conosciuti ed hanno il loro nome così come ignorano il nome e i prodotti dell’autunno.
  24. Nessuno sfoggio dei funerali, questo solo è osservato che il corpo degli uomini illustri sia cremato con legna particolari. Né con vesti né con odori accatastano la massa del rogo: a ciascuno le sue armi, per alcuni al fuoco è aggiunto anche il cavallo. Una zolla di terra costituisce il sepolcro; disprezzano un monumento eccelso e una complicata architettura come grave per i morti. Depongono presto i lamenti e le lacrime, tardi il dolore e la tristezza. Conviene alle donne piangere, agli uomini ricordare. Queste cose in generale abbiamo appreso sull’origine e i costumi di tutti i germani: ora tratterò delle istituzioni e dei riti dei singoli popoli, quanto differiscono e quali genti dalla Germania siano passate in Gallia.
  25. Il divo Giulio, grande storico, afferma che un tempo la potenza dei Galli era più prestigiosa; perciò è credibile che anche i Galli siano emigrati in Germania. Infatti che piccolo ostacolo presentava un fiume per impedire che un popolo che era diventato forte, occupasse e si trasferisse in luoghi comuni e non divisi ancora in regni potenti? Dunque fra la selva Ercinia e i fiumi Reno e Meno si stabilirono gli Elvezi, nelle zone al di là i Boni, stirpi entrambe galliche. Rimane ancora il nome di Boemi ed indica l’antica storia del luogo, sebbene gli abitanti siano mutati. Ma è incerto se gli Aravisci siano emigrati nella Pannonia separandosi dagli Osi, stirpe germanica o se gli Osi in Germania dagli Aravisci dal momento che si servivano di una stessa lingua, istituzioni e costumi,poiché un tempo pari per povertà e libertà avevano gli stessi beni e gli stessi mali sia sull’una che sull’altra sponda. I Treviri e i Nervi vanno oltremodo ambiziosi per ciò che riguarda la pretesa dell’origine germanica, pensando che per questa gloria del sangue, siano separate dalla somiglianza e inerzia degli altri Germani. Vangioni, Triboci, Nemeti, popoli indubbiamente germanici, abitano la stessa riva del Reno. Neppure gli Ubii, sebbene abbiano meritato di essere colonia romana, e siano chiamati più volentieri Agrippinensi dal nome del suo fondatore, si vergognano dell’origine passati un tempo,  dopo aver sperimentato la loro fedeltà, collocati sulla stessa riva del Reno per tener lontani gli altri, non per essere meglio sorvegliati.
  26. Di tutte queste genti primeggiano per valore i Batavi che abitano non molta parte della riva ma il delta del Reno, un tempo parte del popolo dei Catti, passati in quelle sedi per sedizione interna, nelle quali sarebbero diventati parte dell’impero romano. Conservano l’onore privilegiato dell’antica alleanza,; infatti non sono umiliati con tributi né il publicano li manda in rovina, liberi da oneri e contribuzioni, riservati solo per necessità di guerra, come dardi o armi, sono tenuti da parte per le guerre. E’ nella stessa dipendenza anche il popolo dei Mattici; infatti la grandezza del popolo romano impose oltre il Reno ed oltre gli antichi confini, il rispetto per l’impero. Così per sede e confini, nella riva del Reno,per pensiero e animo vivono con noi, simili per il resto ai Batavi, se non che sono animati maggiormente dal suolo della loro terra e dal cielo. Non potrei numerare tra i popoli di Germania, sebbene risiedano tra il Reno e il Danubio, quelli che lavorano i campi dicumati: gli infimi dei Galli e la povertà audace occuparono quel luogo di proprietà malsicura; in seguito tracciato un limite e portate avanti le fortificazioni sono ritenuti prolungamento dell’impero e parte della provincia.
  27. Oltre costoro i Catti abitano il paese che comincia dalla selva Ercinia; regioni non così piane e palustri come le altre città in cui si estende la Germania, poiché le colline continuano, a poco a poco diradano e la selva Ircinia prosegue coi suoi Catti e finisce con loro. Hanno corpi forti, membra muscolose, volto minaccioso e una maggiore fortezza d’animo. Per il fatto di essere Germani sono molto intelligenti e abili: eleggono capi degni, obbediscono ai capi, mantengono l’ordine, colgono l’occasione, trattengono il loro impeto, dispongono le occupazioni nella giornata, si circondano di notte con difese, pongono la buona fortuna nelle cose incerte, il valore tra le certe e cosa molto rara e concessa alla disciplina romana, ripongono più fiducia nel generale che nell’esercito. Tutto il nerbo è nella fanteria che essi caricano oltre che delle armi anche degli utensili di ferro e provviste; vedi gli altri andare in battaglia, i Catti in guerra. Rare sono le scaramucce e le scorrerie. E’ proprio della cavalleria giungere presto alla vittoria e presto ritirarsi: la velocità è più simile alla paura,la lentezza al coraggio.
  28. Un’usanza raramente usata dagli altri popoli germanici e solo come ardimento sporadico di qualcuno, è uso comune fra i Catti, appena si cresce, lasciarsi crescere barba e capelli né mutare l’aspetto del volto per voto e obbligo di virtù, se non dopo aver ucciso un nemico, sopra il sangue e le spoglie, tagliano la barba e allora finalmente dicono di aver meritato di nascere e di essere degni della patria e dei genitori: ai vili ed imbelli rimane l’aspetto squallido. I più forti portano inoltre un anello di ferro ( il che è segno di vergogna per quel popolo) come simbolo di servitù, finché li sciolga con l’uccisione del nemico. A molti dei Catti piace tale aspetto e già alcuni canuti portano quel distintivo oggetto di attenzione per i nemici come per i loro. A tutti questi è affidato l’inizio del combattimento; questi costituiscono sempre la prima schiera, spaventosi a vedersi; Infatti neppure in pace mostrano un volto più mite. Non hanno casa, campo né preoccupazione di alcun genere; presso chiunque si rechino, sono alimentati, prodighi dell’altrui, dispregiatori del proprio, finchè la debole vecchiaia li renda inabili a così aspra virtù.
  29. Più vicini ai Catti dove il Reno scorre con alveo regolare, tanto che da solo basta per confine, abitano Usipi e Teuteri. I Teuteri oltre alla solita abilità di guerra, si distinguono nell’arte dell’equitazione; né maggiore è presso i Catti la lode per i fanti che presso i Teuteri per i cavalieri. Così stabilirono gli antenati; i posteri lo imitano; questi sono i giochi dei bimbi, le gare dei giovinetti, li continuano i vecchi. Insieme con gli schiavi e i diritti di successione, i cavalli sono tramandati. Li riceve il figlio, non come le altre cose, il maggiore per età, ma il più fiero in guerra e il più valoroso.
  30. Vicino ai Teuteri una volta si presentavano i Brutteri; ora si dice che i Camavi e Angivari siano emigrati, cacciati i Brutteri e uccisi interamente in lega coi popoli vicini o per odio per l’arroganza o sia cupidigia di preda o per qualche favore degli dei nei nostri confronti; infatti gli dei non ci tolsero lo spettacolo della battaglia. Oltre 600 mila non per le armi e i dardi romani, ma ciò che è più splendido, caddero per diletto degli occhi. Rimanga, prego, e duri per quella gente, se non l’amore per noi, almeno l’odio per i loro, poiché, incalzando i fati l’impero, poiché nulla ormai la fortuna di più grande ci può procurare che la discordia dei nemici.
  31. I Dulguni e Casuari chiudono dalle spalle gli Angivari e i Camavi e altre genti non ugualmente degne di memoria, i Frisii seguono ad occidente. I Frisi hanno l’appellativo di maggiori o minori a seconda della loro potenza. Entrambe queste nazioni fino all’oceano sono racchiuse dal Reno e abitano inoltre grandi laghi navigati dalle flotte romane. Cercammo di esplorare l’oceano da quella parte e la fama ha divulgato che vi sono ancora le colonne di Ercole sia che Ercole sia giunto lì, sia che siamo soliti attribuire a sua gloria ogni azione grande compiuta in qualunque luogo. Né mancò l’audacia a Druso Germanico ma l’oceano si oppose acchè fosse investigato nello stesso tempo lui stesso e intorno ad Ercole. Poi nessuno tentò e sembrò più sacro e reverenziale credere che investigare intorno alle azioni degli dei.
  32. 35. Fino a questo punto abbiamo conosciuto la parte occidentale della Germania; volge a settentrione con un grande arco. E in primo luogo subito vi è la gente dei Canci, che, sebbene cominci dai Frisi e occupi parte del litorale, si stende ai fianchi di tutte le popolazioni di cui ho parlato, finché s’insinua fino ai Catti. I Canci non solo occupano ma anzi riempiono una così immensa regione; popolo nobilissimo tra i Germani, che preferisce conservare la sua grandezza con la giustizia. Senza cupidigia, senza prepotenza, in appartata tranquillità non suscitano guerre, non devastano con saccheggi e rapine. Questo è la prova più alta del valore e della forza, il fatto che, per affermare la loro supremazia, non si servono delle offese; tuttavia tutti hanno pronte le armi e, se la circostanza lo richiede, un esercito, un gran numero di uomini e cavalli e mentre sono in pace godono della stessa fama.
  33. A fianco dei Canci e dei Catti, i Cherusci, mai provocati, infiacchirono in una snervante pace: ciò fu più piacevole che sicuro, poiché falsamente si riposa tra i prepotenti e i forti: ogni qualvolta si combatte, la modestia e la probità sono del vincitore. Così i Cherusci, un tempo chiamati buoni e giusti, ora sono detti stolti e vili: per i Catti vincitori la fortuna si tramutò in saggezza. Furono trascinati nella rovina dei Cherusci anche i Fasi, popolo vicino che, mentre delle cose avverse partecipano in ugual misura, nella fortuna furono stimati inferiori.
  34. Vicini all’Oceano, i Cimbri occupano quella stessa penisola della Germania, ora popolo piccolo, ma grande per gloria. Rimangono grandi resti dell’antica fama, vasti accampamenti sull’una e sull’altra riva, dall’ampiezza dei quali anche ora si potrebbe misurare la gran mole della gente e la credibilità di sì grande emigrazione. La nostra città esisteva da 640 anni, quando per la prima volta si sentì parlare delle imprese dei Cimbri, essendo consoli Cecilio Metello e Papirio Carbone. Da allora, se calcoliamo fino al 2 consolato dell’imperatore Traiano, si sommano quasi 210 anni: da tanto si tenta di sottomettere la Germania. In un così lungo spazio di tempo vi furono molti vicendevoli danni. Non i Sanniti, i Cartaginesi, la Spagna, la Gallia, neppure i Parti ci diedero spesso tali lezioni; poiché la libertà dei Germani è più forte del regno di Arsaco. Infatti che altro, oltre la strage di Crasso, perduto lo stesso Paccro, l’oriente vinto da Ventidio, ci potrebbe opporre? Ma i germani sbaragliati e fatti prigionieri Carbone, Cassio, Scauro Aurelio, Servilio Ceprione, Marco Mallio, annientarono 5 eserciti consolari del popolo romano e tolsero anche a Cesare Varo e 3 legioni con lui; non impunemente li colpirono Mario in Italia, il divo Iulo in Gallia, Druso, Nerone e Germanico nelle loro terre; ora le grandi minacce di Gaio Cesare si sono volte in scherno. Poi ci fu pace, finchè in occasione della nostra discordia e delle guerre civili, espugnati gli accampamenti invernali delle legioni, volsero le loro mire anche alla Gallia; e di nuovo cacciati di là, negli ultimi tempi si celebrarono più trionfi che vittorie.
  35. Ora bisogna parlare dei Sulbi, dei quali non vi è un solo popolo, come per i Catti e i Teuteri; infatti occupano la maggior parte della Germania, divisi ancora con nazioni proprie e nomi diversi, sebbene nel complesso siano chiamati Suebi. E’ caratteristico di questo popolo torcere la chioma verso l’alto e stringerla in un nodo: così si distinguono i Suebi dagli altri Germani, così i liberi dagli schiavi. Presso altre popolazioni sia a causa di qualche consanguineità coi Suebi, sia,come spesso avviene, per imitazione, ciò è raro e riservato agli anni giovanili: i suebi fino alla vecchiaia piegano indietro i capelli irti e spesso li legano al sommo della testa; i capi hanno la chioma più ornata. E’ preoccupazione di bellezza ma innocente; né infatti per amare o essere amati ma per andare in guerra in certo qual modo più alti e più terribili, si adornano in modo più acconcio per gli occhi dei nemici.
  36. Si dice che i Semmoni siano i più antichi e nobili dei Suebi, la prova della loro antichità è confermata da credenze religiose. In un tempo fissato si riuniscono per mezzo di rappresentanti in una selva sacra per i riti degli avi e per antica paura tutti i popoli dello stesso sangue e, ucciso un uomo, in nome dello stato, celebrano l’orribile principio del barbaro rito. Vi è un’altra manifestazione di riverenza per il bosco: nessuno, se non legato, può entrare come inferiore e mostrando il potere del dio su di lui. Se per caso qualcuno cade, non è lecito che sia rialzato o si rialzi: deve rivoltarsi per terra. Questa superstizione sta ad indicare che, come di là deriva l’origine della gente, là c’è il dio che regna su tutti, che ogni cosa gli è soggetta e gli obbedisce. Aggiunge autorità la potenza dei Sennoni. Abitano 100 villaggi e da questa grande moltitudine deriva il fatto che si credano la stirpe più importante dei Suebi.
  37. Al contrario la scarsezza rende famosi i Longobardi, circondati da molti e forti nazioni, acquistano sicurezza non con la sottomissione, ma combattendo e affrontando pericoli. Di poi i Rendigni, Avioni, Angli; Varini, Endosi, Suardoni, Nuitoni sono circondati da fiumi e selve. Non vi è nulla degno di nota in ciascuno se non che onorano tutti Nerto, cioè la Terra madre e pensano che intervanga nelle cose degli uomini e sia trasportata da un cocchio in mezzo ai popoli. Vi è in un’isola dell’Oceano un bosco sacro, in esso vi è un carro votivo, coperto da un drappo; al solo sacerdote è concesso toccarlo. Questo comprende che la dea è nella parte più profonda del bosco e la segue con molta devozione mentre è trasportata da giovenche. Allora i giorni sono lieti, i luoghi adorni a festa, in cui si degna di andare e di risiedere. Non intraprendono guerre, non prendono armi, ogni ferro è riposto, allora sono conosciute soltanto la pace e la quiete, allora soltanto amate finché lo stesso sacerdote riconduce al tempio la dea, sazia della compagnia degli uomini. Poi il carro e la veste e, se lo vuoi credere, lo stesso nume è lavato in un lago appartato. Servi attendono a ciò che subito lo stesso lago inghiotte. Da qui un arcano terrore, una sacra ignoranza di che cosa sia quello che vedono soltanto alcuni destinati a morire.
  38. Questa parte dei Suebi si protende nelle parti più remote della Germania: la città più vicina per seguire il corso del Danubio, come poco fa ho seguito quello del Reno, è quella degli Ermunduri, fedele ai Romani, perciò soli tra i Germani possono esercitare il commercio non sulla riva ma internamente e nella bellissima colonia della provincia Rezia. Passano dovunque senza scorte; e mentre alle altre genti mostriamo solo le armi e i nostri accampamenti, a questi apriamo le case e le ville senza che le desiderino. Fra gli Ermunduri nasce l’Albi, fiume un tempo famoso e noto, ora si conosce solo per nome.
  39. Vicino agli Ermunduri vivono i Naristi e poi i Marcomanni e i Quadri. Grandissima è la gloria e la forza dei Marcomanni e con la virtù si procacciano anche la sede, cacciati i Boi. Né i Naristi o i Quadri tralignano. Essi sono come la fronte della Germania, in quella parte che è cinta dal Danubio. Fino ai nostri tempi i Marcomanni e i Quadri ebbero re tratti dalla loro gente, nobile stirpe di Maroboduo e Tundro ( ora sono sottomessi a re stranieri) ma la forza e la potenza a questi re viene dall’autorità di Roma. Raramente sono aiutati dalle nostre armi, più spesso dal denaro, né sono meno valorosi.
  40. Dietro i Marsigni, i Cotini, gli Osi chiudono le spalle dei Marcomanni e dei Quadri. Tra questi i Marsigni e i Buri per linguaggio e vestiario ricordano i Suebi: la lingua gallica dei Cotini e la pannonica degli Osi dimostra che non sono germanici ed il fatto che sopportano tributi. I Sarmati impongono parte dei tributi, parte i quadri come a stranieri. I Cotini, per maggior vergogna, scavano il ferro nelle miniere. Tutti questi popoli hanno occupato poco territorio in pianura ma soprattutto passi e vette di monti e di gioghi. Infatti una ininterrotta catena di monti divide la Suebia, al di là vivono molte popolazioni, tra le quali occupa un vasto tratto il popolo dei Lugi, che si ramifica in più città. Basterà nominare le più forti: Ari, Elvani, Manimi, Elisi, Naarvali. Presso i Naarvali esiste la sede di un antico culto religioso. Presiede un sacerdote con acconciatura femminile, ricordano Castore e Polluce come dei, identificandoli con divinità romane. La forza del nome è la stessa, il nome è Alci. Nessuna statua, nessuna traccia di riti stranieri; tuttavia sono venerati come fratelli, come giovani. Del resto gli Arii, oltre alle forze con cui superano i popoli menzionati poco prima, truci, accrescono la ferocia naturale con artifici e con scelta del tempo: scudi neri, corpi dipinti; per le battaglie scelgono notti nere e con la terribile e tenebrosa apparizione, di un esercito di ombre, incutono terrore, non sostenendo nessuno dei nemici, quel nuovo ed infernale aspetto; infatti in ogni combattimento gli occhi sono vinti per primi.
  41. Al di là dei Lugi,regnano i Gotoni, governati alquanto più rigidamente delle altre stirpi germaniche, tuttavia non al punto che la libertà sia distrutta. Subito dopo dalla parte dello Oceano Rugi e Semovi, di tutte queste genti il segno distintivo sono scudi rotondi, spade corte e l’ossequio per il re. Di qui, nello stesso Oceano, le popolazioni dei Suebi, oltre che per gli uomini e per le armi, sono potenti per le flotte. La forma delle navi differisce poiché la prora, da ambedue le estremità, offre la parte anteriore all’approdo. Non governano con le vele né dispongono i remi in ordine sui fianchi; il remeggio è libero, come sopra certi fiumi e adattabile da una parte o dall’altra, come richiede la circostanza. Tengono in conto anche le ricchezze, e perciò uno solo governa, senza limite alcuno, senza che il diritto all’obbedienza sia precario; né le armi, come avviene presso gli altri Germani, sono a disposizione di tutti, ma rinchiusi sotto un custode e precisamente uno schiavo, poiché l’oceano impedisce gli improvvisi attacchi dei nemici e i manipoli armati facilmente diventano arroganti: invero non sarebbe vantaggioso per un re affidare armi a nobili, a liberi, né a liberti.
  42. Al di là dei Suioni vi è un altro mare pigro e quasi immobile dal quale si crede che la terra sia circondata e racchiusa perché l’estrema luce del sole che cade dura sino all’altra così chiara che offusca le stelle. Si aggiunge la credenza che si oda il suono di lui che sorge e si scorgono le forme dei cavalli e l’aureola del capo. Fin qui soltanto, ed è opinione vera, giunge il mondo. Dunque ad oriente del mare Subico sono bagnate le genti degli Esti, i quali per i costumi e l’aspetto sono vicini ai Suebi, la lingua ai Britanni. Adorano la madre degli dei. Come simbolo di credenza portano forme di cinghiali. Questo al posto delle armi come difesa contro tutti i pericoli rende il devoto della dea sicuro anche tra i nemici. Raro è l’uso del ferro, frequente quello del bastone. Si occupano della coltivazione del grano e degli altri frutti con maggiore costanza di quanto sia solita l’indolenza dei germani. Esplorano anche il mare, e soli fra tutti , raccolgono l’ambra che chiamano gleso tra i bassifondi e la stessa spiaggia. Barbari come sono, non si sono chiesto né hanno scoperto quale sia la sua natura né che cosa la generi; a lungo anzi giaceva fra gli altri rifiuti del mare finchè il nostro lusso non le diede pregio. Essi non se ne servono: è raccolta allo stato grezzo, si porta sui mercati non lavorata e stupefatti ne ricevono il prezzo. Tuttavia si può capire che è succo di alberi, poiché si scorgono in trasparenza alcuni animali fra quelli che strisciano e quelli che volano che, invischiati nel liquido, poi, indurendo la materia, sono rinchiusi dentro. Dunque, come nei recessi più profondi dell’oriente io sarei propenso a credere che vi sono selve e boschi più ricchi, dove trasudano incensi e profumi, così vi sono nelle isole e sulle terre dell’Occidente sostanze che sotto i raggi del vicino sole si sprigionano e liquidi scorrono fino al prossimo mare e sono poi gettate su sponde opposte dalla forza delle tempeste. Se tu investighi la natura del succo, avvicinandolo al fuoco, si accenderebbe come fiamma e alimenterebbe una fiamma grassa e profumata; poi come pece o resina si ammollirebbe. Ai Suinobi segue il popolo dei Sitoni. Simili per le altre cose, differiscono soltanto perché sono dominati dalle donne, di tanto degenerano non solo dalla libertà ma anche dalla servitù.
  43. Qui finisce la Suebia. Dubito se assegnare ai Germani o ai Sanniti le genti dei Peucini, dei Veneti, e dei Fermi sebbene i Peucini che alcuni chiamano Bastami, per lingua, per costumi, per le dimore fisse vivono come Germani. La sporcizia è di tutti, la pigrizia è dei capi. A causa di connubi misti, hanno deturpato il loro aspetto in modo simile a quello dei Sarmati. I Veneti hanno tratto molto dai costumi di costoro; infatti percorrono, commettendo ruberie, le zone selvose e montuose tra i Peucini e i Fermi. Costoro tuttavia sono da paragonarsi piuttosto ai Germani, poiché hanno dimore fisse, usano gli scudi e vanno a piedi e velocemente, tutte queste cose sono diverse dai Sannati che si fanno trasportare dal carro e dal cavallo. I Fermi sono di incredibile selvatichezza, di una squallida povertà; non hanno armi, cavalli, penati; si cibano di erba, si vestono di pelli, giacciono per terra; la sola speranza è nelle frecce, che rendono aguzze con punte di osso per mancanza di ferro. La stessa caccia alimenta uomini e donne; dappertutto infatti le donne accompagnano gli uomini e pretendono la preda. Né i bimbi hanno altro rifugio contro le fiere e le piogge che il coprirsi con qualche capanna di rami; qua tornano da giovani, qui si rifugiano da vecchi. Pensano che ciò sia più piacevole che travagliare nei campi, affaticarsi a costruire case, amministrare le proprie e le altrui sostanze tra speranze e timori: non temendo uomini né dei, hanno raggiunto la cosa più difficile, non provare neppure lo stimolo del desiderio. Tutto il resto è fantastico; che gli Eleusi e gli Ossioni hanno faccia di uomini e corpo di fiere; ciò lascerò indeciso poiché non accertato.

Agricola

Veramente felice, o Agricola, non solo per la visibilità della vita ma anche per l’opportunità della tua morte. Come riferiscono coloro che furono presenti ai tuoi ultimi discorsi, tu affrontasti il tuo destino con fermezza e a viso aperto come se donassi al principe l’innocenza per la tua parte di uomo. Ma oltre al dolore per il padre strappatoci, accresce la tristezza  a me e a sua figlia,  il fatto che non ci fu data la possibilità di assistere  alla malattia, di confortare te che stavi per morire, di essere sazi del tuo volto e dei tuoi abbracci. Avremmo raccolto le ultime raccomandazioni e parole, che avremmo scolpito profondamente nel nostro animo. Questo è il nostro dolore e la nostra ferita; tu sei stato strappato a noi 4 anni prima a causa della tua così lunga assenza. Migliore tra i padri, senza dubbio hai avuto per il tuo onore ogni cosa in abbondanza, con la presenza costante della tua innamoratissima moglie; tuttavia sei stato compianto con assai poche lacrime e l’ultimo giorno i tuoi occhi desiderarono qualche altra cosa.

ANNALES

VI,20

Ma io quando sento raccontare questo ed altri simili fatti, non so giudicare se le vicende umane si sviluppino come vuole il fato e una necessità immutabile o a caso. Infatti opinioni contrastanti si troveranno espresse dai più grandi sapienti dell’antichità e dai loro seguaci;  in molti c’è la convinzione che gli dei non si preoccupino del nostro inizio né della nostra fine né degli uomini. Per questo motivo  molto  spesso ai buoni capitano disgrazie e ai cattivi soggetti una vita felice. Altri invece ritengono che gli avvenimenti seguano il fato, determinato però non dai movimenti  celesti, ma dai principi e dai nessi delle cause naturali; eppure pensano  che sia in nostro potere la scelta del genere di vita: una volta però, fatta la scelta, la successione degli avvenimenti successivi è rigidamente fissata. Ritengono che il male  o il bene non deve essere giudicato secondo il criterio del popolino: molti che sembrano travagliati dalle avversità sono felici, e molti invece,pur possedendo grandi ricchezze, sono i più infelici di tutti, se i primi sopportano con animo fermo la sorte avversa e gli altri  non sanno comportarsi  nella buona sorte. Del resto non si può togliere dalla testa della gran maggioranza degli uomini che fin dal momento della nascita è fissato per ciascuno il destino, ma che certi avvenimenti accadono diversamente da come sono stati predetti a causa delle menzogne degli indovini che non conoscono il loro mestiere.