GIOVANNI COMISSO

Nato a Treviso il 1895 da una famiglia borghese, partecipò al I conflitto mondiale e all’impresa dannunziana di Fiume.

Morì a Treviso nel 1969.

Fece il commerciante marittimo sull’Adriatico, il mercante d’arte a Parigi, il libraio a Milano, l’agricoltore e l’avvocato.

 Frequentò il letterato Mario Maria Martini, che gli suscitò profonda antipatia. Da questa esperienza derivò il romanzo Il delitto di Fausto Diamante (1933).

 Invitato a bordo del veliero dal capitano Gamba, passò l’estate Al vento dell’Adriatico: da questo e dai successivi viaggi trasse il suo libro Gente di mare (1928). in cui sono raccolti i racconti ambientati a Chioggia, sul mare, sulle coste istriane e dalmate. 

Cominciò a fine anno a collaborare al quotidiano “Camicia Nera” e scrisse articoli di letteratura, arte e politica.

Nel 1923 si iscrisse all’Università di Siena per portare a termine gli studi di giurisprudenza; si laureerà nel 1924, con una tesi sui diritti d’autore.

Ne Il porto dell’amore, del 1925 (ristampato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico), che risente dell’influsso dannunziano, raccontò la sua esperienza fiumana. Fu pubblicato da una tipografia trevigiana con i soldi ricavati dalla vendita di un impermeabile. La recensione favorevole di Eugenio Montale lo farà conoscere nel mondo letterario. Ricevette il premio Baguttanel 1928 e venne riconosciuto unanimamente “scrittore italianissimo”

In Gente di mare, del 1928, c’è un modo di raccontare asintattico, per cui le città, i personaggi, i paesaggi compaiono e spariscono subito ricadendo nell’ombra; si nota la capacità di creare personaggi comunicanti col lettore per un’irradiazione di onde in modo breve e sincopato.

Continuò la sua collaborazione con il quotidiano trevigiano. Navigò durante l’estate a bordo del Gioiello tra le coste e le isole della Dalmazia, pubblicando alcuni racconti.

Si vestiva come un marinaio, lavorando con i portuali.

 Nel 1926 venne invitato a lavorare a Milano, presso la Galleria d’arte L’Esame e l’annessa libreria.

Qui conobbe gran parte degli intellettuali della metropoli lombarda: Montale, Borgese, Gadda.

L’anno dopo successivo andò a Parigi e rimase affascinato dalla città, frequentando con Filippo De Pisis i locali più ambigui, la gente più balzana.

Nel 1928 morto il padre, con i soldi dell’eredità ritornò a Parigi dove condusse una vita disordinata e frenetica, sempre assieme a De Pisis.

Un gatto attraversa la strada, del 1955: i racconti gli fecero vincere il Premio Strega e lo identificarono come scrittore sensuale, istintivo, immediato; nel testo predomina l’asintassi: solo coordinate, niente subordinate, cambio continuo di soggetto, uso frequente della virgola, velocità.

Non v’era, gli occhiali erano sulla tavola dove li aveva buttati, la porta era aperta, andò verso la luce, l’aria fresca gli batteva sul volto, la luce lo accecava, vide il mare tremulo al vento che si era levato, scese i gradini della breve scaletta, pensava di fuggire, di andare via.

Capricci italiani, nel 1952 gli fece vincere il premio Viareggio.

 Attraverso il tempo, nel 1968

Postumi:

 Diario nel 1951- 1964, del 1969

Gioventù che muore, nel 1971: nel protagonista Guido, lo scrittore fonde con la semplicità che lo contraddistingue, tutte le doti essenziali e tradizionali del giovane. C’è il lui l’aspirazione alla libertà, la disponibilità ad ogni atto generoso, il disprezzo per il rischio, la sensualità, le instabili passioni per l’avventura. Il personaggio femminile, Adele, l’amante non più giovane di Guido, ci introduce in un mondo di intimità e di scoperte sottili, magiche, sperimentate soltanto da una donna innamorata e contemporaneamente nel mondo delle tenerezze e delle angosce di una madre.

Il sereno dopo la nebbia, nel 1974.

Tra i saggi: Capricci italiani, nel 1952.

Mio sodalizio con De Pisis, nel 1954

La virtù leggendaria, nel 1957

Fu scrittore d’istinto e consegnò alla pagina l’esperienza di una vita trascorsa come meravigliosa, felice avventura. In lui si trovano due tendenze: la prima predomina in gioventù (avventure diverse, esotismo, Amori d’oriente, che fa parte degli itinerari di un italiano errante, cioè delle esperienze fatte come inviato, anzi come maestro di questo genere giornalistico, sviluppato in Questa è Parigi, Cina e Giappone, La favorita), la seconda della maturità in poi (Treviso, “casa di campagna”)

La mia casa di campagna è la sua opera più felice: l’ispirazione scaturisce da un segreto e appassionato sposalizio con la sua terra del Veneto.

Altro sviluppo “naturale”: dall’istinto al sentimento.  La chiave di ciò si trova nel libro LE mie stagioni, autobiografia dal 1918 al 1945. Il titolo stesso è indicativo: le fasi della vita come stagioni. Giovinezza, maturità, vecchiaia sono in lui nettamente distinte: la giovinezza è sensuale ed egoista, gli anni maturi sono più caldi, si aprono alla vita altrui.

In lui è assente ogni architettura, qualsiasi ordine precostituito, o tavola di valori intellettuali e morali.

La sua filosofia, venuta a galla col passaggio degli anni, è il senso della verità, ritrovata facendosi parte della natura, devoto ai suoi cicli creativi.

Nelle mie stagioni non c’è la storia della sua vita: ne racconta solo qualche episodio ma non la guarda dall’alto, non lo teorizza.

Giorni di guerra, del 1930, è un romanzo di guerra, autobiografico, una sorta di diario itinerante. I luoghi sono vari: Cormons, Gorizia, Alto Isonzo, Pordenone, Treviso, Bassano e altre località.

L’attenzione è rivolta particolarmente al paesaggio piatto della pianura veneta. (“Camminammo sotto un sole fortissimo per una strada sempre tra meravigliosi campi di frumento”.) 

La comunicazione con la natura è uno dei maggiori piaceri offerti dalla guerra e la necessità di un contatto fisico con la terra compare lungo tutto il romanzo.

La natura, però, non è un elemento estetico che si esaurisce in sé stesso, ma è un elemento che fa scaturire emozioni. Infatti la natura viene goduta sia individualmente, nei momenti in cui Comisso sente la necessità di stare solo, sia quando è in compagnia.

 (“Distesi invece sull’erba fresca di un campo, finimmo col radunarci con compagni della stessa regione, non tanto per parlare, ma per stare assieme e vicini fino all’ora del silenzio”).

 La natura è quasi una culla che, con i suoi silenzi e i suoi rumori, risveglia i sensi del soldato creando un dolce sopore. In modo particolare gli ambienti familiari rimuovono vecchi sentimenti e ricordi: basti pensare alle parole usate nella descrizione di Treviso (città natale dello scrittore), ed in particolare alla giornata trascorsa sul Mondello.

 (“Ero felice. Una felicità tutta generata da sensazioni suscitate in coincidenze incredibili: estate, domenica, sul Montello”).

Nell’ambiente si verifica una fusione di elementi visivi ed elementi emotivi, presentati con brevissime intuizioni che permettono di parlare di “impressionismo pittorico”.

 In questa esigenza di trarre dalla natura una energia vitale, Comisso è paragonabile a D’Annunzio.

L’ordine cronologico nel romanzo è rispettato (infatti il romanzo è diviso in anni), ma quasi non lo si avverte.

Il libro è infatti una successione di singoli avvenimenti che riguardano essenzialmente dati soggettivi (la collocazione all’interno della realtà storica conta poco).

Le notizie di ordine puramente storico, non hanno quell’importanza che vengono ad assumere in genere in un romanzo di guerra (basti pensare alle poche parole spese per la ritirata di Caporetto).

Comisso della ritirata ricorda: “Mi prendeva la stessa gioia del tempo quando da ragazzo, finite le scuole, partivo per la campagna. Ritrovavo difatti una libertà da allora perduta, ma avrei voluto avere il cavallo…”.

Notizie sugli avvenimenti di guerra vengono date, ma all’interno del romanzo perdono valore. Infatti in una qualsiasi azione di guerra, egli sembra attratto da un’infinità di piccoli particolari: l’eleganza dei militari, particolari colori ed altri dati, che suscitano in lui sensazioni e ricordi.

Comisso viene richiamato con i propri compagni dalla Toscana (dove svolge il servizio

militare), in Veneto.

La guerra sembra alle porte ed i giovani fiutano ogni indizio che possa far presumere l’inizio della battaglia.

In quattro anni di guerra (1915-’18), Comisso, che da soldato divenne tenente del genio, non operò al fronte in esplicite azioni di guerra, ma venne spostato da un luogo all’altro. Ed egli dalla guerra egli non coglie tanto i fatti, ma le sensazioni date da ogni minimo movimento, di modo che, ricevuta la notizia della fine del conflitto, traspare, pur tra l’euforia del momento, una nota di malinconia.

 La guerra è il tema oggettivo alla base del romanzo, sembra quasi essere solo un pretesto per parlare di emozioni e sensazioni.

Se non vi fosse qualche esplicito riferimento storico, quella descritta potrebbe essere l’esperienza vissuta da un soldato in un qualsiasi conflitto.

La guerra è quindi un’occasione (come ve ne sono molte altre), un’esperienza di vita, anche se ha il privilegio di essere un’esperienza particolare, fonte di sensazioni forti, e che conferisce un sapore difficilmente riprovabile.

La guerra non è vista in chiave eroica (come l’avrebbe vista ad esempio D’Annunzio), né come esperienza di dolore o come rifiuto della violenza.

Questo non significa che Comisso sia favorevole alla guerra, o insensibile alla sofferenza, perché la sua attenzione è posta su altri elementi.

 Nel momento in cui una situazione drammatica gli si pone davanti, egli la ritrae, ma passa subito avanti

Alzato il telo che lo chiudeva dietro, scorsi accatastate le une sulle altre, come pezzi di legna, le gambe di soldati feriti o forse già morti. Proseguimmo”.

Ciò deriva dal fatto che Comisso si è messo a scrivere il romanzo come se stesse vivendo quelle scene, come se da soldato avesse potuto annotare gli avvenimenti e le sensazioni così come gli capitavano.

Nel momento in cui una bomba scoppia il soldato è coinvolto dalla situazione, la fissa nella mente, ma poi viene subito attratto da qualcos’altro.

E l’odio per la guerra compare (“La guerra mi pareva stupida e ridicola”), solo in modo secondario.

 Quando compaiono nella sua mente episodi di violenza, egli ne fugge o ne evidenzia gli aspetti più positivi.

 L’occasione vitale della guerra è evidenziata in tutto il romanzo: lo stesso marciare è visto come una sensazione positiva, data dal rapporto geometrico creato dai corpi e dal suolo.

L’inizio della guerra dà addirittura l’impressione che stia per iniziare una vita più libera da quella della caserma.

I bersaglieri non sono disperati dalla stanchezza, ma sono divertiti dal sudore che scende dai loro volti. Gli stessi contadini vengono ripresi più che dal lato della loro disperazione, dal lato della loro rabbia e dello stupore nei confronti della guerra (“Dicevano che una cannonata era arrivata vicino alla loro casa, ma sembravano quasi contenti della novità”)

La guerra è vista come un gioco (“Arrivati nel territorio conquistato si provava la stessa curiosità come entrando in un campo pieno di baracconi da fiera…e partii, tutto preso dall’estro felice di credermi ritornato in gioco su di una giostra della mia infanzia”), quasi come un’esperienza di innamoramento.

 Le frasi conclusive riassumono il significato del romanzo

Cercai di imprimerli nella memoria perché ormai ero certo che aspetti simili non sarebbe stato possibile rivedere più”

 Il personaggio centrale e unico è lo scrittore: tutto ciò che ruota intorno è visto con i suoi occhi, sicché l’opera ha carattere soggettivo ed autobiografico (derivato sicuramente dal rinnovamento letterario del ‘900) anche se del protagonista tranne la necessità di vitalità e delle continue esperienze, non si intuisce molto.

  Egli, ad esempio, pur essendo un tenente ufficiale non ha alcuna presunzione tipica dei soldati graduati né fa pesare il proprio ruolo: vive la guerra con dedizione, non tanto per un impegno civile, quanto per sé stesso.

Gli altri personaggi sono secondari e non determinati nella loro individualità (tranne forse per lo zio e pochi altri) ma contribuiscono a creare il clima di guerra: innanzitutto ci sono i soldati, ritratti nell’euforia della loro giovinezza e nel loro cameratismo (“…e ci si abbandonava uno contro al fianco dell’altro”), poi i contadini, le donne…

Se a volte i contadini dimostrano affetto e compassione per i ragazzi in guerra (come quando nelle prime pagine del romanzo viene detto “Poveretti, ci dicevano e guardavano con tale dolcezza da riempirci d’orgoglio”) a volte sono scontrosi e adirati (basti pensare all’episodio del contadino che aggredisce i soldati che gli stanno rubando la frutta o all’atteggiamento ostile nei confronti di Comisso dopo Caporetto).

L’attaccamento dei contadini verso i propri beni e l’odio nei confronti dei soldati che si ritengono legittimi a depredare, è poi espresso significativamente dall’episodio del maialino: la proprietaria è disposta ad ospitare i ragazzi e a offrire loro tutto ciò di cui dispone ma chiede loro di non toccare il maialino, frutto di tante fatiche.

Sicché, quando l’animale viene rubato, la donna si abbandona ad una disperazione che commuove.

Un episodio particolarmente significativo è anche la salita al Rombon, a quota 1.200 metri, sul carrello di una teleferica: il rischio è enorme e tutti i commilitoni esortano lo scrittore a desistere; eppure l’essere sospesi nel vuoto è un’attrazione talmente forte che il protagonista mette da parte tutte le preoccupazioni.

Nell’episodio il pericolo è visto solo come tensione drammatica dato che prevale il piacere di volare nel cielo e soprattutto la sensazione di sentirsi svincolato dal grigiore della vita borghese.